ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 1 novembre 2017

Amicus Plato?


Il card. Müller e Buttiglione, una confusione che aumenta       

(di Roberto de Mattei) Il prof. Rocco Buttiglione si batte da mesi contro i critici dell’Amoris laetitia, per giustificare il contenuto dell’esortazione post-sinodale di papa Francesco. Ora ha raccolto i suoi articoli in un libro dal titolo Risposte amichevoli ai critici dell’Amoris laetitia, pubblicato dalla casa editrice Ares, con un’inattesa prefazione del cardinale Gerhard Ludwig Müller.
Andrea Tornielli riporta su Vaticaninsider un ampio stralcio di questa introduzione che aggiunge confusione alla confusione oggi imperante. L’ex-Prefetto della Congregazione per la Fede, a differenza del prof. Buttiglione, ha sempre manifestato una certa simpatia verso i quattro cardinali dei “dubia”, ma ritiene che per “neutralizzare” la Amoris laetitia conviene interpretarla in continuità con l’insegnamento della Chiesa, piuttosto che criticarla apertamente.

Per spiegare l’apparente contraddizione tra Amoris laetitia e i dogmi definiti dalla Chiesa sui sacramenti del matrimonio, della penitenza e della eucarestia, il cardinale fa propria la tesi di fondo di Rocco Buttiglione, che riassume in queste due righe: «Ciò che è in questione è una situazione oggettiva di peccato che, a causa di circostanze attenuanti, soggettivamente non viene imputata».
Il problema non sarebbe quello della oggettività della legge morale, ma della“imputabilità” del peccatore, ovvero della soggettiva responsabilità dei suoi atti. Il punto di partenza del ragionamento è una nota verità morale, secondo cui per la imputabilità morale di un atto bisogna che il soggetto lo abbia compiuto sapendo ciò che faceva e agendo liberamente, ovvero con piena avvertenza e deliberato consenso.
Il punto di arrivo, che trasforma la verità in sofisma, è quello secondo cui le circostanze potrebbero annullare la responsabilità di chi si trova in una situazione di peccato grave. Infatti, secondo Buttiglione, non possiamo considerare “imputabili”, ovvero colpevoli, quei divorziati risposati che vorrebbero mutare la loro condizione di vita, ma non possono farlo, a causa di una concreta situazione che determina i loro atti, rendendo impossibile la loro libera e consapevole scelta. Se, ad esempio, una coppia di divorziati risposati ha dei figli di cui prendersi cura, la dissoluzione della loro convivenza potrebbe pregiudicare l’avvenire di questi figli.
Né si può chiedere loro di vivere da fratello e sorella, perché ciò potrebbe avere disastrose conseguenze psicologiche e morali per la coppia e per gli stessi figli. In questo caso bisognerebbe esercitare un prudente “discernimento” e la “misericordia” dovrebbe spingersi fino a concedere ai conviventi l’accesso al sacramento dell’eucarestia, anche se la loro situazione irregolare non soddisfa tutte le esigenze della legge morale. Il sofisma nasce dal fatto che questo ragionamento non ha niente a che fare con la dottrina cattolica sulla imputabilità degli atti e discende invece dalla “morale della situazione”, ripetutamente condannata da Pio XII e da Giovanni Paolo II.
«Il segno distintivo di tale morale – spiega Pio XII – è costituito dal fatto che essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i Dieci Comandamenti, ma sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare ed a scegliere; questo stato di cose è unico ed è valido una sola volta per ciascuna azione umana. Perciò la decisione della coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata dalle idee, dai princìpi e dalle leggi universali» (Discorso alla Federazione Cattolica Mondiale della Gioventù Femminile del 18 aprile 1952).
La“piena avvertenza”, secondo la morale cattolica, non significa la chiara ed esplicita consapevolezza che con il proprio atto si offende Dio in materia grave. Se questa consapevolezza ci fosse, essa aggiungerebbe al peccato una ulteriore malizia. Per peccare mortalmente basta acconsentire a un comportamento che di per sé si oppone in materia grave alla legge divina (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Persona humana del 29 dicembre 1975, n. 10).
