ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 7 novembre 2017

La prossima posta in gioco


NON VOI MA IO HO SCELTO VOI
                      

 «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi» il nocciolo della questione è tutto qui con le parole che Gesù rivolge ai 12 nella sera dell’Ultima Cena poche ore prima dell’inizio della Passione e c’è tutto Gesù tutto il Vangelo
 di Francesco Lamendola   

Il nocciolo della questione è tutto qui. Sono le parole che Gesù rivolge ai dodici, nella sera dell’Ultima Cena, poche ore prima dell’inizio della Passione (Giovanni, 12-17): qui c’è tutto Gesù, tutto il Vangelo e tutto quel che a un cristiano serve sapere in questa vita:

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

Stiamo andando, è inutile negarlo, verso tempi molto difficili, come uomini e come credenti. Ciò a cui stiamo assistendo, ciò che stiamo vivendo, somiglia molto a quel che è profetizzato nel Libro dell’Apocalisse: le forze del male sono scatenate, la bestia che sale dal mare e la bestia che viene dalla terra stanno unendo i loro diabolici sforzi, i buoni sono sotto attacco, la verità è offuscata, negata, sbeffeggiata, e la coerenza non è considerata più una virtù, ma il fardello degli sciocchi e dei perdenti. 


Addirittura, il colmo dell’iniquità consiste nel sentirsi rimproverare la propria fedeltà al Vangelo, alla dottrina cattolica, alla Tradizione, alla liturgia, a tutto quel che ci era stato insegnato nel nome di Gesù Cristo, dei Santi e della Vergine Maria. Con parole ambigue, contorte, menzognere, si vuol far passare per cattolico quel che cattolico non è; peggio: si vuol far passare l’idea e la prassi che non è cosa buona essere “troppo” cattolici, parlare troppo dei valori cattolici, della dottrina cattolica, perché ciò ostacola il “dialogo”, provoca tensioni con le altre fedi, inasprisce le relazioni con le altre confessioni cristiane, getta un ostacolo insormontabile sulla via della collaborazione con il mondo moderno, e rende obsoleto e anacronistico il Messaggio di Gesù. Siamo arrivati al punto che un vero cattolico deve incominciare a vergognarsi di essere tale, deve disimparare quello che aveva imparato, deve sbarazzarsi delle cose in cui aveva sempre creduto: e questo non per gli attacchi della società profana, che ci sono sempre stati, ma che ormai stanno cedendo il passo all’indifferenza da parte di quella, bensì sotto l’infuriare di rimproveri e contrordini da parte della nuova gerarchia cattolica, dei pastori del gregge, dei sacerdoti, dei sedicenti teologi, i quali sembrano presi da un raptus, da un furore, da una sorta di pazzia collettiva, che consiste nel confondere, sporcare, disperdere e calpestare il Deposito della fede, e poi, beffa suprema, far passare tutto ciò per “innovazione”, “aggiornamento”, “approfondimento” e come doverosa adozione di un linguaggio e di uno stile più consoni alla mentalità odierna. Perché, dicono tutti costoro, l’importante è raggiungere quante più persone possibile, lenire le loro ferite, accompagnarle nella loro sofferenza, come il buon Samaritano fece con l’uomo assalito, picchiato e derubato dai ladroni lungo la strada da Gerusalemme a Gerico.
