NOI CERCHIAMO LA VERITA'
Noi cerchiamo la verità perché possiamo coglierla. Per la cultura moderna, smentendo secoli di tradizione, la verità è inesistente, mentre in realtà è un impulso naturale nessuno si sente naturalmente attratto verso la menzogna
di Francesco Lamendola
In amore veritatis a pueritia mea contiue sum nutritus: è un pensiero di Dante Alighieri (Quaestio de aqua et terra, 1), che egli riferisce alla propria biografia spirituale, ma che possiamo estendere all’uomo in quanto creatura razionale: “mi sono nutrito, sin dall’infanzia – dice il sommo Poeta - di un amore incessante per la verità”. Gli uomini, dunque, tendono alla verità: tale è la loro natura, tale il loro destino, anche se lo disattendono. Non vale, infatti, l’obiezione secondo la quale la stragrande maggioranza degli uomini non cerca affatto la verità, non ne sente affatto il richiamo e la nostalgia, né sin dall’infanzia, e neppure nell’età adulta: perché la realtà di fatto non smentisce la realtà di principio. Semplicemente mostra che esiste una distanza, più o meno grande, fra ciò che è possibile e ciò che viene messo in pratica. Se ci si permette una similitudine molto semplice, forse banale, ma in compenso assai chiara, con il mondo dell’atletica, il fatto che un solo essere umano (il cubano Javier Sotomayor, nell’ormai lontano 1993) sia riuscito a saltare l’asticella a 2 metri e 45 centimetri d’altezza, mentre gli altri sette miliardi di persone non vi riuscirebbero mai, non dimostra che gli uomini non sono capaci di saltare verso l’alto, ma che solo pochi riescono a raggiungere risultati di eccellenza, peraltro sempre passibili di ulteriore miglioramento; proprio quei pochi, però, in quanto esseri umani, e non marziani, dimostrano che saltare in alto, sempre più in alto, è possibile e che l’uomo prova un impulso a farlo e ne ha la capacità.
Ora, anche nei confronti della verità gli uomini provano un impulso naturale: vi è come un richiamo, in essi, che li spinge in quella direzione. Nessuno si sente naturalmente attratto verso la menzogna; tutti sono naturalmente attratti verso la verità. Definiamo la verità, una volta per tutte, come il possesso di una conoscenza certa, definitiva e non ulteriormente perfettibile, la quale esclude altre conoscenze che siano differenti o in contrasto con essa. La cultura moderna, smentendo secoli e secoli di tradizione, nasce sull’idea che la verità sia inafferrabile, o forse inesistente; che vi siano tante verità quanti son gli esseri umani; di più: che esistano tante verità quanti sono gli istanti nei quali ciascun essere umano pone se stesso rispetto al mondo esterno e anche rispetto a se medesimo. In pratica, la cultura moderna nasce all’insegna del relativismo e dell’odio, o del disprezzo, o del rifiuto, dell’idea di verità, considerata come una tipica idea del passato, inattuabile e neanche desiderabile, in quanto intrinsecamenteautoritaria. Di conseguenza, qualunque ricerca verso di essa viene immediatamente guardata con estremo sospetto, con una diffidenza carica di riprovazione, come se qualcuno stesse cercando di far rivivere gli spettri di un passato indesiderabile, carico di errori e di chissà quali crimini.