Ogni uomo infatti ha il dovere di conoscere ciò che è necessario alla propria salvezza. L’ignoranza su verità etiche fondamentali, non giustifica il peccato, ma è in sé stessa peccato. Infatti, afferma Giovanni Paolo II, «non si trova la verità se non la si ama; non si conosce la verità se non si vuole conoscerla» (Udienza generale del 24 agosto 1983, n. 2). Il Magistero, da tempo immemorabile, ha condannato l’affermazione secondo cui «è priva di colpa ogni cosa che sia fatta per ignoranza» (Concilio di Sens del 2 giugno 1140, Errori di Pietro Abelardo, DS 337/730).
La non imputabilità, completa o parziale, si riduce dunque a rari casi come quelli di ubriachezza, demenza, malattie psichiche, ipnosi, sonno o dormiveglia. In questi casi mancano le condizioni dell’atto libero, perché non è possibile il dominio della persona sugli atti del suo intelletto o della sua volontà. Per quanto riguarda invece il deliberato consenso, per attribuire carattere morale ai nostri atti basta un consenso imperfetto. Tutti i nostri atti subiscono condizionamenti esterni di vario genere (educazione, ambiente, strutture sociali) così come dipendono anche dai caratteri genetici o dagli abiti di vita (le virtù e i vizi). Ma ogni atto che non sia stato ottenuto con la violenza fisica, e comporti qualche conoscenza, anche parziale, della legge naturale, deve essere considerato volontario e imputabile.
La violenza morale (esercitata per esempio dai mass media o dalla diffusione di modelli di condotta immorale) non sopprime la volontarietà dell’atto, perché il consenso della volontà non può essere determinato da alcuna forza estranea alla volontà stessa. Perché ci sia pienezza di consenso, è sufficiente che la volontà voglia l’atto, indipendentemente dai condizionamenti che riceve. L’atto della volontà è infatti interiore e l’atto interiore della volontà non può essere mai forzato (Ramón García de Haro La vita cristiana. Corso di teologia morale fondamentale,Ares, Milano 1995, p. 253).
Il vero discernimento morale presuppone inoltre una oggettiva norma di valutazione. Per questo, come osserva un altro noto moralista, nel giudizio sulla moralità di un atto bisogna partire dall’oggetto e non dal soggetto (Maussbach, Teologia morale, tr. it., Paoline, Roma 1957, vol. II, pp. 310-311). Per la bontà di un atto è necessario che esso sia conforme alla regola morale, secondo tre relazioni che costituiscono una inscindibile unità: oggetto, circostanza, fine. Perché un atto sia considerato immorale, basta che uno di questi tre elementi sia cattivo, secondo il principio bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu(Summa theologiae, I-IIae, q. 18, a. 4, ad 3).
Le circostanze storiche o sociali possono aggravare o attenuare la moralità di un atto cattivo, ma non ne mutano l’intrinseca malizia, a meno di non negare l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi. La Veritatis splendor ribadisce l’esistenza degli “assoluti morali”, mentre la Amoris laetitia, pur senza negarli di principio, li vanifica di fattoaffidando la valutazione morale degli atti umani ad un discernimento che subordina la legge morale alla coscienza del soggetto, rendendo ogni atto e ogni situazione in sé unica e irripetibile.
Ma, «di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco, non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno» (Veritatis splendor, n. 96). L’osservanza della legge morale può comportare difficoltà, timori, angoscia, conflitti interiori. In questi casi, però, nella storia della Chiesa i veri cristiani, non aggirano la legge morale, attraverso la scorciatoia della “non imputabilità”, ma ricorrono all’aiuto invincibile della Grazia: una parola che sembra sconosciuta ai difensori della Amoris laetitia.
Quando a san Tommaso Moro venne chiesto di accettare l’adulterio di Enrico VIII, le pressioni che ricevette dalla famiglia, dagli amici e dal sovrano stesso, avrebbero potuto spingerlo ad invocare la non imputabilità della sua apostasia. Egli scelse però, come i cristiani dei primi secoli, la strada del martirio. Una strada che l’enciclica Veritatis splendor traccia con queste parole: «I martiri, e più ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l’esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della storia, risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cfr Sap 2, 12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre (Is5, 20)» (Veritatis splendor, nn. 91-93). (Roberto de Mattei)
Un teologo scrive al papa: C'è caos nella Chiesa, e lei ne è una causa    
 

