DAL PULPITO
Ius soli, il Papa Francesco e i vescovi predicano ma in Vaticano non esiste
Si fa presto a esigere accoglienza e integrazione per gli immigrati, quando in casa propria si è i primi a tenerli "fuori". E dire che in Vaticano il pulpito per la predica sarebbe anche quello adatto. Eppure alle parole di Papa Francesco e dei vescovi sullo Ius Soli non corrispondo i fatti perché, come ricorda il Fatto quotidiano, lo Stato del Vaticano è per certi versi un paradosso istituzionale.
La popolazione è composta da soli immigrati, ma nessun bambino vi è mai nato. La cittadinanza viene accordata o revocata a discrezione dal capo dello Stato, cioè il Pontefice, e i figli dei cittadini, al 18esimo anno di età, diventano "residenti" con permesso di soggiorno. Le regole in materia sono talmente stringenti che non è consentito sul territorio di San Pietro nessun clandestino e le misure di sicurezza, tra muri e guardie di confine, fanno invidia a quel "cattivone" di Donald Trump. Secondo la legge "sulla cittadinanza, la residenza e l'accesso nello Stato della Città del Vaticano" riammodernata nel 2011 sono cittadini vaticani i cardinali che risiedono nel comune di Roma e dentro le mura leonine, i laici o i prelati residenti nel territorio vaticano per ragioni di dignità, carica, ufficio o impiego, sempre previo assenso del Pontefice. Possono acquistare la cittadinanza anche il coniuge, i figli e i fratelli di un cittadino vaticano purché siano conviventi, la perdono i cardinali, i diplomatici, il personale e i prelati residenti quando cessano dalla carica o dal servizio, così come coniuge e figli di un cittadino vaticano vengono cancellati dall'anagrafe se quel cittadino perde la cittadinanza.
http://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/12418591/ius-soli-cittadinanza-immigrati-leggi-vaticano-predica-papa-francesco-vescovi-.html
La legge italiana sullo jus soli non rispetta la Dottrina sociale della Chiesa
di Giacomo Gubert.
Il disegno di legge (DDL S. 17) in discussione in queste settimane in Senato, volto a introdurre in Italia una forma temperata dello ius soli, suscita numerose perplessità dal punto di vista del bene comune ed in specifico da quello del pensiero sociale cristiano. Ci stupiamo profondamente che persone che hanno a cuore i principi della Dottrina sociale cristiana possano appoggiare, persino pubblicamente, un simile disegno di legge
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Il disegno di legge (DDL S. 17) in discussione in queste settimane in Senato, volto a modificare la vigente legge 91/1992, introducendo in Italia una forma temperata dello ius soli (diritto del suolo) in sostituzione dello ius sanguinis (diritto del sangue) vigente, oltre ad nuovo diritto (detto ius culturae <sic>) che riguarderebbe il diritto di cittadinanza per tutti coloro che frequentano in Italia un intero ciclo scolastico, suscita numerose perplessità dal punto di vista del bene comune ed in specifico da quello del pensiero sociale cristiano.
Lo Stato e le famiglie straniere
In questa sede ci limitiamo ad analizzare una sola ragione di forte perplessità che concerne il rapporto tra Stato e famiglie straniere, residenti in Italia. Il disegno di legge prevede un intervento automatico e obbligatorio dello Stato volto a conferire la cittadinanza italiana a tutti i minori stranieri che nascono all’interno dei confini del nostro Paese o che frequentano almeno cinque anni scolastici. Questo modo di procedere, che già esiste nel nostro ordinamento, è tuttavia giustificato solo nei casi d’emergenza in cui lo straniero, per le circostanze particolari della sua nascita o del suo arrivo in Italia, rischi concretamente di rimanere senza alcuna cittadinanza cadendo nello stato di apolidia. Lo Stato dunque si sente legittimato ad attribuire d’imperio una cittadinanza ad una persona minore per scongiurare questo evento che ha conseguenze dannose, facilmente immaginabili, per la stessa persona e per il bene comune.
Nei casi che prevede il nuovo disegno di legge tuttavia i minori stranieri che nasceranno in Italia, o quelli che concluderanno un ciclo scolastico, possiedono già una cittadinanza e precisamente quella dei loro genitori (o almeno di uno di essi, nel caso di genitori di diversa cittadinanza). Sono dunque già organicamente inseriti, come famiglia, in una comunità nazionale e nella sua storia, pur vivendo per varie ragioni e in vari modi, in un paese straniero. Avendo io vissuto all’estero circa sei anni della mia vita, posso testimoniare che una tale esperienza suscita una forte interrogazione sulla propria appartenenza nazionale, che sarebbe ingiustamente risolta con l’attribuzione automatica di una nuova cittadinanza.
E’ preferibile rimandare la scelta per la cittadinanza alla maggiore età
In questi casi dunque lo Stato interverrebbe all’interno della comunità famigliare sostituendo automaticamente e obbligatoriamente una cittadinanza con la propria, quasi ci fosse stato di emergenza e necessità, come nel rischio di apolidia. Ciò avverrebbe senza consultare la volontà dei genitori del minore (né il minore stesso, ammesso che sia sensato farlo in questa fase della sua esistenza), visto che la nascita in un paese o la frequenza scolastica non possono essere considerate rivelative di una chiara volontà rispetto alla cittadinanza. L’unica ragione che lo Stato adduce per agire in questo modo sarebbe la volontà di meglio integrare questi minori. Ragione che difficilmente potrà essere giudicata sufficiente per due motivi: il legame tra mezzo e fine è tutt’altro che immediato e tutt’altro che evidente nell’esperienza internazionale.
Già in generale un tale intervento dello Stato nella vita della comunità famigliare deve essere giudicato come gravemente lesivo della dignità della stessa. Nel caso particolare della cittadinanza, il giudizio non può che aggravarsi visto che questo specifico intervento non è solo lesivo della dignità della famiglia ma è anche foriero di effetti negativi sulla stessa. La comunità familiare si trova infatti, volente o nolente, divisa, a tutto sfavore dei genitori, tra diverse comunità statali proprio negli anni in cui essi si assumono l’importantissimo compito dell’educazione della prole.
Lo Stato agirebbe, se la legge fosse approvata, in maniera nettamente individualistica e astratta, disconoscendo la realtà della famiglia e obbligando a preferire una cittadinanza solo ipoteticamente vissuta dal minore a quella propria della comunità familiare in cui esso vive.
Sembra dunque preferibile rimandare la scelta della cittadinanza per le persone straniere nate e formate in Italia, all’età adulta, quando si potrà instaurare un libero e responsabile dialogo tra queste persone, che potrebbero voler diventare cittadini italiani, e lo Stato, in rappresentanza della comunità nazionale e del suo bene comune.
Riteniamo questa sola ragione sufficiente a motivare una forte opposizione a questo disegno di legge e ci stupiamo profondamente che persone che hanno a cuore i principi della Dottrina sociale cristiana possano appoggiare, persino pubblicamente, un simile disegno di legge.
Fonte: Osservatorio Internazionale card. Van Thuân
- 22/6/2017
- Libertà e Persona
Il sangue, il suolo e la memoria: ius sanguinis e ius soli di Clemente Sparaco
.
Lo ius soli in discussione in Parlamento non rappresenta una novità rispetto alla normativa vigente, perché, in realtà, già ora sono riconosciuti i diritti di cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia. L’unica differenza è che il minore straniero ora, per chiedere la cittadinanza, deve aspettare diciottesimo anno. Tuttavia, se i suoi genitori sono in Italia da almeno 10 anni, possono chiedere la cittadinanza per loro, che passa di diritto anche al figlio (per lo ius sanguinis).
Inoltre, i minori stranieri possono avvalersi già di tutti i diritti e servizi essenziali di cui godono i minori italiani. Numerose sentenze della Corte Costituzionale hanno, infatti, riconosciuto il principio dell’estendibilità dei diritti fondamentali della persona anche agli stranieri. Lo si vede, del resto, nelle scuole, in cui non c’è differenza tra bambini italiani e stranieri nati in Italia, e negli ospedali, dove l’assistenza sanitaria viene fornita a tutti.