Vorremmo far notare che questa è una posizione prettamente ideologica, e aberrante dal punto di vista speculativo: ed è aberrante perché ideologica, ossia perché pretende di piegare la realtà delle cose ad una idea preconcetta. L’idea preconcetta è che l’uomo sia incapace di comprende la verità, cosa che viene data semplicemente per scontata, e che non ci si prende la briga di dimostrare. A partire da tale idea, si guardano con favore tutte quelle filosofie le quali muovono da una analoga prospettiva, e si bollano come irrealistiche, assurde, presuntuose e perfino pericolose, sempre per la ragione che sarebbero “autoritarie”, quelle che adottano un’altra prospettiva, ossia che mostrano fiducia nella possibilità, da parte dell’uomo, di giungere alla verità. Una posizione intermedia, da molti filosofi moderni ritenuta particolarmente chic e molto politically correct, anche per i suoi riflessi politico-sociali, è quella del criticismo kantiano e di tutte le correnti di pensiero che ad esso si ispirano: la verità vera è al di là della nostra portata, perché riguarda la cosa in sé, il noumeno, di cui nulla sappiamo; tuttavia, in compenso, possiamo conoscere la verità apparente delle cose, perché nulla ci vieta di vedere il fenomeno così come esso è realmente. La fenomenologia è una variante di questa gnoseologia, che non si spinge oltre di essa: facendo leva essenzialmente sulla intenzionalità della conoscenza, Husserl mostra di vedere la conoscenza come una relazione fra il soggetto e l’oggetto che ha il suo centro nel primo, pertanto come qualcosa di soggettivo.
Diciamo che tutta la cultura moderna, o quasi tutta, parte dal presupposto che la verità, quella verità che l’uomo può eventualmente raggiungere, beninteso sempre che sia molto abile e, soprattutto, molto, ma molto fortunato, sia sempre e comunque la verità per me, non la verità in se stessa, non la verità oggettiva, non la verità assoluta, tale che deve essere riconosciuta da tutti: fino a questo punto il pensiero moderno si è auto-inibito, auto-limitato, auto-castrato, molto probabilmente per sottrarsi all’orribile sospetto di coltivare dei biechi ed inconfessabili propositi autoritari, totalitari e forse razzisti, insomma politicamente scorretti. E il politicamente scorretto è la versione aggiornata e “presentabile” del concetto, ornai largamente passato di moda, della blasfemia: il sacrilegio, venato di dileggio e d’irrisione verso le cose sacre. Al limite, la parola stessa viene accolta da un gelido silenzio, carico di crucciata ed accigliata sospettosità; sarebbe preferibile non adoperarla, perché evoca troppe cose “brutte”, dal punto di vista della cultura e della sensibilità moderne: Dio, l’Essere, l’Assoluto e altri concetti che è preferibile lasciare precisamente dove stanno ora, vale a dire nell’armadio, in soffitta, sotto naftalina, a coprirsi di polvere e ragnatele. E nessuno, ma proprio nessuno, ne sente la nostalgia: almeno fra gli intellettuali che vanno per la maggiore e che “danno il tono” al dibattito culturale; e, ancor più, da parte dei mass media, che costruiscono, disfano e manipolano incessantemente la cosiddetta opinione pubblica.
Ma che cos’è, effettivamente, la verità? La migliore definizione resta pur sempre quella di san Tommaso d’Aquino: adaequatio rei et intellectus, ossia corrispondenza fra la cosa e la mente che la percepisce. Diciamo che una cosa è vera quando essa è realmente, effettivamente così come noi la vediamo e come siamo capaci di rappresentarcela e di descriverla. Dunque, non è vero quel che cisembra essere vero, ma è vero quello che è vero, cioè una cosa è vera quando noi la vediamo come è realmente. Ma come possiamo sostenere che una certa cosa è proprio come noi la percepiamo e come noi la descriviamo? I passaggi, in effetti, sono tre: primo, ci deve essere una cosa che è se stessa, e non qualcosa di diverso da sé; secondo, ci deve essere una mente finita, quella dell’uomo, che la coglie in maniera esatta e pienamente soddisfacente, cioè senza alterarla e senza scambiarla per altro da quel che essa è, o in altra maniera da come essa è; terzo, è necessario che quella mente la sappia anche esprimere, rappresentare, descrivere, insomma che sia capace di mostrare di averla colta, e di averla colta nella maniera esatta. Ebbene, ciascuno di questi passaggi è possibile, non diciamo che sia facile, ma è certamente possibile; e quindi che il raggiungimento della verità è una cosa possibile, assolutamente alla portata degli uomini. Aggiungiamo che sarebbe una vera e propria beffa se all’uomo fosse stata data la ragione, e quindi la possibilità di comprendere, ma non quella di arrivare alla verità: in tal caso, la sua conoscenza servirebbe solo a rammentargli, in ogni singola circostanza, quel che egli non può sapere, tenendolo sospeso in uno stato di perenne incertezza, di perenne disagio e precarietà. E come si potrebbe costruire la benché minima certezza, sopra delle basi così incerte e traballanti?