Thomas G. Weinandy è teologo tra i più noti e vive a Washington nel Collegio dei Cappuccini, l'ordine francescano al quale appartiene. È membro della commissione teologica internazionale, la commissione che Paolo VI volle a fianco della congregazione per la dottrina della fede perché questa si avvalesse del fior fiore dei teologi di tutto il mondo. Ed è membro di questa commissione dal 2014, ivi nominato da papa Francesco.
Lo scorso mese di maggio, mentre si trovava a Roma per una sessione della commissione, sentì sbocciare in sé l'idea di scrivere a Francesco una lettera aperta, per confidargli l'inquietudine non solo sua ma di molti per il crescente caos nella Chiesa, che vedeva causato in buona parte proprio dal papa.
Pregò a lungo, anche sulla tomba di Pietro. Chiese a Gesù di aiutarlo a decidere se scrivere o no la lettera e di dargli a tal fine un segno… E il segno arrivò il giorno dopo, identico a quello che lui stesso aveva invocato nella preghiera, e che egli ora racconta così:
Confortato dal Cielo, Padre Weinandy scrisse dunque la lettera. A metà estate la fece arrivare a papa Francesco. E oggi, festa di Tutti i Santi, la rende pubblica, sul portale americano di informazione religiosa Crux e subito dopo a Roma, in quattro lingue, su Settimo Cielo.
Padre Weinandy, 71 anni, ha insegnato negli Stati Uniti in numerose università, a Oxford per dodici anni e a Roma alla Pontificia Università Gregoriana.
È stato per nove anni, dal 2005 al 2013, direttore esecutivo del segretariato per la dottrina della conferenza episcopale degli Stati Uniti.
*
Santità,
scrivo questa lettera con amore per la Chiesa e rispetto sincero per il suo ufficio. Lei è il Vicario di Cristo sulla terra, il pastore del suo gregge, il successore di san Pietro e quindi la roccia su cui Cristo costruisce la sua Chiesa. Tutti i cattolici, clero e laicato assieme, devono guardare a lei con fedeltà e obbedienza filiali, fondate sulla verità. La Chiesa si rivolge a lei in uno spirito di fede, con la speranza che lei la guiderà nell'amore.
Tuttavia, Santità, una confusione cronica sembra contrassegnare il suo pontificato. La luce della fede, della speranza e dell'amore non è assente, ma troppo spesso è oscurata dall'ambiguità delle sue parole e azioni. Ciò alimenta nei fedeli un crescente disagio. Indebolisce la loro capacità di amore, di gioia e di pace. Mi consenta di offrire alcuni brevi esempi.
In primo luogo c'è il controverso capitolo 8 di "Amoris laetitia". Non c’è bisogno qui di dire le mie personali preoccupazioni riguardo al suo contenuto. Altri, non solo teologi ma anche cardinali e vescovi, lo hanno già fatto. La fonte principale di preoccupazione è il modo con cui lei insegna. In "Amoris laetitia", le sue indicazioni a volte sembrano intenzionalmente ambigue, e in questo modo indirizzano sia a un'interpretazione tradizionale dell'insegnamento cattolico sul matrimonio e il divorzio, sia a un’altra interpretazione che potrebbe implicare un cambiamento in quell'insegnamento. Come lei nota giustamente, i pastori dovrebbero accompagnare e incoraggiare le persone in situazioni matrimoniali irregolari; ma l'ambiguità persiste sul vero significato di questo "accompagnamento". Insegnare con una tale mancanza di chiarezza, per di più apparentemente voluta, inevitabilmente conduce al pericolo di peccare contro lo Spirito Santo, lo Spirito della verità. Lo Spirito Santo è dato alla Chiesa, e in particolare a lei, per sconfiggere l'errore, non per favorirlo. Inoltre, solo dove c'è verità può esserci amore autentico, perché la verità è la luce che rende liberi uomini e donne dalla cecità del peccato, un'oscurità che uccide la vita dell'anima. Eppure sembra che lei censuri e persino derida coloro che interpretano il capitolo 8 di "Amoris laetitia" in accordo con la tradizione della Chiesa, come se fossero dei farisei che tirano le pietre e incarnano un rigorismo privo di misericordia. Questo tipo di calunnia è alieno dalla natura del ministero petrino. Alcuni dei suoi consiglieri, purtroppo, sembrano impegnarsi in azioni del genere. Tale comportamento dà l'impressione che i suoi punti di vista non possano sopravvivere a delle verifiche teologiche, e quindi debbano essere tenuti in piedi da argomenti "ad hominem".