Ma allora dov’è la vera novità?
Manco a dirlo, essa sta nel riconoscimento dei diritti e doveri di natura politica, in primis il diritto di voto. Si capisce, quindi, come la fretta di approvarlo e i toni ideologici, e a tratti retorici, che accompagnano la propaganda siano del tutto strumentali.
Ma è, pur vero, che questo riconoscimento politico implica una di differenza, questa sì, di sostanza. Il diritto al voto comporta, infatti, la partecipazione attiva alle sorti del Paese, la possibilità di votare e deciderne il futuro e dovrebbe sottintendere un’identificazione ed un’appartenenza ai valori della comunità. Proprio in ragione di questo si dà una distanza profonda fra il principio la cittadinanza per sangue (ius sanguinis) e quello per luogo di nascita (ius soli). Perché se la cittadinanza è per sangue, questo vuol dire che l’appartenenza alla comunità è qualcosa di carnale, di viscerale, di profondo, qualcosa che ha a che fare con l’identità della persona e della famiglia in cui la persona si struttura e forma fin dalla nascita.
Il sangue, il suolo e la memoria
Oggi la parola sangue è screditata, in quanto la si associa a fattori etnici che richiamano dottrine razziste e neodarwiniste. Ma nell’accezione antica, latina, essa ha un significato diverso che si riconnette al sangue come sede della vita. Ha, quindi, a che vedere con quel ganglio vitale di rimandi affettivi, emotivi, sentimentali, di fede e di civiltà che fanno la memoria di un popolo. Perché non sono i suoli che fanno un popolo, ma quell’intima energia di sangue che ha il sigillo personale dei padri, con i loro volti, con il ricordo indelebile impresso dentro di noi.
Il popolo ha una storia, una tradizione che si tramanda attraverso le generazioni, che nessuno ha il diritto di negare. E’ quella fede a segnare il suolo e farne un luogo dello spirito, in cui si sedimentano esperienze, sogni, ricordi, immaginazioni, nel percorso del tempo. Sono come segnavia che sostanziano non solo le identità dei popoli, ma anche quelle delle persone. Ed è qualcosa di sacro, nella misura in cui per la Patria si può morire, e si è morti in un passato nemmeno tanto remoto, di cui oggi sembra essersi tuttavia persa la memoria.
Il suolo è invece una mera estensione spaziale da occupare, qualcosa di informe da plasmare, da riempire di tracce del proprio passaggio. Nell’orizzonte del mondo globale esso diventa un luogo del tutto indistinto “dove individui intercambiabili e omologati sono ridotti al rango dell’homo oeconomicus” di evoliana memoria (così Enrico Marino sul blog EriticaMente del 17 giugno).
In quanto assoggettabile e sfruttabile, il suolo s’intende sottoposto alla volontà di chi ne prende possesso e che lo ridisegna a sua misura. Così i nostri suoli portano impressi in sé il disegno degli uomini che vi hanno vissuto, lavorato, progettato, pensato e sognato. Sono i nostri campanili, gli spazi ed i cortili, le chiese, i palazzi e i monumenti in cui il genio artistico del nostro popolo ha prodotto i suoi capolavori. Ma sono anche i campi segnati dalla fatica contadina e dalla sapiente e tenace opera di addomesticamento della natura.
“La cittadinanza – ha dichiarato Alessandro Meluzzi (intelligo news – 15 giugno) – non è un fatto geografico o genetico, è un fatto valoriale e culturale e con questa legge temo andremo ad assestare un altro duro colpo alla nostra identità. Anzi, alla nostra civiltà“.
Si capisce, quindi, bene che in questa precisa congiuntura, caratterizzata contemporaneamente da un’emergenza immigratoria incontrollabile e da una grave e persistente crisi demografica, il cambiamento delle norme sulla cittadinanza può avere conseguenze devastanti. Non solo assisteremo alla distruzione della compattezza storica, culturale, valoriale, che ha da sempre contraddistinto il nostro Paese, anche negli anni in cui non esisteva lo Stato unitario ed indipendente, ma andremo incontro ad una vera e propria fine della nostra civiltà in cui ci riconosciamo come popolo e come popolo libero. Perché, come ha scritto sul Giornale del 18 giugno Magdi Cristiano Allam “accordare lo ius soli e consentire ai musulmani e ai cinesi di autoamministrarsi sulla base di proprie regole e leggi, promuovendo in parallelo l’auto-invasione di milioni di giovani prevalentemente islamici nella fascia d’età dell’esplosione della fertilità maschile, sarebbe un suicidio traducendosi nella sostituzione etnica della popolazione italiana e nella fine della nostra civiltà, nella sottomissione alla dittatura finanziaria e alla tirannia dell’islam”.
Lo ius soli in discussione in Parlamento non rappresenta una novità rispetto alla normativa vigente, perché, in realtà, già ora sono riconosciuti i diritti di cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia. L’unica differenza è che il minore straniero ora, per chiedere la cittadinanza, deve aspettare diciottesimo anno. Tuttavia, se i suoi genitori sono in Italia da almeno 10 anni, possono chiedere la cittadinanza per loro, che passa di diritto anche al figlio (per lo ius sanguinis).
Inoltre, i minori stranieri possono avvalersi già di tutti i diritti e servizi essenziali di cui godono i minori italiani. Numerose sentenze della Corte Costituzionale hanno, infatti, riconosciuto il principio dell’estendibilità dei diritti fondamentali della persona anche agli stranieri. Lo si vede, del resto, nelle scuole, in cui non c’è differenza tra bambini italiani e stranieri nati in Italia, e negli ospedali, dove l’assistenza sanitaria viene fornita a tutti.
Ma allora dov’è la vera novità?
Manco a dirlo, essa sta nel riconoscimento dei diritti e doveri di natura politica, in primis il diritto di voto. Si capisce, quindi, come la fretta di approvarlo e i toni ideologici, e a tratti retorici, che accompagnano la propaganda siano del tutto strumentali.
Ma è, pur vero, che questo riconoscimento politico implica una di differenza, questa sì, di sostanza. Il diritto al voto comporta, infatti, la partecipazione attiva alle sorti del Paese, la possibilità di votare e deciderne il futuro e dovrebbe sottintendere un’identificazione ed un’appartenenza ai valori della comunità. Proprio in ragione di questo si dà una distanza profonda fra il principio la cittadinanza per sangue (ius sanguinis) e quello per luogo di nascita (ius soli). Perché se la cittadinanza è per sangue, questo vuol dire che l’appartenenza alla comunità è qualcosa di carnale, di viscerale, di profondo, qualcosa che ha a che fare con l’identità della persona e della famiglia in cui la persona si struttura e forma fin dalla nascita.
Il sangue, il suolo e la memoria
Oggi la parola sangue è screditata, in quanto la si associa a fattori etnici che richiamano dottrine razziste e neodarwiniste. Ma nell’accezione antica, latina, essa ha un significato diverso che si riconnette al sangue come sede della vita. Ha, quindi, a che vedere con quel ganglio vitale di rimandi affettivi, emotivi, sentimentali, di fede e di civiltà che fanno la memoria di un popolo. Perché non sono i suoli che fanno un popolo, ma quell’intima energia di sangue che ha il sigillo personale dei padri, con i loro volti, con il ricordo indelebile impresso dentro di noi.
Il popolo ha una storia, una tradizione che si tramanda attraverso le generazioni, che nessuno ha il diritto di negare. E’ quella fede a segnare il suolo e farne un luogo dello spirito, in cui si sedimentano esperienze, sogni, ricordi, immaginazioni, nel percorso del tempo. Sono come segnavia che sostanziano non solo le identità dei popoli, ma anche quelle delle persone. Ed è qualcosa di sacro, nella misura in cui per la Patria si può morire, e si è morti in un passato nemmeno tanto remoto, di cui oggi sembra essersi tuttavia persa la memoria.
