ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 22 settembre 2017

Le tavole della neochiesa.


CATTOLICI DI SINISTRA DIVISIVI?

Ma i cattolici di sinistra loro non sono divisivi? Non sono mai neanche sfiorati dall’idea di poter essere proprio loro elementi di divisione e cosa li rende così arroganti e presuntuosi? L'esempio dell'aborto e il caso Léonard di Francesco Lamendola  


 

Si direbbe che il peccato mortale in cui può incorrere un cattolico, secondo la neochiesa di Bergoglio e la sua neomorale cattolica, non sia più, o non sia affatto, il divorzio, l’aborto, il peccato contro natura e, forse, nemmeno la rapina e l’omicidio; si direbbe che il vero peccato capitale, quello al quale non può rimediare neppure la tanto sbandierata misericordia a senso unico del Padre celeste, cioè una misericordia senza giustizia, sia l’essere “divisivo”. Se crea divisioni, allora il cattolico è peccatore; non è un buon cattolico; non è un degno seguace del Vangelo di Gesù Cristo. Nella sua omelia del 29 maggio 2017, dalla Casa Santa Marta, il papa ha sostenuto che la fede non va bene se crea divisioni, perché in tal caso diventa ideologia, mentre è cosa buona se favorisce l‘unione.Ma l’unione di chi, con chi? E a quale prezzo? Anche a prezzo di travisare, capovolgere e rinnegarla Verità di Cristo? Infatti, a una lettura pur attenta del Vangelo, non risulta che Gesù abbia fissato mai un simile precetto; non risulta che abbia mai ammonito contro il fatto di creare divisioni; al contrario, risulta che abbia detto (Mt., 10, 34): Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Più chiaro di così…