Ma sono tutte menzogne, spudorate menzogne, dette completamente in mala fede. Tanto per cominciare, il buon Samaritano non ha “accompagnato” per niente l’uomo assalito e derubato dai ladroni: lo ha fatto ricoverare in un albergo e ha pagato di tasca sua le spese necessarie alle sue cure e al suo sostentamento. Lui, però, non si è fermato; tanto meno si è “accompagnato”: ha proseguito per la sua strada, dopo aver soccorso il poveretto. E ha proseguito non per egoismo, non per indifferenza, non per durezza di cuore, ma perché la sua vita non poteva e non doveva essere condizionata da quell’incontro in maniera tale, da impedirgli di fare tutte le altre cose che doveva fare: perché esiste una misura anche nella beneficenza, anche nel soccorso prestato agli altri, una misura che non eccede le forze e le possibilità dell’individuo. Gesù Cristo non ci esorta a farci schiavi del senso del dovere, a incatenarci al senso di colpa per tutte le ingiustizie e le malvagità che accadono nel mondo; non ci chiede di rinunciare alla nostra vita, ma di darle un diverso orientamento. E pertanto anche la compassione e anche la solidarietà e l’aiuto prestati ai fratelli, non devono trasformarsi in una sorta di professione: anche per evitare che qualcuno faccia una professione della povertà, dell’indigenza, della debolezza. Gesù non vuole creare una centrale di assistenzialismo; Gesù non è buonista, ma buono: e non getta addosso agli altri il fardello del senso di colpa per il fatto di non essere abbastanza misericordiosi.
Ama il prossimo tuo come te stesso, insegna Gesù Cristo a chi lo vuol seguire (Giovanni, 13, 34): il che vuol dire che dobbiamo amare anche noi stessi, che non dobbiamo disprezzarci, né punirci, né colpevolizzarci, né incatenarci a responsabilità più grandi di noi. Dio sa quanto peso possiamo portare sulle spalle e non ci carica oltre le nostre forze. Del resto, lo abbiamo visto, Gesù non vuole dei servi, ma degli amici; non sa che farsene dei servi, perché il servo non sa quel che fa il padrone, mentre Gesù vuole che noi sappiamo tutto quel che c’è da sapere, tutto quel che siamo in grado, come esseri umani, di comprendere (non tutto, dunque: ma quanto basta). E gli amici, di loro iniziativa, si danno da fare e cercano di fare meglio che possono: non se ne stanno in poltrona ad aspettare chissà cosa, si mettono in gioco, prendono a modello Gesù Cristo. Certo, è un modello estremamente impegnativo: e chi mai ha detto che essere cristiani sia una cosa facile come bere un bicchier d’acqua? Oggi va di moda, anche da parte di un certo clero, dare a intendere una cosa del genere: e si fa di tutto per mettere i cattolici “a loro agio”, per farli sentire al centro, per dar loro la sensazione che, dopotutto, è sempre Gesù che si china a lavare loro i piedi, non loro che devono lavarli a Lui. Un certo clero modernista e progressista crede di poter compensare l’indebolimento della fede e il crollo verticale delle vocazioni rendendo il Vangelo una cosa facile, alla portata di tutti. Sono passati da un estremo all’altro: da un cattolicesimo oppressivo, arcigno, bigotto, a un cattolicesimo liberale, democratico, permissivo. Falsi l‘uno e l’altro. Gesù Cristo domanda molto a chi lo vuol seguire, ma gli promette anche moltissimo. Sono sempre parole sue (Marco, 10, 29-30):

Pietro allora gli disse: “Ecco, noi abbiano lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessun che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna.