Il suolo è invece una mera estensione spaziale da occupare, qualcosa di informe da plasmare, da riempire di tracce del proprio passaggio. Nell’orizzonte del mondo globale esso diventa un luogo del tutto indistinto “dove individui intercambiabili e omologati sono ridotti al rango dell’homo oeconomicus” di evoliana memoria (così Enrico Marino sul blog EriticaMente del 17 giugno).
In quanto assoggettabile e sfruttabile, il suolo s’intende sottoposto alla volontà di chi ne prende possesso e che lo ridisegna a sua misura. Così i nostri suoli portano impressi in sé il disegno degli uomini che vi hanno vissuto, lavorato, progettato, pensato e sognato. Sono i nostri campanili, gli spazi ed i cortili, le chiese, i palazzi e i monumenti in cui il genio artistico del nostro popolo ha prodotto i suoi capolavori. Ma sono anche i campi segnati dalla fatica contadina e dalla sapiente e tenace opera di addomesticamento della natura.
“La cittadinanza – ha dichiarato Alessandro Meluzzi (intelligo news – 15 giugno) – non è un fatto geografico o genetico, è un fatto valoriale e culturale e con questa legge temo andremo ad assestare un altro duro colpo alla nostra identità. Anzi, alla nostra civiltà“.
Si capisce, quindi, bene che in questa precisa congiuntura, caratterizzata contemporaneamente da un’emergenza immigratoria incontrollabile e da una grave e persistente crisi demografica, il cambiamento delle norme sulla cittadinanza può avere conseguenze devastanti. Non solo assisteremo alla distruzione della compattezza storica, culturale, valoriale, che ha da sempre contraddistinto il nostro Paese, anche negli anni in cui non esisteva lo Stato unitario ed indipendente, ma andremo incontro ad una vera e propria fine della nostra civiltà in cui ci riconosciamo come popolo e come popolo libero. Perché, come ha scritto sul Giornale del 18 giugno Magdi Cristiano Allam “accordare lo ius soli e consentire ai musulmani e ai cinesi di autoamministrarsi sulla base di proprie regole e leggi, promuovendo in parallelo l’auto-invasione di milioni di giovani prevalentemente islamici nella fascia d’età dell’esplosione della fertilità maschile, sarebbe un suicidio traducendosi nella sostituzione etnica della popolazione italiana e nella fine della nostra civiltà, nella sottomissione alla dittatura finanziaria e alla tirannia dell’islam”.
Ius soli? Non regge da solo
di Marcello Veneziani Arianna Editrice del 19-06-2017
Ma cos’è questa frenesia di approvare lo ius soli in un momento in cui gli italiani si sentono assediati, circondati, invasi da imponenti flussi migratori? Perché un Paese col più pesante deficit della sua storia, afflitto da mille piaghe urgenti, deve dare la priorità al varo di questa norma prima che il governo vada a casa?
Che razza di Paese è questo se governo, parlamento ed establishment danno la priorità assoluta non agli italiani ma agli stranieri? Che segnale diamo al mondo se non di cedimento, disponibilità e di accoglienza prima di ogni altra realistica considerazione?
Stanno scherzando col fuoco, non si rendono conto di quanto costerà il loro” bel gesto”, quali effetti produrrà nel tempo. E ancor più disgusta vedere il panorama uniforme dei media dove non trovi rappresentate le due opinioni divergenti ma solo una, sempre la stessa, ripetuta all’infinito da tutti i pappagalli finto-pensanti e i loro ripetitori automatici.
Chi è contrario o solo perplesso sullo ius soli, o magari si limita a dire che non è la priorità assoluta prima di finire la legislatura, si becca del fascista, razzista, disumano. La stessa cosa si ripete su ogni altro tema sensibile.
Fatta questa premessa, proviamo a ragionare fuori da ogni partito preso.
Di chi siamo figli? In primo luogo dei nostri genitori e tramite loro dei nostri avi, della terra e della storia da cui provengono. Poi diventiamo figli del luogo e del tempo in cui siamo nati. In linea di principio lo ius soli regge su una negazione e un inganno.
La negazione riguarda l’identità del neonato e la famiglia in cui nasce, perché considera irrilevante o comunque meno rilevante il ruolo del padre e della madre rispetto al luogo in cui si trovano a vivere.
L’inganno è che lo ius soli non evoca un legame col suolo, con la patria o la madre terra, non riguarda il popolo, la nazione, la cultura e la religione, la civiltà da cui origina il neonato, ma semplicemente lo stato, il territorio, l’ospedale in cui si è trovato a nascere.
Il retropensiero è che l’identità non conta, vale solo la situazione. Il suolo è un alibi perché subito dopo aggiungono che siamo cittadini del mondo, non abbiamo territorio, siamo delocalizzati.
Sul piano pratico possiamo pure ammettere che chi nasce in Italia e qui cresce, va a scuola e ha come sua prima lingua l’italiano, debba essere considerato a tutti gli effetti cittadino italiano. Ma non semplicemente in virtù del fatto di essere nato, da genitori stranieri, su suolo italiano; lo è diventato perché a quel dato di partenza, che non attiene a nulla di costitutivo della sua identità, si è aggiunto un percorso di vita e un’adesione via via consapevole alla cittadinanza italiana.
Insomma lo ius soli in sé non basta, non è un criterio sufficiente per determinare diritti e doveri, va correlato allo ius sanguinis e coltivato tramite lo ius culturae che trasforma un fatto occasionale in un’appartenenza consapevole.
Ma è inutile ragionare, qui si procede per impulsi emotivi, anatemi e riflessi condizionati. Altro che ius soli, siamo alla desolazione.
Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59086 del 17/06/17 in redazione il 19 Giugno 2017
Ius soli? 14volte no!
Lo ‘ius soli’ ha il valore simbolico dello ‘ius primae noctis’, che sarà stato anche un falso storico, ma da entrambi ricaviamo la stessa percezione di una imposizione calata dall’alto; di una fregatura, insomma.
Non entro nel vivo delle questioni tecniche, nei meandri sempre paradossali e complessi della eventuale legge, dei commi e degli articoli. Resto alla premessa, alla strategia e alla visione d’insieme che è quanto di più antidemocratico si possa considerare in un momento storico come il nostro. Vale a dire, a come si sia arrivati a questo moderno ‘ius primae noctis’ senza un minimo di realismo ma strabordanti di falso ecumenismo che quel geniaccio di Giovanni Papini avrebbe definito ‘pecoreccio’. Perché l’idea nascosta, e perciò non detta, è che il futuro ci prospetti una società globale senza vincoli, limiti e identità, e quindi sia giusto ‘attrezzarci’ per tempo.
Aggiungerei, per onestà, che cosa buona e giusta sarebbe quella di ‘ritirare’ – se solo fosse possibile – la patente di italianità anche a tanti connazionali indegni, ma qui si aprirebbe un altro capitolo che ci porterebbe lontano e quindi restiamo al punto.
Nessuno si ostina a rifiutare il fatto che vi siano persone col pieno diritto di sentirsi ‘ufficialmente’ italiani ma allo stesso tempo bisogna anche accettare che non è solo questione di carte bollate e di timbri. E soprattutto che se vi sono politici che riducono una così complessa questione a slogan di nazionalismo spicciolo e anacronistico, ciò non significhi che le tesi di fondo siano errate e chi li condivida sia un reazionario becero.
E allora provo a confutare, una ad una, le premesse di una scelta che ritengo ideologica prima che politica.
- Leggo di paragoni con l’Impero Romano e mille altri regni o monarchie ed epoche della Storia che farebbero da pezze d’appoggio in tema di moderna inclusione e di integrazione più o meno coatta. Nulla di più sbagliato. Decisioni di questo tipo vanno calate nella realtà sociale di uno specifico contesto storico. Non c’è una legge che vale per tutti i tempi. Così come non c’è un governo o un regime adatto per ogni situazione.
- Che sia una questione ideologica è chiaro e palese a tutti. Il fatto che giornali e Tv intervistino bambini nati in Italia da genitori stranieri, cogliendo il lato umano e drammatico di quelle esperienze, è operazione volgare e indegna.