Pure, i neopreti, i neovescovi e i neoteologi della neochiesa, nel loro neolinguaggio, si stanno prodigando nella costruzione di una neodottrina, di una neoteologia e di una neomorale: non bisogna creare divisioni; non bisogna parlare di ciò che divide; bisogna parlare solo delle cose che uniscono. Se l’aborto, per esempio, divide, allora che non se ne parli più. E se qualcuno ne parla, se qualcuno ha la pessima idea di definirlo un omicidio, come ha fatto il professor Léonard, peraltro conformemente alla dottrina cattolica e alla morale cattolica, e a tutti i documenti del Magistero anteriori a questo pontificato, lo si licenzia in tronco e si monta contro di lui una campagna di denigrazione mediatica senza precedenti. E lo si licenzia non da una scuola pubblica, ispirata ai dogmi del laicismo e dell’irreligiosità ovunque vigenti in Europa, ma da una scuola cattolica. Sissignori: un professore cattolico, in una scuola cattolica, non ha il diritto di dire ai suoi studenti, provenienti, evidentemente, da famiglie cattoliche, quel che la Chiesa cattolica insegna e ha sempre insegnato a proposito dell’aborto volontario. Non può farlo, perché viene licenziato e subissato di critiche e di astiosi giudizi: da parte del clero e specialmente dai vescovi della sua diocesi e del suo Paese. Questa è la situazione odierna; a questo punto siano arrivati. Ma se invitare gli islamici in chiesa, alla santa Messa, per pregare insieme ai cattolici, all’indomani dello sgozzamento di un prete cattolico da parte di due assassini islamici, crea “unione”, allora va bene, allora la cosa è fattibile, anzi, è auspicabile: nulla di strano se si profana la santa Messa mescolando la preghiera a Gesù Cristo con quella a un altro dio; un dio nel cui nome i cristiani vengono sgozzati e ammazzati in qualunque momento, senza distinzione di sesso o di età: tutti colpevoli di essere “crociati”, anche i bambini piccoli che si trovano per caso ad un mercatino di Natale. Come nella strage degli innocenti. Questa volta, però, la neochiesa dice che bisogna porgere la mano a Erode e che bisogna chiudere la bocca a tutti quei fastidiosi annunciatori della verità, i quali, come Giovanni il Battista, dicono, senza peli sulla lingua: Non ti è lecito fare questo. Giovanni il Battista, oggi, verrebbe denigrato, allontanato, delegittimato dal clero modernista e progressista, con la motivazione che crea divisioni. Parla contro l’adulterio, dice al re che non gli è lecito tenere con sé la moglie di suo fratello: dunque, crea divisione. In fondo, perché fare tanto i pignoli? Se al re piace tenere come fosse sua moglie, la moglie di suo fratello, chi siamo noi per giudicarlo? E se qualcuno si permette di giudicare, lui o chiunque altro agisca in maniera apertamente peccaminosa, allora costui è certamente un fanatico. È un fanatico Giovanni il Battista, come lo è il professor Léonard: gente esaltata, da cui è meglio stare alla larga. Queste sono le tavole della neochiesa.
La cosa significativa è che, mentre accusano gli altri, quelli che non la vedono come loro, quelli che antepongono la verità all’unità ad ogni costo, i progressisti, e specificamente i cattolici progressisti, non sono mai neanche sfiorati dall’idea di poter essere, loro, proprio loro, elementi di divisione rispetto all’idea in cui si riconoscono, insieme ad altri. È tipico dei progressisti di ogni tempo e latitudine: fare sempre le pulci agli altri, non accettare mai per se stessi un analogo trattamento: sono loro che hanno diritto di stare in cattedra, di dare la pagella e di puntare il ditino contro chiunque; gli altri, no, devono sottostare al loro giudizio.Che cosa li rende così arroganti? La ferma convinzione che, stando con il Progresso, si è sempre e comunque dalla parte giusta, si è sempre dal lato del bene contro il male, dell’intelligenza contro la stupidità, della giustizia contro l’ingiustizia: perché il Progresso, per loro, è un bene auto-evidente, anzi, è il Bene supremo, il Bene con la maiuscola, nel senso che fa le veci di Dio, dopo che il vecchio Dio, quello cristiano, è stato messo, più o meno tacitamente, in soffitta, dove non darà più fastidio a nessuno. Infatti, il vero dio dei cattolici progressisti non è Gesù Cristo, né il suo Padre celeste, e neppure lo Spirito Santo: questo è un Dio dal quale hanno silenziosamente preso commiato, perché è il Dio della Croce, e la croce, i signori progressisti, non la vogliono proprio, la ritengono (come gli scribi e i farisei) uno scandalo intollerabile; la croce, come per Marx, è il simbolo dell’alienazione e dell’impotenza, della resa alle forze del male presenti nella storia. Loro, invece vogliono battersi per instaurare il bene sulla terra, un bene laico, immanente, materiale; vogliono portare - nulla di meno – la felicità agli uomini (che questi la vogliano o no, la devono portare, magari a colpi di ghigliottina, come fecero i giacobini durante la Rivoluzione francese). Il