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mercoledì 19 luglio 2017

Non è la morte che fa il martire


Il nuovo Pantheon dei martiri di papa Francesco        


(di Roberto de Mattei) Tra i tanti “gruppi di lavoro” costituiti da papa Francesco c’è la Commissione mista di Esperti croati cattolici e serbi ortodossi per una rilettura in comune della figura del Cardinale Alojzije Stepinac, Arcivescovo di Zagabria che, nei giorni 12 e 13 luglio 2017, ha tenuto, presso la Domus Sanctae Marthae in Vaticano, la sua ultima riunione, sotto la presidenza del padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.
Il comunicato congiunto della Commissione, pubblicato dalla Sala Stampa della Santa Sede il 13 luglio, afferma che «lo studio della vita del Cardinale Stepinac ha insegnato che nella storia tutte le Chiese hanno crudelmente sofferto diverse persecuzioni e hanno i loro martiri e confessori della fede. A tale riguardo, i membri della Commissione hanno convenuto sulla eventualità di una futura collaborazione, in vista di un’opera comune, per condividere la memoria dei martiri e dei confessori delle due Chiese».
Questa affermazione, che sintetizza sei incontri di lavoro svolti dalla Commissione, capovolge la concezione cattolica di martirio. Il martirio infatti, secondo la Chiesa cattolica, è la morte affrontata per testimoniare la Verità. Non una qualsiasi verità, ma una Verità di fede o di morale cattolica. Nella Chiesa si celebra, ad esempio, il martirio di san Giovanni Battista, che subì la morte per aver ripreso pubblicamente l’adulterio di Erode. Vale il detto di sant’Agostino: martyres non facit poena, sed causa (Enarrationes in Psalmos, 34, 13, col. 331). Non è la morte che fa il martire, ma la ragione della morte, inflitta in odio alla fede o alla morale cattolica.
Per la commissione presieduta dal padre Ardura, invece, martyres non facit causa, sed poena: non altro significa l’equiparazione, «dei martiri e dei confessori delle due Chiese», la cattolica e l’ortodossa. Questo principio, secondo il comunicato, può essere esteso a “tutte le Chiese”, che hanno avuto “martiri” e “confessori” delle rispettive fedi.
Ma se martire è colui che subisce la morte per difendere la propria verità, perché non considerare martire quel cristiano sui generis che fu Giordano Bruno, messo al rogo dalla Chiesa cattolica a Campo de’ Fiori, il 17 febbraio 1600? In fondo la massoneria lo ha sempre considerato un “martire” della religione della libertà e come tale l’apostata domenicano è stato onorato lo scorso 17 febbraio, presso la sede del Grande Oriente d’Italia.
È stato proprio un sacerdote, don Francesco Pontoriero, della diocesi di Mileto, che, nella sede della Massoneria italiana, ha ricostruito le scelte di Giordano Bruno «fino all’ultima, quello che lo portò a far ritorno a Venezia, dove pendeva su di lui una condanna a morte, e quindi ad abbracciare il martirio, nella consapevolezza che solo così il suo messaggio di libertà sarebbe arrivato lontano nel tempo».
L’incontro di Santa Marta è stato preceduto di due giorni da un provvedimento di papa Francesco sfuggito all’attenzione generale: il Motu proprio Maiorem hac dilectionem, dell’11 luglio, che introduce «l’offerta della vita» come una nuova fattispecie dell’iter di beatificazione e canonizzazione, distinta dalle modalità tradizionali del martirio e dell’eroicità delle virtù.
In un articolo pubblicato lo stesso 11 luglio sull’Osservatore Romano, l’arcivescovo Marcello Bartolucci, segretario della Congregazione delle cause dei santi, spiega che finora, le tre vie prestabilite per giungere alla beatificazione, erano quelle del martirio, delle virtù eroiche e della cosiddetta “beatificazione equipollente”. Ora a queste tre viene aggiunta una quarta via, «dell’offerta della vita» che «intende valorizzare una eroica testimonianza cristiana, finora senza una procedura specifica, proprio perché non rientra del tutto nella fattispecie del martirio e neppure in quella delle virtù eroiche».
Il Motu proprio precisa che l’offerta della vita, affinché sia valida ed efficace per la beatificazione di un Servo di Dio, deve rispondere ai seguenti criteri: a) offerta libera e volontaria della vita ed eroica accettazione propter caritatem di una morte certa e a breve termine; b) nesso tra l’offerta della vita e la morte prematura; c) esercizio, almeno in grado ordinario, delle virtù cristiane prima dell’offerta della vita e, poi, fino alla morte; d) esistenza della fama sanctitatis et signorum, almeno dopo la morte; e. necessità del miracolo per la beatificazione, avvenuto dopo la morte del Servo di Dio e per sua intercessione.
Ma cosa significa propter caritatem? La carità, definita da san Tommaso come un’amicizia dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo (Summa Theologiae, II-IIae, q, 23, a. 1) è la più eccellente di tutte le virtù. Essa consiste nell’amare Dio e, in Dio, il nostro prossimo. La carità non è dunque quella virtù che ci porta ad amare i nostri simili, in quanto uomini, ma è un atto soprannaturale che ha in Dio il suo fondamento e il suo ultimo fine. La carità ha inoltre un ordine: innanzitutto gli interessi spirituali del nostro prossimo devono prevalere sui suoi interessi materiali. In secondo luogo bisogna amare coloro che ci sono vicini prima di coloro che ci sono lontani (Summa Theologiae, II-IIae,II-IIae, q. 26, a. 7), e se mai ci dovesse essere contrasto tra gli interessi dei vicini e quelli dei lontani bisognerebbe far prevalere i primi sui secondi. È questa la nuova visione del Motu proprio papale? C’è da dubitarne.
Intervistato dal settimanale dell’arcidiocesi di Gorizia, Voce Isontina, mons. Vincenzo Paglia, nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vitaha espresso la propria gioia per il documento di papa Francesco anche perché, sottolinea, «ne sono stato in qualche modo coinvolto come postulatore della Causa di beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero». «L’arcivescovo di El Salvador, infatti, – prosegue – non è stato ucciso da persecutori atei affinché rinnegasse la fede nella Trinità: è stato assassinato da cristiani perché voleva che il Vangelo fosse vissuto nella sua profonda intuizione di dono della vita».
Mons. Romero offre dunque il modello di una “offerta della vita” equiparata al martirio. La “quarta via” che, secondo il Motu proprio di papa Francesco, porterà alla canonizzazione è la morte subita non in odio alla fede, ma come conseguenza di una scelta politica a servizio dei poveri, degli immigrati e delle “periferie” della terra.
Si potranno escludere dalla beatificazione i preti guerriglieri morti propter caritatem, nelle rivoluzioni politiche degli ultimi decenni? Ma allora perché non equiparare ai martiri, e avviare alla beatificazione, anche tutti quei cristiani che hanno offerto la loro vita in una guerra giusta? Essi, morendo per loro patria, hanno compiuto un eccellente atto di carità, dal momento che «il bene della nazione è superiore al bene individuale» (Aristotele, Etica, I, cap. II, n.8).
La Chiesa cattolica non li ha mai considerati martiri, proprio perché manca la motivazione religiosa, ma sembrerebbe ingiusto privarli di uno spazio nel nuovo Pantheon dei martiri di papa Francesco. (Roberto de Mattei)

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