- Se da una parte c’è chi sostiene questa tesi facendosi vergognosamente scudo con le facce e le storie di bambini, c’è un ministro dell’Interno che ci intima di tenerci lontano dai cattivi maestri. Ora, con tutto il rispetto che si deve per un ministro così importante, va da sé che sentir parlare un ex comunista di cattivi maestri provoca risentimento e irritazione di non lieve entità. Chi sarebbero i ‘cattivi maestri’? Quelli che hanno una posizione diversa sui flussi migratori o sul concetto di cittadinanza? Se è così, si sbaglia caro Ministro; i Salvini e le Meloni di turno non c’entrano. Si tratta di un sacrosanto scontro dialettico che è sale della democrazia.
- Si finisca, una volta e per tutte, di portare come esempio gli altri Paesi. Solo qualche giorno fa, un deputato di Forza Italia ci invitava a dare uno sguardo alla legislazione di non so quale stato africano dove le regole di integrazione sarebbero più restrittive. Non so se sia una boutade o una ‘uscita’ fatta col proposito di provocare una discussione pubblica. Tuttavia, su questo tema vale lo stesso discorso fatto per le riforme costituzionali. Le leggi si fanno tenendo presente l’interesse primario dei cittadini e il contesto storico, economico e sociale. Giolitti diceva che un sarto, quando taglia un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito …e così doveva fare un politico. Ecco, lorsignori facciano il vestito tenendo conto della attuale situazione generale e perciò non annuncino la palingenesi della umanità. Non c’è riuscito Gesù Cristo, dovremmo credere ai sinistrorsi e ai democratici di turno?
- Non è assolutamente vero che il tema della identità non è connesso ai flussi migratori. A leggere i dati, per la quasi totalità, coloro che scappano dai propri paesi sono migranti economici. Sono cioè futura mano d’opera a basso costo che si prepara ad integrarsi nel nostro sistema economico e a rendere ancor più labile le certezze del diritto del lavoro grazie alla percezione reale di poter diventare in un breve-medio periodo cittadini.
- Tenuto conto di ciò, dal punto di vista simbolico, approvare lo ‘ius soli’ sarebbe un colpo micidiale (positivo) per coloro i quali ci ritengono ‘il paese del bengodi’. L’idea di partorire in Italia per ottenere una futura cittadinanza sarebbe un incentivo incredibile per i poveri e i diseredati dell’intero Mediterraneo.
- In tutti i Paesi del mondo cosiddetto civile, gli immigrati si adeguano alle leggi del paese ospitante. Da noi sta succedendo l’inverso. C’è timidezza e ritrosia nel segnalare questa verità lapalissiana quasi si offrisse la stura ad un nuovo razzismo. Tuttavia, di fronte a fenomeni enormi, invece di regolarli e stringere le maglie, abbassiamo ai minimi termini la soglia del lecito e del legittimo.
- Insieme allo ‘ius soli’ il Parlamento ha pensato di collegare una sorta di ‘ius culturae’, una cittadinanza data <<agli under 12 che abbiano frequentato almeno cinque anni di scuola>>. Ma davvero si ritiene che possa essere sufficiente ciò per una reale integrazione? Un riassunto fatto bene all’esame di quinta elementare, delle tabelline citate a memoria o le divisioni? E se anche fosse così, qualcuno ha pensato che se il bambino con regolare licenza elementare e successiva cittadinanza italiana continui a frequentare predicatori di odio, in famiglia, in moschea o da qualunque altra parte, sarà integrato solo formalmente?
- In Paesi come Francia e Belgio le maglie larghe della integrazione hanno chiaramente palesato un tragico fallimento. Tante migliaia di ‘seconde’ e ‘terze’ generazioni sono francesi o belgi solo sulla carta. Come i fatti dimostrano, restano invece legati ai paesi di provenienza dei loro familiari. E questo se da un lato non sarebbe un male perché tutti devono custodire le proprie antiche radici, dall’altro preoccupa perché in non rari casi si rifanno al radicalismo islamico e a fanatismi di vario tipo.
- Una volta che avranno compiuto qualche atto terroristico, non potremmo nemmeno espellerli. Sarebbero italiani e quindi dovrebbero restare nelle nostre carceri, il luogo in cui più si alimenta il fanatismo.
- Italiani-razzisti è un panzana di dimensioni ciclopiche. La tolleranza e la solidarietà dei nostri concittadini supera di gran lunga talune comprensibili liti e contrasti. Tuttavia, quando l’accoglienza è messa da parte e si pensa alla ‘sostituzione’ di un popolo con un altro e nelle periferie piccole e grandi arrivano in massa clandestini, senza nessun ordine, disciplina, legalità, ed anche armonia, il minimo che possa accadere sono le rivolte modello-banlieue.
- Il tema dell’identità non è secondario. Nonostante viviamo in una società magmatica, ‘liquida’ avrebbe detto il famoso sociologo, non significa che ogni riferimento alle proprie radici debba per forza essere azzerato. Ecco perché a me fa paura un paese come la Germania dove si parla di ‘’persone che vivono qui’’ e non più di tedeschi. Su questo concetto si era aperto un dibattito alcuni anni fa ma la situazione non sembra essere cambiata visto che la settimana scorsa la Cancelliera Merkel ha ancora una volta utilizzato lo stesso perfido concetto (‘’tutte le persone che vivono qui’’).
- Non è un dato secondario il fatto che il migrante economico sia essenzialmente lo scopo principale del capitalismo finanziario che vuole esseri apolidi, non legati ad alcuna identità e soprattutto precari nel lavoro e disponibili per mano d’opera a basso costo. Che voglia cioè dei cittadini riconoscibili solo dal loro esser consumatori, senza valori autoctoni di rifermento.
- Ed infine, la deriva tragica ed eterna della sinistra contemporanea che rinnega completamente le sue idee storiche per mettersi dalla parte dei ‘padroni’. Non capisce che è tutto connesso: cittadinanza, flussi migratori, diritto del lavoro, eccetera. Finge di non accorgersi di nulla e porta avanti stupide battaglie ecumeniche che andranno a penalizzare le fasce di popolazione più deboli, proprio quelle che un tempo erano il suo bacino elettorale di riferimento. Ma tant’è.
Stiamo dunque vivendo tempi bui. Aveva ragione Baudelaire: all’inferno si scende per piccoli passi. Ma ho l’impressione che i nostri passi siano grossi e veloci.
Ius soli o Ius sanguinis?
(di Lupo Glori) Ius soli o Ius sanguinis? Questa l’accesa, e a tratti violenta, diatriba politica che negli ultimi giorni ha infiammato il dibattito pubblico, dopo l’approdo al Senato del disegno di legge, approvato alla Camera alla fine del 2015 che, se promulgato, riconoscerebbe automaticamente la cittadinanza italiana a tutti coloro che nascono sul territorio italiano.
Un’epocale cambiamento del nostro istituto giuridico che, con un colpo di spugna, cancellerebbe il secolare principio della discendenza di sangue, per il quale il titolo di cittadino viene trasmesso per diritto, di padre (o madre) in figlio, o attraverso avi di accertata nazionalità italiana.
Il tema è di quelli fortemente divisivi e ha dato vita a schieramenti contrapposti. Da un lato, i favorevoli della “polis universale” e della “cittadinanza globale” che vedono questa legge come una doverosa concessione “umanitaria” e una miracolosa panacea che risolverebbe, d’un tratto, tutti i problemi di integrazione. Sull’altro fronte, i contrari che, all’opposto, in tale disegno di legge, scorgono nitidamente una catastrofe annunciata che porterà a conflitti razziali e alla svendita totale della nostra identità culturale.
All’interno dell’emiciclo, la legge è voluta e sostenuta da tutto il “Partito Democratico” e da “Area Popolare” di Angelino Alfano, mentre sono contrarie le principali forze di opposizione: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia. Il Movimento 5 Stelle ha, per evidente opportunità politica, preferito astenersi su un tema così “spinoso”, come già aveva fatto alla Camera, anche se è facile immaginare che la maggioranza dei suoi deputati per formazione politica sia certamente a favore.