In secondo luogo, troppo spesso la sua maniera d'agire sembra declassare l'importanza della dottrina della Chiesa. Ripetutamente lei descrive la dottrina come una cosa morta e libresca, lontana dalle preoccupazioni pastorali della vita quotidiana. I suoi critici sono stati accusati, stando alle sue stesse parole, di fare della dottrina un'ideologia. Ma è precisamente la dottrina cristiana – comprese le distinzioni sottili fatte a riguardo di credenze centrali come la natura trinitaria di Dio, la natura e le finalità della Chiesa, l'incarnazione, la redenzione, i sacramenti – che libera le persone dalle ideologie mondane e garantisce che effettivamente predichino e insegnino l'autentico e vivificante Vangelo. Coloro che svalutano le dottrine della Chiesa si separano da Gesù, autore della verità. Ciò che essi possiedono, e solo questo possono possedere, è un'ideologia che si conforma al mondo del peccato e della morte.
In terzo luogo, i fedeli cattolici possono essere solo sconcertati dalle sue nomine di certi vescovi, uomini che non solo appaiono aperti verso quanti hanno una visione contrapposta alla fede cristiana, ma addirittura li sostengono e difendono. Ciò che scandalizza i credenti, e anche alcuni colleghi vescovi, non è solo il fatto che lei ha scelto tali uomini per essere pastori della Chiesa, ma anche che lei sembra stare in silenzio di fronte a ciò che insegnano e alla loro pratica pastorale. Questo indebolisce lo zelo dei molti uomini e donne che hanno sostenuto l’insegnamento cattolico autentico per lunghi periodi di tempo, spesso a rischio della loro reputazione e serenità. Il risultato è che molti dei fedeli, che incarnano il "sensus fidelium", stanno perdendo fiducia nel loro supremo pastore.
Quarto, la Chiesa è un corpo unico, il Corpo mistico di Cristo, e lei ha il mandato dal Signore stesso per promuovere e rafforzare la sua unità. Ma le sue azioni e parole troppo spesso sembrano intente a fare il contrario. Incoraggiare una forma di "sinodalità" che permette e promuove diverse opzioni dottrinali e morali all'interno della Chiesa può solo portare a una maggior confusione teologica e pastorale. Una tale sinodalità è insipiente e di fatto agisce contro l'unità collegiale tra i vescovi.
Padre Santo, questo mi porta alla mia preoccupazione finale. Lei ha parlato spesso della necessità della trasparenza all'interno della Chiesa. Lei ha incoraggiato spesso, soprattutto durante i due sinodi passati, tutte le persone, specialmente i vescovi, a parlare francamente e a non aver paura di ciò che il papa potrebbe pensare. Ma lei ha notato che la maggioranza dei vescovi di ​​tutto il mondo stanno fin troppo in silenzio? Perché è così? I vescovi imparano alla svelta, e ciò che molti di loro hanno imparato dal suo pontificato non è che lei è aperto alla critica, ma che lei non la sopporta. Molti vescovi stanno in silenzio perché desiderano essere leali con lei, e quindi non esprimono – almeno in pubblico; in privato è un’altra cosa – le preoccupazioni che il suo pontificato alimenta. Molti temono che se parlassero con franchezza sarebbero emarginati o peggio.
Mi sono spesso chiesto: "Perché Gesù ha lasciato che tutto questo accada?" L'unica risposta che mi viene in mente è che Gesù vuole manifestare proprio quanto debole sia la fede di molti all'interno della Chiesa, anche fra troppi dei suoi vescovi. Ironia della sorte, il suo pontificato ha dato a coloro che sostengono punti di vista teologici e pastorali rovinosi la licenza e la sicurezza di uscire in piena luce e di esibire la loro oscurità precedentemente nascosta. Nel riconoscere questa oscurità, la Chiesa umilmente sentirà il bisogno di rinnovare se stessa e così continuare a crescere in santità.
Padre Santo, prego per lei costantemente e continuerò a farlo. Che lo Spirito Santo la guidi alla luce della verità e alla vita dell'amore, così che lei possa rimuovere l'oscurità che ora nasconde la bellezza della Chiesa di Gesù.
Sinceramente in Cristo,
Thomas G. Weinandy, O.F.M., Cap.
31 luglio 2017
Festa di S. Ignazio di Loyola

Settimo Cielo di Sandro Magister 01 nov

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