Ma vediamo perché i tre passaggi verso la verità sono possibili. Primo: una cosa deve essere se stessa. Pertanto, una cosa che sia intimamente contraddittoria, intimamente in contrasto e in conflitto con se stessa, non può essere vera. Esempio: se uno schizofrenico afferma di essere Napoleone, noi non possiamo prendere per vera la sua affermazione, perché è intimamente contraddittoria: infatti vediamo bene che non lui non è affatto quel che dice di essere, anche se lui lo sostiene con molta convinzione. Viceversa, se nel mio astuccio vi è un paio di occhiali, e io lo affermo, dico il vero, perché la cosa corrisponde a quel che di essa io ho saputo cogliere. Secondo: bisogna che la mia mente colga la cosa così come essa è. Non diciamo che ciò sia contato, o che sia dovuto, o che sia facile; di fatto, sappiamo bene che si danno degli errori, più o meno lievi, più o meno gravi: diciamo semplicemente che è possibile, e che, in linea di massimo, all’uomo sono stati dati gli strumenti per cogliere la verità della cosa. Dunque, se dico che nell’astuccio vi è un paio di occhiali, e non una penna stilografica, e lo dico non tirando a caso, ma dopo averlo aperto e aver guardato il suo contenuto, oppure, se la vista mi tradisce, o perché è buio pesto, o perché io sono cieco, dopo averlo constatato mediante gli altri sensi, a cominciare dal tatto, io allora ho colto la verità della cosa. Ho gettato un ponte fra me e quella tale cosa; ho oltrepassato l’ambito soggettivo della mia mente e ho stabilito una relazione concreta, viva, operante, con qualcosa che è fuori di essa, e che esiste indipendentemente da quel che la mia mente poteva immaginare, desiderare o sospettare. Questo è molto importante: accertando che nell’astuccio vi sono gli occhiali, e non un’altra cosa, oppure nulla, ho confutato le teorie relativiste, secondo le quali le cose non sono vere in se stesse, ma sono più o meno vere, di una verità relativa, a seconda di come noi le percepiamo. Terzo: è necessario che la mia mente sappia esprimere in maniera esatta, quindi veritiera, ciò che essa ha percepito; e che lo faccia per mezzo di un linguaggio comprensibile, verificabile, tale da essere inteso correttamente, cioè senza margini d’incertezze o ambiguità, che potrebbero falsare la verità della cosa. Infatti la verità non è una relazione che si esaurisce fra la cosa e l’intelletto; deve poter essere comunicata, trasmessa; altrimenti non si uscirebbe dal rischio di rimanere entro un circolo solipsistico, quello della verità per me. Ma la “verità per me”, nessuno sa se sia davvero la verità; lo so io soltanto: e se mi sbagliassi, sia pure in buona fede? In assenza di altre testimonianze, è una possibilità che non si può escludere per niente. Se non so o non posso comunicare la verità, quella verità resterà sempre e solo una cosa mia: ma in tal caso, chi potrebbe garantire che si tratti proprio della verità, e non, poniamo, di una mia allucinazione? Di fatto, è necessario che altre menti siano messe a parte della verità in questione, nel qual caso esse potranno verificare e garantire che si tratta proprio di ciò che pretende di essere: la verità. Altrimenti si potrebbe ricadere nel paradosso dello schizofrenico che si crede Napoleone.