Come spesso accade, anche in tale contesa, i minori sono stati strumentalizzati per impietosire e manipolare l’opinione pubblica. Dare la cittadinanza ai poveri e sfortunati bambini in fuga dalla fame e dalle guerre che «parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole, ecc. ecc.» sembra essere infatti l’argomento principale utilizzato dai sostenitori dello jus soli per spiegare la bontà e la ragioni di una legge che permetterebbe finalmente a questi bambini di sentirsi accolti e “a casa”.
Tuttavia, non ci sembra questo il punto dal quale partire per analizzare e valutare il problema, dal momento che, per altro, questi minori arrivati in Italia, secondo la legislazione attualmente in discussione al Senato, non avrebbero comunque diritto alla cittadinanza, in quanto non nati sul suolo italiano.
Inoltre, in realtà, già da tempo in Italia i minori stranieri, sia che figli di immigrati regolari che di clandestini, godono degli stessi diritti dei minori italiani e raggiunta la maggiore età (18 anni) possono richiedere la cittadinanza e dopo aver solennemente giurato sulla Costituzione diventare cittadini italiani a tutti gli effetti.
Come cambierebbe la legge
L’attuale legge sulla cittadinanza introdotta nel 1992, contempla un’unica modalità di acquisizione diretta, denominata ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”): un bambino ha diritto alla cittadinanza italiana se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se dimostra di essere, fino a quel momento, risieduto in Italia «legalmente e ininterrottamente».
La legge incriminata introduce due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni: il cosiddetto ius soli temperato o “diritto legato al territorio” e lo ius culturae o “diritto legato all’istruzione”.
La prima delle due strade per ottenere la cittadinanza italiana, ius soli “temperato”, a differenza dello ius soli puro, che prevede che chi nasce nel territorio di un certo stato ottenga automaticamente la cittadinanza (oggi è valido solo negli Stati Uniti, ma non è previsto in nessuno stato dell’Unione Europea), stabilisce che «un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proviene dall’Unione Europea, deve aderire ad altri tre parametri: 1) deve avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; 2) deve disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; 3) deve superare un test di conoscenza della lingua italiana».
La seconda strada, ancora più agevolata, per ottenere la cittadinanza è invece quella del cosiddetto ius culturae, e passa attraverso il sistema scolastico italiano: «Potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico».
La cittadinanza nel mondo
Ma fuori di casa nostra come si regolano gli altri paesi? Riccardo Pelliccetti su Il Giornale, a dispetto dei fan dello ius soli, ha fatto notare come nel mondo vi siano ben 160 Paesi che non lo applicano e alcuni di questi che lo avevano adottato hanno fatto successivamente delle prudenti marce indietro: «lo ius soli è tipico dei Paesi anglosassoni, soprattutto il Nord America, territorio d’immigrazione, bisogna ricordare che la Gran Bretagna e l’Eire, dove era in vigore, hanno deciso di abolirlo, rispettivamente nel 1983 e nel 2005. Anche la Germania, che applica lo ius soli, ha messo dei rigidi paletti: cittadinanza ai nuovi nati solo se i genitori hanno un permesso di soggiorno da tre anni e risiedano nel Paese da almeno otto anni. Perché nel mondo allora nessuno lo adotta? Semplice: per tutelare la cultura e l’identità della popolazione e, quindi, la sua sopravvivenza, messa a rischio da uno sbilanciamento etnico e demografico con generazioni che per cultura e fede difficilmente potranno integrarsi nella comunità nazionale».
Anche il politologo Roberto Marchesi, dalle colonne del Il Fatto Quotidiano, in un interessante articolo, ha illustrato i motivi per i quali introdurre lo ius soli in Italia sarebbe una vera e propria “follia”, spiegando come, negli Stati Uniti, l’introduzione della cittadinanza per nascita abbia agito, a suo tempo, da attrattore di mano d’opera a buon mercato, salvo costringere poi negli ultimi anni l’amministrazione americana a costruire un «muro lungo quanto o più della muraglia cinese tra Usa e Messico» per cercare di arginare «l’immigrazione clandestina dal Centro e Sud America».
Per questo secondo Marchesi, «se l’Italia adottasse lo ius soli spalancherebbe la sua già malandata porta d’ingresso a una ondata migratoria dall’Africa (e da tutti i Paesi della confinante Asia Indo-Europea) che sarebbe l’equivalente di uno tsunami umano di proporzioni bibliche. L’Italia non ha attualmente alcun bisogno di mano d’opera a basso costo, ha al contrario bisogno di dare lavoro a una marea di italiani in cerca di lavoro a un livello di paga minima degno degli standard europei. Attivando lo ius soli si amplierebbe all’infinito la possibilità di attribuire a chiunque la cittadinanza italiana senza nemmeno coinvolgere in questo tutta l’Europa. Diventeremmo così la colonia d’Europa. Luogo di arrivo e primo ostello (e crescente povertà) per la procreazione di tutta la futura mano d’opera a basso costo d’Europa».
A conferma del cupo scenario prospettato da Marchesi, l’Osservatorio parlamentare di politica internazionale ha recentemente pubblicato un inquietante dossier intitolato La situazione occupazionale sulle sponde del mediterraneo che certifica, dati alla mano, la drammatica “transizione demografica” in corso nel Mediterraneo a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e della incessante contrazione demografica, per la quale, nello spazio di pochi decenni avremo -2% di europei, +50% di africani e +67% di mediorientali. «Oggi – si legge nel documento – i paesi membri dell’Ue rappresentano il 39,2% del totale Med, che sommato al 16,6% dei ‘candidati’ porta il totale al 55,8%. Il restante 44,2% è composto dalla popolazione del Medio oriente (8,7%) e da quella del nord Africa (35,5%). Gli europei che si affacciano sul Mediterraneo oggi sono più della metà del totale ma, tra 35 anni, scenderanno al 46,3% e, di conseguenza, avranno perso la “maggioranza”. Il 53,7% sarà invece composto da Nord africani e medio orientali, che nel 2050 saranno 120,8 milioni in più rispetto ai numeri del 2015. (…) In un solo secolo il mediterraneo cambierà completamente la sua demografia, con quelli che una volta rappresentavano il 76,3% della popolazione che si ritroveranno sotto la soglia del 50%».
In ultima analisi, non è possibile valutare l’adozione di una legge “impattante” come lo ius soli senza considerare il problema dei problemi, ovvero l’Islam.
È evidente come il conferimento della cittadinanza automatica ai figli dei tantissimi immigrati già residenti in Italia accelererebbe in maniera cruciale la già costante e sostenuta crescita demografica della popolazione musulmana nel nostro paese, rendendo realtà quanto profetizzato da Houari Boumediene nel 1974 dagli scranni delle Nazioni Unite: «Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per fare irruzione nell’emisfero nord. E non in modo amichevole. Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. È il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria».
In questo senso, l’adozione dello ius soli rappresenta un formidabile e suicida assist servito su un piatto d’argento ai fautori della strategia d’espansione islamica, per così dire,“soft”, in quanto alternativa a quella “dura” rappresentata dal terrorismo, che mira a conquistare il potere per vie pacifiche attraverso i nostri stessi mezzi democratici. Ed è proprio in questa prospettiva che recentemente l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII), la più diffusa e radicata organizzazione islamica presente in Italia, ha dato vita alla “Assemblea Costituente islamica” come strumento finalizzato a «dare ai musulmani una rappresentanza eletta», ovvero a costituire un partito politico islamico che possa un domani non così lontano rappresentare le istanze del Corano nel nostro Parlamento. (Lupo Glori)
URL to article: https://www.corrispondenzaromana.it/ius-soli-o-ius-sanguinis/
Un’epocale cambiamento del nostro istituto giuridico che, con un colpo di spugna, cancellerebbe il secolare principio della discendenza di sangue, per il quale il titolo di cittadino viene trasmesso per diritto, di padre (o madre) in figlio, o attraverso avi di accertata nazionalità italiana.
