in occasione della sua visita a Nay Pyi Taw,capitale del Myanmar 28 novembre 2017
Pubblichiamo il discorso pronunciato dal Dott. Jorge Mario Bergoglio,
nell'incontro di benvenuto con le Autorità del Myanmar
svoltosi all'“International Convention Centre” della capitale Nay Pyi Taw
martedì, 28 novembre 2017
I lettori ci perdoneranno la licenza di un titolo tanto ironico, ma la nostra intenzione è di mettere in risalto la totale acattolicità di questo intervento del vescovo di Roma, nel quale il Dott. Bergoglio, biancovestito, non solo non parla di Dio, limitandosi a parlare genericamente di “religioni”, ma elenca una serie di obiettivi, non tutti lodevoli, che sono propri della Massoneria universale e del suo relativo strumento: il Nuovo Ordine Mondiale; nei cui confronti il cattolicesimo avrebbe solo il ruolo di collaboratore.
Signora Consigliere di Stato, Onorevoli Membri del Governo … bla, bla, bla…
Esprimo viva riconoscenza per il gentile invito a visitare il Myanmar e ringrazio la Signora Consigliere di Stato per le sue cordiali parole.
Sono molto grato a tutti coloro che hanno lavorato instancabilmente per rendere possibile questa visita. Sono venuto, soprattutto, a pregare con la piccola ma fervente comunità cattolica della nazione, per confermarla nella fede e incoraggiarla nella fatica di contribuire al bene del Paese.
Sono molto lieto che la mia visita si realizzi dopo l’istituzione delle formali relazioni diplomatiche tra Myanmar e Santa Sede. Vorrei vedere questa decisione come segno dell’impegno della nazione a perseguire il dialogo e la cooperazione costruttiva all’interno della più grande comunità internazionale, come anche a rinnovare il tessuto della società civile.
Vorrei anche che la mia visita potesse abbracciare l’intera popolazione del Myanmar e offrire una parola di incoraggiamento a tutti coloro che stanno lavorando per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo. Il Myanmar è stato benedetto con il dono di una straordinaria bellezza e di numerose risorse naturali, ma il suo tesoro più grande è certamente il suo popolo, che ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni.
Poiché la nazione è ora impegnata per ripristinare la pace, la guarigione di queste ferite si impone come una priorità politica e spirituale fondamentale. Posso solo esprimere apprezzamento per gli sforzi del Governo nell’affrontare questa sfida, in particolare attraverso la Conferenza di Pace di Panglong, che riunisce i rappresentanti dei vari gruppi nel tentativo di porre fine alla violenza, di costruire fiducia e garantire il rispetto dei diritti di tutti quelli che considerano questa terra la loro casa.
In effetti, l’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. La sapienza dei saggi ha definito la giustizia come la volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, mentre gli antichi profeti l’hanno considerata come il fondamento della pace vera e duratura.
Queste intuizioni, confermate dalla tragica esperienza di due guerre mondiali, hanno portato alla creazione delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come base per gli sforzi della comunità internazionale di promuovere in tutto il mondo la giustizia, la pace e lo sviluppo umano e per risolvere i conflitti mediante il dialogo e non con l’uso della forza.
In questo senso, la presenza del Corpo Diplomatico in mezzo a noi testimonia non solo il posto che il Myanmar occupa tra le nazioni, ma anche l’impegno del Paese a mantenere e osservare questi principi fondamentali. Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune.
Nel grande lavoro della riconciliazione e dell’integrazione nazionale, le comunità religiose del Myanmar hanno un ruolo privilegiato da svolgere. Le differenze religiose non devono essere fonte di divisione e di diffidenza, ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza e la saggia costruzione del Paese. Le religioni possono svolgere un ruolo significativo nella guarigione delle ferite emotive, spirituali e psicologiche di quanti hanno sofferto negli anni di conflitto. Attingendo ai valori profondamente radicati, esse possono aiutare ad estirpare le cause del conflitto, costruire ponti di dialogo, ricercare la giustizia ed essere voce profetica per quanti soffrono.
È un grande segno di speranza che i leader delle varie tradizioni religiose di questo Paese si stiano impegnando a lavorare insieme, con spirito di armonia e rispetto reciproco, per la pace, per soccorrere i poveri e per educare agli autentici valori religiosi e umani. Nel cercare di costruire una cultura dell’incontro e della solidarietà, essi contribuiscono al bene comune e pongono le indispensabili basi morali per un futuro di speranza e prosperità per le generazioni a venire.
Quel futuro è ancora oggi nelle mani dei giovani della nazione. I giovani sono un dono da amare e incoraggiare, un investimento che produrrà una ricca rendita solo a fronte di reali opportunità di lavoro e di una buona istruzione. Questo è un requisito urgente di giustizia tra le generazioni. Il futuro del Myanmar, in un mondo in rapida evoluzione e interconnessione, dipenderà dalla formazione dei suoi giovani, non solo nei settori tecnici, ma soprattutto nei valori etici di onestà, integrità e solidarietà umana, che possono garantire il consolidamento della democrazia e della crescita dell’unità e della pace a tutti i livelli della società.