Noi cerchiamo la verità perché possiamo coglierla
di Francesco Lamendola
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Dio non vuole ciò che ripugna ai fini della natura. Il cristianesimo non è "Naturalismo" è il suo opposto e non perché la natura sia la sua controparte negativa bensì perché è stata coinvolta dalla disobbedienza di Adamo ed Eva
di Francesco Lamendola
DIO E LA NATURA
Dio non vuole ciò che ripugna ai fini della natura. Il cristianesimo non è "Naturalismo" è il suo opposto e non perché la natura sia la sua controparte negativa bensì perché è stata coinvolta dalla disobbedienza di Adamo ed Eva
di Francesco Lamendola
È un pensiero di Dante Alighieri, e si trova nel De Monarchia (2,2); ricavato, indirettamente, dal pensiero di san Tommaso d’Aquino – nonché di Aristotele -, suona così: Illud quod naturae intentioni repugnat, Deus nolit, ossia: ciò che ripugna all’intenzione della natura, è anche contrario al volere di Dio. Ed è uno di quei pensieri dalla profondità abissale, che affascinano e catturano la mente, sollecitano infiniti approfondimenti e riflessioni, e offrono un prisma attraverso cui leggere e interpretare tutti quegli aspetti della realtà che ci lasciavano perplessi, perché facevamo fatica a farli rientrare in un quadro complessivo di carattere razionale. Naturalmente, è un pensiero tipicamente aristotelico, col suo finalismo esplicito: la natura tende alla realizzazione di certi fini; le cose non si muovono a caso; vi è un ordine nell’universo, e anche dentro noi stessi, un ordine che può sfuggire all’occhio superficiale, ma senza il quale ogni singola cosa piomberebbe nella nebbia, e il mondo non sarebbe altro che un caos, inutile e insensato.
Poiché la cultura moderna, da Galilei in poi, ha sdegnosamente rifiutato ogni tipo di finalismo, succede che un tale concetto, pur essendo in armonia con il buon senso, oltre che con secoli di tradizione filosofica e teologica, ci appaia oggi come una specie di masso erratico, abbandonato dagli agenti atmosferici a grande distanza dal suo luogo di origine: un qualcosa di strano nel nostro paesaggio mentale, una eccentricità, se non peggio. Eppure, proviamo a riflettere: non è forse vero che vi sono cose che sono in accordo con la natura, e altre che ad essa ripugnano? E non è evidente che, se una cosa ripugna alla natura, non può essere voluta da Dio, ma, al contrario, Dio non la vuole, la disapprova, la proibisce? Non qualsiasi cosa provenga dalla natura, è buona in se stessa; e non tutto ciò che procede dalla natura va accettato senz’altro, così come si presenta. In noi stessi vi sono degli istinti, degli impulsi, che evidentemente sono naturali, e che, altrettanto evidentemente, non sono buoni, e che sarebbe un errore gravissimo prendere come se fossero tali, assecondandoli e concedendo loro di manifestarsi pienamente. Al contrario, su tali istinti ed impulsi è necessario che noi esercitiamo la massima sorveglianza, affinché non prendano possesso della nostra volontà e non ci portino su strade pericolose, provocando la nostra stessa distruzione, oltre che il male altrui. La natura che noi conosciamo, che noi viviamo, è la natura ferita dal Peccato originale; non è la natura uscita buona e perfetta dalle mani del Creatore. Nondimeno, anche così ferita, essa conserva, sia pure velata, la luce dello splendore originario; anche così stravolta, in essa si scorge ancora qualche traccia della primitiva perfezione. Pertanto, è banale l’obiezione di chi sostiene che, secondo natura, i deboli soccombono, ma che questa non può essere l’intenzione del Creatore: perché è ovvio che la ragione ci è stata data per correggere, in un certo senso, quel che la natura, ferita deal Peccato originale, non è più in grado di dare spontaneamente, anzi, tende a negare. Il cristianesimo non è certo un naturalismo, al contrario, è l’opposto del naturalismo; ma non perché la natura sia la sua controparte negativa, bensì, semplicemente, perché la natura é stata coinvolta dalla disobbedienza di Adamo ed Eva nelle tragiche conseguenze del Peccato.