Il tema è di quelli fortemente divisivi e ha dato vita a schieramenti contrapposti. Da un lato, i favorevoli della “polis universale” e della “cittadinanza globale” che vedono questa legge come una doverosa concessione “umanitaria” e una miracolosa panacea che risolverebbe, d’un tratto, tutti i problemi di integrazione. Sull’altro fronte, i contrari che, all’opposto, in tale disegno di legge, scorgono nitidamente una catastrofe annunciata che porterà a conflitti razziali e alla svendita totale della nostra identità culturale.
All’interno dell’emiciclo, la legge è voluta e sostenuta da tutto il “Partito Democratico” e da “Area Popolare” di Angelino Alfano, mentre sono contrarie le principali forze di opposizione: Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia. Il Movimento 5 Stelle ha, per evidente opportunità politica, preferito astenersi su un tema così “spinoso”, come già aveva fatto alla Camera, anche se è facile immaginare che la maggioranza dei suoi deputati per formazione politica sia certamente a favore.
Come spesso accade, anche in tale contesa, i minori sono stati strumentalizzati per impietosire e manipolare l’opinione pubblica. Dare la cittadinanza ai poveri e sfortunati bambini in fuga dalla fame e dalle guerre che «parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole, ecc. ecc.» sembra essere infatti l’argomento principale utilizzato dai sostenitori dello jus soli per spiegare la bontà e la ragioni di una legge che permetterebbe finalmente a questi bambini di sentirsi accolti e “a casa”.
Tuttavia, non ci sembra questo il punto dal quale partire per analizzare e valutare il problema, dal momento che, per altro, questi minori arrivati in Italia, secondo la legislazione attualmente in discussione al Senato, non avrebbero comunque diritto alla cittadinanza, in quanto non nati sul suolo italiano.
Inoltre, in realtà, già da tempo in Italia i minori stranieri, sia che figli di immigrati regolari che di clandestini, godono degli stessi diritti dei minori italiani e raggiunta la maggiore età (18 anni) possono richiedere la cittadinanza e dopo aver solennemente giurato sulla Costituzione diventare cittadini italiani a tutti gli effetti.
Come cambierebbe la legge
L’attuale legge sulla cittadinanza introdotta nel 1992, contempla un’unica modalità di acquisizione diretta, denominata ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”): un bambino ha diritto alla cittadinanza italiana se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se dimostra di essere, fino a quel momento, risieduto in Italia «legalmente e ininterrottamente».
La legge incriminata introduce due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni: il cosiddetto ius soli temperato o “diritto legato al territorio” e lo ius culturae o “diritto legato all’istruzione”.
La prima delle due strade per ottenere la cittadinanza italiana, ius soli “temperato”, a differenza dello ius soli puro, che prevede che chi nasce nel territorio di un certo stato ottenga automaticamente la cittadinanza (oggi è valido solo negli Stati Uniti, ma non è previsto in nessuno stato dell’Unione Europea), stabilisce che «un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proviene dall’Unione Europea, deve aderire ad altri tre parametri: 1) deve avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; 2) deve disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; 3) deve superare un test di conoscenza della lingua italiana».
La seconda strada, ancora più agevolata, per ottenere la cittadinanza è invece quella del cosiddetto ius culturae, e passa attraverso il sistema scolastico italiano: «Potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico».
La cittadinanza nel mondo
Ma fuori di casa nostra come si regolano gli altri paesi? Riccardo Pelliccetti su Il Giornale, a dispetto dei fan dello ius soli, ha fatto notare come nel mondo vi siano ben 160 Paesi che non lo applicano e alcuni di questi che lo avevano adottato hanno fatto successivamente delle prudenti marce indietro: «lo ius soli è tipico dei Paesi anglosassoni, soprattutto il Nord America, territorio d’immigrazione, bisogna ricordare che la Gran Bretagna e l’Eire, dove era in vigore, hanno deciso di abolirlo, rispettivamente nel 1983 e nel 2005. Anche la Germania, che applica lo ius soli, ha messo dei rigidi paletti: cittadinanza ai nuovi nati solo se i genitori hanno un permesso di soggiorno da tre anni e risiedano nel Paese da almeno otto anni. Perché nel mondo allora nessuno lo adotta? Semplice: per tutelare la cultura e l’identità della popolazione e, quindi, la sua sopravvivenza, messa a rischio da uno sbilanciamento etnico e demografico con generazioni che per cultura e fede difficilmente potranno integrarsi nella comunità nazionale».
Anche il politologo Roberto Marchesi, dalle colonne del Il Fatto Quotidiano, in un interessante articolo, ha illustrato i motivi per i quali introdurre lo ius soli in Italia sarebbe una vera e propria “follia”, spiegando come, negli Stati Uniti, l’introduzione della cittadinanza per nascita abbia agito, a suo tempo, da attrattore di mano d’opera a buon mercato, salvo costringere poi negli ultimi anni l’amministrazione americana a costruire un «muro lungo quanto o più della muraglia cinese tra Usa e Messico» per cercare di arginare «l’immigrazione clandestina dal Centro e Sud America».
Per questo secondo Marchesi, «se l’Italia adottasse lo ius soli spalancherebbe la sua già malandata porta d’ingresso a una ondata migratoria dall’Africa (e da tutti i Paesi della confinante Asia Indo-Europea) che sarebbe l’equivalente di uno tsunami umano di proporzioni bibliche. L’Italia non ha attualmente alcun bisogno di mano d’opera a basso costo, ha al contrario bisogno di dare lavoro a una marea di italiani in cerca di lavoro a un livello di paga minima degno degli standard europei. Attivando lo ius soli si amplierebbe all’infinito la possibilità di attribuire a chiunque la cittadinanza italiana senza nemmeno coinvolgere in questo tutta l’Europa. Diventeremmo così la colonia d’Europa. Luogo di arrivo e primo ostello (e crescente povertà) per la procreazione di tutta la futura mano d’opera a basso costo d’Europa».
A conferma del cupo scenario prospettato da Marchesi, l’Osservatorio parlamentare di politica internazionale ha recentemente pubblicato un inquietante dossier intitolato La situazione occupazionale sulle sponde del mediterraneo che certifica, dati alla mano, la drammatica “transizione demografica” in corso nel Mediterraneo a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e della incessante contrazione demografica, per la quale, nello spazio di pochi decenni avremo -2% di europei, +50% di africani e +67% di mediorientali. «Oggi – si legge nel documento – i paesi membri dell’Ue rappresentano il 39,2% del totale Med, che sommato al 16,6% dei ‘candidati’ porta il totale al 55,8%. Il restante 44,2% è composto dalla popolazione del Medio oriente (8,7%) e da quella del nord Africa (35,5%). Gli europei che si affacciano sul Mediterraneo oggi sono più della metà del totale ma, tra 35 anni, scenderanno al 46,3% e, di conseguenza, avranno perso la “maggioranza”. Il 53,7% sarà invece composto da Nord africani e medio orientali, che nel 2050 saranno 120,8 milioni in più rispetto ai numeri del 2015. (…) In un solo secolo il mediterraneo cambierà completamente la sua demografia, con quelli che una volta rappresentavano il 76,3% della popolazione che si ritroveranno sotto la soglia del 50%».
In ultima analisi, non è possibile valutare l’adozione di una legge “impattante” come lo ius soli senza considerare il problema dei problemi, ovvero l’Islam.
È evidente come il conferimento della cittadinanza automatica ai figli dei tantissimi immigrati già residenti in Italia accelererebbe in maniera cruciale la già costante e sostenuta crescita demografica della popolazione musulmana nel nostro paese, rendendo realtà quanto profetizzato da Houari Boumediene nel 1974 dagli scranni delle Nazioni Unite: «Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per fare irruzione nell’emisfero nord. E non in modo amichevole. Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. È il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria».