La giustizia intergenerazionale richiede altresì che le generazioni future possano ereditare un ambiente naturale incontaminato dall’avidità e dalla razzia umana. È indispensabile che i nostri giovani non siano derubati della speranza e della possibilità di impiegare il loro idealismo e i loro talenti nella progettazione del futuro del loro Paese, anzi, dell’intera famiglia umana.
Signora Consigliere di Stato, cari amici!
In questi giorni, desidero incoraggiare i miei fratelli e sorelle cattolici a perseverare nella loro fede e a continuare a esprimere il proprio messaggio di riconciliazione e fraternità attraverso opere caritative e umanitarie, di cui tutta la società possa beneficiare.
È mia speranza che, nella cooperazione rispettosa con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, essi contribuiscano ad aprire una nuova era di concordia e di progresso per i popoli di questa amata nazione.
Lunga vita al Myanmar! Vi ringrazio per la vostra attenzione e, con i migliori auguri per il vostro servizio per il bene comune, invoco su tutti voi le benedizioni divine di saggezza, forza e pace. Grazie.
E Dio?!
Impaginazione e neretti sono nostri
http://www.unavox.it/Documenti/Doc1105_Discorso_Francesco_Myanmar_28.11.17.html
Il papa in terra di missione. Ma a parlare di Gesù è solo
lei, una buddista
C'è stato un solo momento in cui è stato fatto il nome di Gesù e annunciato il suo Vangelo, nei discorsi della prima giornata della visita di papa Francesco in Myanmar.
Solo che a dire queste parole non è stato il papa, ma la consigliera di Stato e ministra degli esteri birmana Aung San Suu Kyi, di fede buddista:
"Gesù stesso ci offre un 'manuale' di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.
"Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità. Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo".
È vero che San Suu Kyi ha ripreso queste parole dal messaggio di Francesco per la giornata mondiale della pace del 1 gennaio 2017. Ma colpisce che l'unica a fare il nome di Gesù e a far risuonare il suo Vangelo sia stata lei e non il papa.
Il testo integrale del discorso della premio Nobel per la pace, pronunciato all'inizio dell'incontro di Francesco con le autorità ed esponenti della società civile, nel pomeriggio di martedì 28 novembre, nell'International Convention Center di Nay Pyi Taw, la capitale del Myanmar, può essere letto in quest'altra pagina di Settimo Cielo:
Mentre questo è il discorso tenuto subito dopo da papa Francesco, un discorso invece totalmente "laico", salvo la finale generica invocazione sui presenti di "benedizioni divine di saggezza, forza e pace":
Anche la mattina di martedì 28 novembre, nell'incontrare esponenti delle varie religioni presenti in Myanmar – buddisti, musulmani, hindu, ebrei, cristiani anglicani e cattolici – Francesco non ha detto nulla di specificamente cristiano, ma ha piuttosto insistito sul fatto che "ogni confessione ha le sue ricchezze, le sue tradizioni da dare, da condividere"; ha invocato una "armonia" tra le religioni nel rispetto delle differenze; ha condannato la "colonizzazione culturale" che pretende di "fare tutti uguali" e quindi "uccidere l'umanità":
Eppure, non era proprio una Chiesa "in uscita" e più che mai "missionaria" l'obiettivo che papa Jorge Mario Bergoglio ha messo al primo posto nel testo programmatico del suo pontificato, l'esortazione "Evangelii gaudium"?
E che cosa può essere più "in uscita" e più "missionario" che un viaggio del successore dell'apostolo Pietro in una "periferia" del mondo come il Myanmar, ancora quasi tutta da evangelizzare?
Settimo Cielo di Sandro Magister 28 nov
Francesco in Myanmar. Il nodo Rohingya e le ombre cinesi
Cinque i generali che sono andati da Francesco nella residenza dell’arcivescovo (a Yangon non c’è ancora una nunziatura perché le relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono state allacciate da poco). Proprio la transizione politica verso un sistema più democratico, ha riferito il portavoce vaticano Greg Burke, è stato l’argomento al centro del dialogo, durato circa quindici minuti, con un sacerdote cattolico in veste di traduttore. Ma, al di là dei contenuti, l’incontro ha avuto un valore simbolico. I generali in un certo senso hanno “marcato” il territorio, ed è significativo che nelle stesse ore il cardinale birmano Chrales Bo abbia suggerito al papa di non pronunciare mai, nel corso dei tre giorni in Myanmar, la parola Rohingya, il nome dell’etnia musulmana alla quale il Myanmar non riconosce alcun diritto di cittadinanza e nemmeno considera una delle centotrentacinque etnie presenti nel paese. Sono soltanto profughi, dicono i governanti, che vietano di fare riferimento ai Rohingya anche perché li ritengono assimilabili a un gruppo terroristico.