vero dio dei cattolici progressisti e di sinistra è il progresso, ed è davanti ad esso che son pronti a flettere le ginocchia e a fare atto di umiltà e sottomissione. La loro fede è rivolta al Progresso, non al Padre che sta nei Cieli: di conseguenza, essi puntano a realizzare il paradiso in terra, non a entrare nel Regno dei Cieli. È ovvio che, così’ facendo, tradiscono il cristianesimo e mistificano il Vangelo, anche se hanno sempre in bocca la misericordia del Padre e la bontà del Padre; significativamente, non hanno in bocca quasi mai la sua giustizia e la punizione dei peccati. Prendono di Dio quel che fa loro comodo, parlando di quelli, fra i suoi attributi, che sono funzionali alla loro visione progressista, naturalista e immanentista; degli altri, fanno volentieri a meno, anzi accusano di essere nell’errore quelli che ne parlano. Forse perché quei discorsi suonano come una implicita condanna del loro errore, sia teologico che morale.
Prendiamo un tipico esempio di cattolico progressista che piace tanto alla sinistra: don Lorenzo Milani. Fin dall’indomani della sua morte, nel 1967, se non prima ancora, già i suoi seguaci e ammiratori ne avevano costruito il mito: il mito del vero prete che ama i poveri e gli ultimi, e che si contrappone all’ipocrisia e alla mondanità della Chiesa gerarchica, arroccata su delle posizioni anacronistiche, complice dei poteri ingiusti dell’economia, compromessa con la politica conservatrice. Una specie di versione nostrana e in tonaca nera del mito del “Che”, esploso, ma a livello mondiale, quasi contemporaneamente. Sia don Milani che il “Che” Guevara muoiono nel 1967: l’uno, consumato dalla malattia, dopo essersi prodigato per i “suoi” ragazzi di Barbiana, poveri figli di contadini dimenticato da tutti; l’altro sulle montagne della Bolivia, nel vano tentativo di accendere un focolaio rivoluzionario fra gli indios, eterne vittime dello sfruttamento coloniale e neocoloniale. Due cavalieri senza macchia e senza paura, due figure esemplari, degne di essere ammirate, imitate, venerate, agitate come una bandiera. Fra i primi che hanno innalzato il monumento mitologico di don Milani è stata la giornalista Neera Fallaci (sorella di Oriana), che, nel 1974, dava alle stampe una grossa biografia, di oltre 500 pagine, intitolata Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete don Lorenzo Milani (Milano Libri Edizioni, 1974), una vera e propria agiografia in cui la vita, le azioni e le parole dello strenuo difensore degli ”ultimi” sono riportate con la cieca devozione e con la totale mancanza di senso critico che sono proprie di un culto religioso; e nella quale, ovviamente, quelli che hanno avuto il torto di esprimer perplessità su certi atteggiamenti e su certe prese di posizione del priore di Barbiana, a cominciare dai suoi superiori, sono presentati nella luce più sfavorevole, per non dire nefanda. In questo senso, il libro di Nera Fallaci non è solo un esempio di giornalismo settario e fazioso, cioè di cattivo giornalismo; è molto di più: è un modello (negativo) di come si costruisce la mitologia di un cavaliere progressista senza macchia e senza paura. A noi non interessa, in questa sede, discorrere di tutto il libro; ci basta evidenziare un brevissimo passaggio, a pag. 250, che ci sembra non solo il passaggio-chiave dell’opera, ma il passaggio-chiave di tutto il modo di ragionare dei cattolici di sinistra, e, pertanto, offre un utilissimo spaccato della loro psicologia e, quel che qui particolarmente c’importa, della loro supponenza culturale. Si riferisce alle reazioni che destò la pubblicazione del libro Esperienze pastorali che, alla sua apparizione, nel 1958, divise profondamente e durevolmente il mondo cattolico, fu giudicato negativamente (ma non condannato) dalla Chiesa e ora è stato riabilitato, in pompa solenne, da papa Francesco; il quale, a Barbiana, ha voluto fare addirittura un “pellegrinaggio” per rendergli omaggio (un termine che di solito si usa per i santuari o i luoghi santi della Palestina). Eccolo:

Ovviamente “Esperienze pastorali” fu accolto con sincera e profonda simpatia dalla sinistra cattolica. Ma, mentre il libro girava di canonica in canonica, di casa in casa tra i cattolici impegnati, si sentiva l’addensarsi della tempesta: “Addolora pensare che fra poco”, scrisse il dottor Meucci, “questo libro sarà travolto nelle polemiche di parte, sarà anatomizzato, sarà citato a brani e bocconi: lo si guarderà con entusiasmo o con sospetto,  non per quello che vuole esprimere nel suo complesso, ma per apprezzamenti parziali, perché questa è la sorte di tutti i libri che affrontano la realtà concreta e di tutte le testimonianze cristiane nel tempo”.

Le cose veramente interessanti, in quanto paradigmatiche, sono qui essenzialmente due.  
  
Ma i cattolici di sinistra, loro non sono divisivi? 
di Francesco Lamendola


Del 22 Settembre 2017

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