In questo senso, l’adozione dello ius soli rappresenta un formidabile e suicida assist servito su un piatto d’argento ai fautori della strategia d’espansione islamica, per così dire,“soft”, in quanto alternativa a quella “dura” rappresentata dal terrorismo, che mira a conquistare il potere per vie pacifiche attraverso i nostri stessi mezzi democratici. Ed è proprio in questa prospettiva che recentemente l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII), la più diffusa e radicata organizzazione islamica presente in Italia, ha dato vita alla “Assemblea Costituente islamica” come strumento finalizzato a «dare ai musulmani una rappresentanza eletta», ovvero a costituire un partito politico islamico che possa un domani non così lontano rappresentare le istanze del Corano nel nostro Parlamento. (Lupo Glori)
URL to article: https://www.corrispondenzaromana.it/ius-soli-o-ius-sanguinis/
Quando il migrante è il nemico pubblico. Un saggio attualissimo di Álvaro d'Ors
Del tutto attuale in un periodo di immigrazione clandestina di massa è il saggio del grande giurista cattolico spagnolo Álvaro d'Ors Bien Común y Enemigo Público, pubblicato in Spagna dalla casa editrice Marcial Pons e recentemente tradotto in Austria dal domenicano Wolfgang Hariolf Spindler, che è anche l'autore di una interessante introduzione, per la casa editrice Karolinger Verlag (Gemeinwohl und Öffentlicher Feind, Wien 2015, Karolinger Verlag, 130 pagine, 19,90 Euro). Prima di darne conto con uno studio più approfondito vogliamo segnalare compendiosamente i temi affrontati e la tesi sostenuta proprio in considerazione del dibattito attuale. D'Ors sostiene infatti che in determinate circostanze le comunità politiche devono, per autoconservarsi e per difendere il "bene comune", dichiarare i migranti "nemico pubblico".
Le coordinate del pensiero di d'Ors sono il Diritto romano, di cui fu professore presso le Università di Santiago e di Pamplona, e il Diritto naturale compreso secondo la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica e il suo radicamento trinitario. All'interno della disputazione di questa specifica questione sono assunte dall'Autore anche le categorie politiche di "amico-nemico" formulate da Carl Schmitt al quale d'Ors era legato da una fraterna e feconda amicizia personale e intellettuale, anche se non priva delle divergenze intellettuali ben testimoniate da una lunga e sostanziale corrispondenza (C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, Duncker & Humblot, cut. M. Herrero Berlin 2004).
Per d'Ors, che distingue il "bene comune" dal bene " privato" e dal "bene pubblico" sottomettendo gli ultimi al giudizio del "bene comune" come parametro oggettivo costante, la determinazione del "nemico pubblico" è caratterizzata sempre da una certa relatività poiché il "nemico pubblico" è sempre "nemico di un determinato gruppo". In particolare nello Stato moderno, e ciò costituisce per il giurista spagnolo un problema, la determinazione del nemico deve considerarsi in stretto rapporto con il principio di maggioranza. In ogni caso il nemico è "pubblico" poiché "pubblica", cioè concernente non il singolo privato ma una comunità politica in rapporto a un altro gruppo, è la determinazione del nemico (d'altro canto, proprio per questo, il "nemico pubblico" non può considerarsi nemico di tutta l'umanità!). Per d’Ors, come per Schmitt, ciò significa che l’inimicizia pubblica si deve sempre dirigere contro un determinato gruppo.
Coerentemente rispetto a queste premesse, secondo d’Ors, affinché vi sia il nemico pubblico, è necessario che questo sia dichiarato. In questo modo il gruppo, contro il quale si rivolge l’inimicizia, può venire a conoscenza della condizione di inimicizia in cui è stato posto. La forma più radicale di "inimicizia pubblica" consegue alla dichiarazione di guerra che introduce un ordinamento e giudici eccezionali e rende legittimi atti che altrimenti sarebbero giudicati contrari al diritto. La dichiarazione di guerra può essere diretta anche al nemico interno. L'inimicizia interna si manifesta anche nella riprovazione di determinati gruppi le cui opinioni sono considerate intollerabili.
Così nell’Antichità la dichiarazione formale di inimicizia era necessaria per poter dare inizio a una guerra ai cui atti di violenza si applicava il diritto di guerra. Il che ha un preciso significato: una volta che qualcuno è dichiarato nemico, ne diventa legittimo l’annientamento. In questo senso l’annientamento sociale di un nemico interno sul presupposto di un’opinione che non può essere tollerata è legittimato come atto di difesa. Il problema delle comunità statali moderne fondate sulla neutralizzazione dei fondamenti morali e ultimamente religiosi del politico si palesa proprio quando la dichiarazione dello status di nemico è presa, o respinta, con una decisione a maggioranza con la quale un determinato gruppo viene discriminato e criminalizzato oppure assolto (nonostante l'oggettiva pericolosità per il bene della comunità).
Del tutto indipendentemente dal loro contenuto le decisioni prese a maggioranza presentano dunque, così come le intende d’Ors, un carattere quanto meno problematico. Il principio di maggioranza, slegato da ogni vincolo contenutistico e veritativo e, in ultimo, dal "bene comune" come conformità al Diritto naturale, è caratterizzato da una costitutiva irrazionalità. La determinazione (o non determinazione) del nemico come ogni altra decisione politica è così indirizzata dal mero criterio formale della maggioranza al probabile disordine sociale. In tutto ciò d’Ors vede non soltanto un operare contrario alla ragione, ma anche alla responsabilità. Infatti “la decisione a maggioranza è espressione dell’opzione della libera volontà di un gruppo umano, ma non contiene la garanzia di un’effettiva assunzione di responsabilità”. Ciò significa che le decisioni prese a maggioranza non sono responsabili e non possono perciò fondare un’azione responsabile. La maggioranza non è infatti un singolo individuo che può essere chiamato a rispondere per una decisione, ma una massa di indefinite responsabilità.
Urgente per d’Ors è risparmiare l’ambito del bene comune dalle decisioni ingiuste. Per lui il bene comune è “ciò che corrisponde alla legge naturale […] e non una serie di principi etici che sono stabiliti in base al consenso degli uomini”. Questa legge naturale o diritto naturale, diversamente da quanto è accaduto al Diritto canonico, è scomparsa dagli ordinamenti. Il suo posto è stato preso dal positivismo in base al quale ha validità di diritto tutto ciò che è stato posto come diritto, come legge. A differenza di Carl Schmitt, che riconosce nello Stato un prodotto necessario della storia e un'istituzione essenziale per l'esistenza del diritto, per d’Ors, sostenitore del carlismo politico, lo Stato non è più che uno “falso sviluppo della secolarizzazione” e, prima ancora, della Riforma protestante. Già in una lettera del 3 ottobre 1962 scriveva a Schmitt che “la dottrina sociale cattolica è di per sé inconciliabile con l’idea di ‘Stato’” (C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, cit. p. 224). Non lo Stato moderno ma la comunità storica e tradizionale è perciò competente a garantire la conformità del bene comune con la legge naturale.
L’immigrazione comporta una violazione del Diritto naturale quando avviene in massa. Se è pur vero che, sempre secondo il Diritto naturale, l’uomo dovrebbe potersi muovere liberamente, non si può trascurare che quella che è esclusivamente una libertà individuale, non può essere riferita a un intero gruppo. “Lo spostamento di massa di uomini dal proprio territorio in un territorio straniero” piuttosto che l'esercizio della libertà di singoli uomini nel tempo rappresenta un’invasione. E se dunque si comprende il bene comune secondo il suo fondamento nel Diritto naturale, la resistenza a una simile invasione a difesa dello stesso bene comune - la continuità e conservazione di una comunità politica conformemente al Diritto naturale - deve essere considerata un intervento legittimo. A una comunità è consentito “impedire l’immigrazione nel proprio territorio attraverso misure preventive. Ciò che non può fare, è tentare di purificarsi dell’immigrazione già avvenuta, giacché allora essa ha ormai perduto la propria precedente identità”.