Quanti pretendono di contrapporre la “sanità” della natura alla “malattia” del cristianesimo, e sono stati tanti, tantissimi negli ultimi tre secoli, dall’illuminismo in poi - è addirittura un luogo comune della cultura moderna, al punto che fa quasi notizia se qualche pensatore o scrittore non vi si uniforma – considerano, della natura, solo ciò che di volta in volta, torna utile al loro ragionamento. Invece bisogna avere il coraggio di guardare la natura nel suo insieme, nella totalità delle sue manifestazioni: “naturale” è che tutte le creature cerchino la luce, e dunque, sul piano spirituale, che esse cerchino la verità; ma “naturale” è anche che il più forte prevarichi sul più debole, e che il più debole soccomba, se non vi sono degli opportuni interventi per dotarlo delle difese necessarie a sopravvivere. Non è segno di onestà intellettuale contemplare solo la natura amica; bisogna saper guardare in faccia la natura anche quando essa è nostra nemica.
Che la natura non sia buona in se stessa, nella condizione presente delle cose, lo vede, se vuole, anche chi non si arrende che di fronte all’evidenza. Si osservino due bambini, lasciati liberi di giocare per un po’ di tempo, senza l’intervento degli adulti: due bambini molto piccoli, dai due ai quattro, cinque anni, prima dell’asilo o della scuola d’infanzia. Non ci vorrà molto perché uno dei due s’impadronisca dei giocattoli più belli, o si metta comunque a infastidire l’atro, o l’altra, di solito il più piccolo, o quello più timido, più remissivo: così, per il puro e semplice gusto di molestarlo. Se l’adulto non interviene, potrebbe anche fargli del : non certo per cattiveria - a quell’età la morale non è ancora entrata in gioco - ma perché tale è l’impulso che porta gli esseri umani a prevaricare sui loro simili, e anche sul resto del creato. Vogliamo lasciare un bambino di quell’età libero di fare quel che vuole con un piccolo animale? Prima o poi, bisognerà intervenire per salvare l’uccellino, o il gattino, o il cucciolo di cane, da una brutta fine: potrebbe anche ucciderlo, magari senza volerlo con piena consapevolezza, ma solo così, per il gusto di stringerlo, di strapazzarlo, di trattarlo come se fosse un animaletto di pezza. E non sarà il disperato squittire, miagolare o guaire della bestiola, a fermarlo o impietosirlo; così come non serviranno a fargli deporre la sua prepotenza, le lacrime del compagno più piccolo. C’è qualcosa di tremendo, nell’egoismo e nella inconsapevole crudeltà del bambino piccolo, che persegue ferocemente il suo piacere o il suo potere, a danno di qualcuno che non può difendersi nei suoi confronti: è il paradigma e il simbolo vivente della condizione umana, segnata da quella che la teologia morale chiama concupiscenza. È la tendenza al male, al peccato; in questo caso, trattandosi di un bambino in età pre-morale, una tendenza al male inconsapevole, ma pur sempre al male. E quel male, con buona pace di Rousseau, viene proprio dalla sua natura: non da altro.