Sono parole chiare; eppure, a certi non bastano: perciò si sforzano di espungere quel passaggio dal suono un po’ sgradevole, perfino sinistro, insieme a persecuzioni, che guasta la festa dei modernisti e dei progressisti: perché, parliamoci chiaro, chi ha voglia di sentir parlare di persecuzioni, oggi, per causa di Gesù e del Vangelo? Ci sono già tanti problemi e preoccupazioni; si fa già una tale fatica a tirare avanti la carretta, nell’ambito della vita di tutti i giorni, alle prese con le difficoltà ordinarie: e chi mai vorrà caricarsi sulle spalle anche quelle straordinarie? Chi mai vorrà andare a cercarsele, quando la massima aurea della saggezza mondana è pur sempre: Vivi e lascia vivere? Di fatto, le persecuzioni ci sono già, basta aver voglia di vedere e di udire quel che accade intorno a  noi: in molti luoghi del mondo, oggi, il solo fatto di professare la fede cristiana equivale a subire persecuzioni. In molti luoghi del mondo, essere cristiani equivale a rischiare la vita, tutti i santi giorni: per la strada, al mercato, nei negozi, a scuola, in ufficio, in chiesa, perfino durante la santa Messa. Dalle nostre parti le persecuzioni assumono una forma assai più sfumata e sottile: nondimeno, ci sono, eccome: quel che si rischia è la carriera, la pace, qualche querela, qualche multa, qualche ammonizione, qualche condanna ai lavori “socialmente utili”; e una continua, incessante, implacabile derisione, una discriminazione intellettuale, un deprezzamento culturale. Ne sa qualcosa quel professore belga che ha osato dire, in una scuola cattolica, che l’aborto equivale a un omicidio: licenziato e condannato, alla stregua d’un provocatore, dallo stesso clero cattolico. Tale è il clima instaurato nella neochiesa modernista, oggi, secondo la parola d’ordine di papa Bergoglio: “silenziare” i valori non negoziabili, come appunto il diritto alla vita del nascituro, per non compromettere il “dialogo”, per non interrompere i “ponti”. Anche perché, sono sempre parole del papa (nell’intervista rilasciata ad Antonio Spadaro, direttore deLa Civiltà Cattolica, nel settembre 2013) bisogna puntare all’essenziale del cristianesimo. Evidentemente, la questione dell’aborto non implica, per lui, valori essenziali; meglio, pertanto, parlare solo di ciò che permette di dialogare e gettare ponti, o, come lui adora esprimersi, che consente di “includere”. Si vede che questo verbo va bene per tutto, e che si può, anzi, si deve, includere anche il peccato. Tanto, poi, c’è la chiesa-ospedale da campo che provvede a medicare le ferite. Senza mai chiamare le cose col loro nome: il peccato, peccato, Oh, no: questo mai. Sarebbe una imperdonabile mancanza di delicatezza e di tenerezza: e questo è il papa della tenerezza. Non è troppo tenero coi cattolici, a dire il vero: basta vedere come ha trattato i Francescani e le Francescane dell’Immacolata, o come ha snobbato sia i quattro cardinali dei Dubia, sia i sessantadue teologi e sacerdoti della Correctio filialis. Però coi musulmani, coi giudei, coi buddisti, coi massoni, coi radicali, con gli atei e gli anticristiani di tutti i tipi e di tutte le tendenze, nonché, soprattutto, con gli eretici luterani, con quelli sì, che sa mostrare tutto il volto della tenerezza, dell’amorevolezza, dell’accompagnamento. Già: l’ultima novità della neochiesa è che il peccatore non va ammonito, non va condotto al pentimento, non va riconciliato mediante il sacramento della Confessione: no, va “accompagnato”. Pare che i sacerdoti siano diventati degli amici da bar, o magari delle guide turistiche; adesso non devono più riportare le pecorelle smarrite all’ovile, devono accompagnarle ovunque esse vadano. Vanno verso il peccato? Ebbene, il sacerdote le deve accompagnare anche nel peccato. Del resto, questo è l’atteggiamento di Dio stesso, secondo Bergoglio: si legga il capitolo ottavo della Amoris laetitia, specialmente i paragrafi 303-304. Che cosa dice, in sostanza? Dice che Dio non chiede al peccatore o alla peccatrice, i quali hanno infranto il sacramento del Matrimonio, di ravvedersi e di tornare alla vita cristiana: dice, al contrario, che, se essi non possono fare a meno di vivere nel peccato, allora anche a Dio va bene così, e che Dio stesso non si aspetta, da loro, null’altro di diverso. Incredibile, ma vero: siamo arrivati a questo punto. Eppure, tanti, tantissimi cattolici pare non abbiano notato nulla di strano. Anzi, parlano con entusiasmo e ammirazione di questo papa così misericordioso, così umano, così francescano. 

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi»
  
di Francesco Lamendola

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