Un migrante pertanto è un nemico pubblico fintanto che, in quanto appartenente a un gruppo estraneo in movimento, si trovi al di fuori del territorio della comuinità. L’inimicizia è dichiarata in questo caso tramite la salvaguardia delle frontiere. Tutti i problemi, che in un paese insorgono in relazione all’immigrazione di massa, hanno origine dall’omissione della dichiarazione del nemico. Dichiarazione che ha l’efficacia di proteggere il bene comune e di impedire l’invasione soltanto se ha luogo nel momento giusto.
Fonti:
G. Breuer, Der Migrant: Ein öffentlicher Feind? (qui)
J. Adame Goddard, d'Ors, Álvaro, Bién Comun y Enemigo Público (qui)
Á. d'Ors, Gemeinwohl und Öffentlicher Feind, Wien 2015, Karolinger Verlag.
C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, Duncker & Humblot, cut. M. Herrero Berlin 2004.
Le coordinate del pensiero di d'Ors sono il Diritto romano, di cui fu professore presso le Università di Santiago e di Pamplona, e il Diritto naturale compreso secondo la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica e il suo radicamento trinitario. All'interno della disputazione di questa specifica questione sono assunte dall'Autore anche le categorie politiche di "amico-nemico" formulate da Carl Schmitt al quale d'Ors era legato da una fraterna e feconda amicizia personale e intellettuale, anche se non priva delle divergenze intellettuali ben testimoniate da una lunga e sostanziale corrispondenza (C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, Duncker & Humblot, cut. M. Herrero Berlin 2004).
Per d'Ors, che distingue il "bene comune" dal bene " privato" e dal "bene pubblico" sottomettendo gli ultimi al giudizio del "bene comune" come parametro oggettivo costante, la determinazione del "nemico pubblico" è caratterizzata sempre da una certa relatività poiché il "nemico pubblico" è sempre "nemico di un determinato gruppo". In particolare nello Stato moderno, e ciò costituisce per il giurista spagnolo un problema, la determinazione del nemico deve considerarsi in stretto rapporto con il principio di maggioranza. In ogni caso il nemico è "pubblico" poiché "pubblica", cioè concernente non il singolo privato ma una comunità politica in rapporto a un altro gruppo, è la determinazione del nemico (d'altro canto, proprio per questo, il "nemico pubblico" non può considerarsi nemico di tutta l'umanità!). Per d’Ors, come per Schmitt, ciò significa che l’inimicizia pubblica si deve sempre dirigere contro un determinato gruppo.
Coerentemente rispetto a queste premesse, secondo d’Ors, affinché vi sia il nemico pubblico, è necessario che questo sia dichiarato. In questo modo il gruppo, contro il quale si rivolge l’inimicizia, può venire a conoscenza della condizione di inimicizia in cui è stato posto. La forma più radicale di "inimicizia pubblica" consegue alla dichiarazione di guerra che introduce un ordinamento e giudici eccezionali e rende legittimi atti che altrimenti sarebbero giudicati contrari al diritto. La dichiarazione di guerra può essere diretta anche al nemico interno. L'inimicizia interna si manifesta anche nella riprovazione di determinati gruppi le cui opinioni sono considerate intollerabili.
Così nell’Antichità la dichiarazione formale di inimicizia era necessaria per poter dare inizio a una guerra ai cui atti di violenza si applicava il diritto di guerra. Il che ha un preciso significato: una volta che qualcuno è dichiarato nemico, ne diventa legittimo l’annientamento. In questo senso l’annientamento sociale di un nemico interno sul presupposto di un’opinione che non può essere tollerata è legittimato come atto di difesa. Il problema delle comunità statali moderne fondate sulla neutralizzazione dei fondamenti morali e ultimamente religiosi del politico si palesa proprio quando la dichiarazione dello status di nemico è presa, o respinta, con una decisione a maggioranza con la quale un determinato gruppo viene discriminato e criminalizzato oppure assolto (nonostante l'oggettiva pericolosità per il bene della comunità).
Del tutto indipendentemente dal loro contenuto le decisioni prese a maggioranza presentano dunque, così come le intende d’Ors, un carattere quanto meno problematico. Il principio di maggioranza, slegato da ogni vincolo contenutistico e veritativo e, in ultimo, dal "bene comune" come conformità al Diritto naturale, è caratterizzato da una costitutiva irrazionalità. La determinazione (o non determinazione) del nemico come ogni altra decisione politica è così indirizzata dal mero criterio formale della maggioranza al probabile disordine sociale. In tutto ciò d’Ors vede non soltanto un operare contrario alla ragione, ma anche alla responsabilità. Infatti “la decisione a maggioranza è espressione dell’opzione della libera volontà di un gruppo umano, ma non contiene la garanzia di un’effettiva assunzione di responsabilità”. Ciò significa che le decisioni prese a maggioranza non sono responsabili e non possono perciò fondare un’azione responsabile. La maggioranza non è infatti un singolo individuo che può essere chiamato a rispondere per una decisione, ma una massa di indefinite responsabilità.
Urgente per d’Ors è risparmiare l’ambito del bene comune dalle decisioni ingiuste. Per lui il bene comune è “ciò che corrisponde alla legge naturale […] e non una serie di principi etici che sono stabiliti in base al consenso degli uomini”. Questa legge naturale o diritto naturale, diversamente da quanto è accaduto al Diritto canonico, è scomparsa dagli ordinamenti. Il suo posto è stato preso dal positivismo in base al quale ha validità di diritto tutto ciò che è stato posto come diritto, come legge. A differenza di Carl Schmitt, che riconosce nello Stato un prodotto necessario della storia e un'istituzione essenziale per l'esistenza del diritto, per d’Ors, sostenitore del carlismo politico, lo Stato non è più che uno “falso sviluppo della secolarizzazione” e, prima ancora, della Riforma protestante. Già in una lettera del 3 ottobre 1962 scriveva a Schmitt che “la dottrina sociale cattolica è di per sé inconciliabile con l’idea di ‘Stato’” (C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, cit. p. 224). Non lo Stato moderno ma la comunità storica e tradizionale è perciò competente a garantire la conformità del bene comune con la legge naturale.
L’immigrazione comporta una violazione del Diritto naturale quando avviene in massa. Se è pur vero che, sempre secondo il Diritto naturale, l’uomo dovrebbe potersi muovere liberamente, non si può trascurare che quella che è esclusivamente una libertà individuale, non può essere riferita a un intero gruppo. “Lo spostamento di massa di uomini dal proprio territorio in un territorio straniero” piuttosto che l'esercizio della libertà di singoli uomini nel tempo rappresenta un’invasione. E se dunque si comprende il bene comune secondo il suo fondamento nel Diritto naturale, la resistenza a una simile invasione a difesa dello stesso bene comune - la continuità e conservazione di una comunità politica conformemente al Diritto naturale - deve essere considerata un intervento legittimo. A una comunità è consentito “impedire l’immigrazione nel proprio territorio attraverso misure preventive. Ciò che non può fare, è tentare di purificarsi dell’immigrazione già avvenuta, giacché allora essa ha ormai perduto la propria precedente identità”.
Un migrante pertanto è un nemico pubblico fintanto che, in quanto appartenente a un gruppo estraneo in movimento, si trovi al di fuori del territorio della comuinità. L’inimicizia è dichiarata in questo caso tramite la salvaguardia delle frontiere. Tutti i problemi, che in un paese insorgono in relazione all’immigrazione di massa, hanno origine dall’omissione della dichiarazione del nemico. Dichiarazione che ha l’efficacia di proteggere il bene comune e di impedire l’invasione soltanto se ha luogo nel momento giusto.
Fonti:
G. Breuer, Der Migrant: Ein öffentlicher Feind? (qui)
J. Adame Goddard, d'Ors, Álvaro, Bién Comun y Enemigo Público (qui)
Á. d'Ors, Gemeinwohl und Öffentlicher Feind, Wien 2015, Karolinger Verlag.
C. Schmitt - Á. d'Ors, Briefwechsel, Duncker & Humblot, cut. M. Herrero Berlin 2004.
Ius Soli e il rischio Sudafrica
DI MASSIMO BORDIN
micidial.it
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