Quantificabili in poco più di un milione, i Rohngya fuggono verso il Bangladesh, dove Francesco si recherà per la seconda e ultima tappa di questo suo viaggio in Asia, e fanno da spia di una situazione che, sotto il profilo dei diritti umani, qui resta precaria. È vero che Myanmar e Bangladesh nei giorni scorsi hanno siglato un accordo sul rimpatrio di oltre seicentomila persone, ma, più in generale, sul Myanmar pesa la tentazione del nazionalismo, con il contributo dei buddisti radicali.
Il paese è buddista al novanta per cento. I musulmani sono il quattro per cento, così come i cristiani. I cattolici poco più dell’uno per cento. “Love and peace” dice il logo ufficiale della visita di Francesco, ma per amore e pace il cammino sembra davvero complicato, anche per gli interessi economici in gioco.
Negli ultimi anni, sotto questo profilo, si è fatta sempre più intensa l’iniziativa cinese, con investimenti notevoli proprio nel Rakhine, la regione dei Rohingya nel Myanmar occidentale, ritenuta strategica nell’ambito del progetto di Pechino per la realizzazione di una nuova “via della seta”, marittima e terrestre, allo scopo di ottenere sbocchi commerciali e conquistare mercati sempre più vasti. Di qui un ruolo di “mediazione” da parte della Cina, che per mettere a frutto i suoi investimenti ha bisogno di un’area sgombra da tensioni etnico-religiose e dal rischio di scontri.
Proprio l’immediato cessate il fuoco nel Rakhine è quanto ha chiesto giorni fa il ministro degli esteri cinese durante una visita in Myanmar. Al secondo punto, tra le richieste di Pechino, negoziati concreti tra Myanmar e Bangladesh per risolvere il problema dei rifugiati. Terzo, sviluppo economico per l’area interessata, così da tagliare le radici alle violenze che affondano anche nel terreno della povertà e del disagio sociale.
I governi di Naypyitaw (la capitale del Myanmar) e Dhaka (quella del Bangladesh) hanno risposto positivamente e ora si vedrà. La fase è delicata e quindi anche le mosse di papa Francesco saranno osservate e valutate attentamente.
I Rohingya hanno un braccio armato (Arakan Rohingya Salvation Army) che per il governo birmano è un vero e proprio gruppo terroristico, responsabile di attacchi contro posti di polizia e dell’esercito. Il Myanmar ha dunque scatenato una repressione, con l’obiettivo di rendere inoffensivi i militanti. In realtà l’azione ha colpito anche i civili e interi villaggi sono stati distrutti. Una crisi umanitaria che da tempo è sotto osservazione da parte della Santa Sede e della quale il papa ha parlato apertamente durante l’Angelus del 27 agosto scorso, quando ha detto: “Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa, i nostri fratelli Rohingya. Vorrei esprimere tutta la mia vicinanza a loro; e tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e suscitare uomini e donne di buona volontà in loro aiuto, che diano loro i pieni diritti. Preghiamo per i fratelli Rohingya”.
Il problema Rohingya ha origini lontane, nel periodo coloniale, ed ha varie componenti, non esclusa quella religiosa, perché, in quanto musulmano, questo popolo è stato preso di mira dai gruppi armati buddisti. Così per molti la fuga è diventata una scelta obbligata. Scappano verso Bangladesh, Thailandia, India, Malesia e Indonesia. Solo che anche questi paesi spesso li rifiutano e quindi migliaia di Rohingya sopravvivono in campi profughi privi di tutto.
Ce la farà la Cina, grande potenza politica ed economica, a risolvere la situazione? Per ora Pechino appoggia le azioni del governo birmano contro quelli che definisce “gli estremisti terroristi”, e a dimostrazione di questo appoggio ha anche fermato possibili risoluzioni Onu contro il Myanmar circa le violazioni dei diritti umani
Per meglio comprendere le ragioni di Pechino occorre dare un’occhiata alla carta geografica. Lo Stato del Rakhine, sul Golfo del Bengala, è area strategica per il passaggio di fonti energetiche (petrolio, gas) e altri prodotti. Inoltre al largo del Rakhine sono stati trovati giacimenti di gas. La sorte dei diritti umani è dunque legata a quella di oleodotti e gasdotti? Non sarebbe la prima volta.
La Cina ha inoltre stretti legami commerciali con il vicino Bangladesh, paese che ha accolto migliaia di Rohingya. Di qui gli aiuti che Pechino sta fornendo a Dhaka per ospitare i profughi. Un “do ut des”.
Secondo molti analisti, tuttavia, i Rohingya, poveri e discriminati, non hanno molto da sperare dall’iniziativa cinese. Assai probabile è che i progetti di sviluppo andranno piuttosto a favore di investitori stranieri e dei birmani doc, buddisti e nazionalisti.
La partita che si sta giocando è dunque complessa e i giocatori sono numerosi. Tra questi c’è anche Francesco, portatore di “love and peace” in una terra che ne ha estremo bisogno ma, per tante ragioni, sembra attenta a ben altri messaggi.
Aldo Maria Valli
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