Oppure prendiamo il tema della libertà sessuale, tanto caro a quanti, in nome degli impulsi naturali, rivendicano la perfetta liceità di qualsiasi comportamento, purché espresso nelle forme di una reciproca intesa fra soggetti consenzienti e, possibilmente, adulti. Oggi si parla molto, anche troppo, del cosiddetto amore omosessuale (in realtà omoerotico, la sessualità essendo una faccenda che riguarda il maschile e il femminile, sempre e comunque). Come è stato giustamente osservato anche sotto l’aspetto strettamente fisiologico, per esempio dalla dottoressa Silvana De Mari, il rapporto fra due maschi è contrario alla natura, per la semplice e inoppugnabile ragione che l’apparato escretore è stato “pensato” dalla natura per svolgere la funzione di eliminare le feci e non per surrogare le funzioni, e quindi gli organi, dell’apparato riproduttivo: una verità addirittura lapalissiana, che è costata una quantità di querele alla dottoressa da parte di chi non vuole accettare la “natura”, quando la natura smentisce le sue teorie, ma la cita come modello solo quando pare confermarle. Per essere ancora più chiari: sia l’aspetto doloroso della penetrazione anale, sia la frequenza delle malattie sessualmente trasmissibili che essa provoca, sono una conseguenza di questa evidente discrepanza tra le finalità della natura e la pretesa, da parte dell’uomo, d’imporre alla natura dei comportamenti che vanno contro di essa. In termini ancora più semplici: se la natura ha “inventato” il principio maschile e quello femminile, qualche ragione ci sarà. La natura non fa niente per gioco e non produce cose inutili o insensate; la pretesa di piegarla a dei fini completamente diversi da quelli che essa persegue, è la stessa che si nota nella medicina, e soprattutto nella biologia e nella genetica, più spregiudicate, le quali, appunto, “giocano” con la natura, per trasformarla in qualcosa di completamente diverso da ciò che essa è, anzi, di opposto. Strano: quegli stessi che si ergono a paladini del diritto di morire “senza accanimento terapeutico”, in realtà intendendo la libertà di morire sospendendo le terapie, e quegli stessi che, per difendere la cosiddetta libertà di scelta della madre, si fanno assertori dell’aborto volontario, cioè della soppressione del nascituro, andando nel primo caso contro la medicina e nel secondo contro la natura, nel caso della sodomia pretendono poi di sostenere che essa è perfettamente naturale, sia come istinto che come pratica, e infatti hanno chiesto e ottenuto il suo riconoscimento sotto forma di una specie di parodia del matrimonio; ma non potranno mai dimostrare ciò che è palesemente falso, ossia che la natura ha “programmato” il maschio per avere rapporti con un altro maschio, anziché con la donna; né, soprattutto, che una tale unione, intrinsecamente e necessariamente sterile, possa stare sullo stesso piano di necessità e dignità dell’unione fra l’uomo e la donna, che è benedetta da Dio in quanto feconda.
Il nostro modello, pertanto, non deve essere la natura, che è imperfetta, ma Dio, che è perfetto: Siate voi dunque perfetti, dice Gesù rivolto alla folla, come perfetto è il Padre vostro nei cieli (Matteo, 5, 48). La natura deve essere, in certi casi, “corretta”, perché inadeguata o insufficiente, in altri deve essere seguita come una madre e una maestra: sia che la seguiamo, sia che la “correggiamo”, tuttavia, il nostro criterio fondamentale dovrebbe essere quello di seguirne il solco, fin dover possibile e dove opportuno, e poi procedere in qualche altro modo, mai, però, rifiutandola o contraddicendola frontalmente, mai con la pretesa di “rifarla” e di capovolgerla, e, soprattutto, mai allontanandosi da essa per un fine che sia peggiorativo, ma sempre per un fine migliorativo, tenendo conto di ciò a cui le creature, e l’uomo specialmente, sono chiamate ad essere. La domanda fondamentale, perciò, non dovrebbe essere: cosa ci suggerisce di fare la natura?, bensì: a quale fine tende la nostra natura? E, per rispondere a questa domanda, bisogna tener presente che l’uomo è solo in parte una creatura naturale, con un fine naturale; per l’altra parte, invece, è una creatura che ha una dimensione soprannaturale e tende ad un fine soprannaturale. Il fine naturale dell’uomo è simile a quello degli altri mammiferi, degli altri animali e degli altri esseri viventi: conservare il proprio essere, accrescersi, riprodursi. Il suo fine soprannaturale è quello di cercare la verità, e la verità, per la creatura, è arrivare a conoscere, adorare e servire il Creatore.
Dio non vuole ciò che ripugna ai fini della natura
di Francesco Lamendola
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