ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 16 dicembre 2017

Dietro il velo ipocrita


UNA CIVILTA' DI MORTE            


Signore, abbi pietà di noi. Il testamento biologico apre all’eutanasia bambini compresi. Una legge che toglie ai medici il diritto/dovere di lottare per difendere la vita del paziente in nome di una supposta “dignità di morire" 
di Francesco Lamendola  
  

Le immagini sconcertanti del Parlamento italiano, con Emma Bonino e le vedova di Piergiorgio Welby le quali piangono lacrime di gioia per l’approvazione della legge che, dietro il velo ipocrita del cosiddetto testamento biologico, apre di fatto il portone all’eutanasia, anche per i bambini (su decisione dei loro genitori), e le dichiarazioni della vedova di Mario Monicelli, secondo la quale suo marito avrebbe salutato con un brindisi questo fausto giorno della storia italiana, ci pongono di fronte, anche visivamente, al vicolo cieco che la nostra società ha imboccato e che la nostra cultura, una cultura di morte, ha deciso di seguire tenacemente, con convinzione, con una sorta di fierezza degna di una causa più nobile: la stessa cultura che considera l’aborto legalizzato come una ormai indiscutibile “conquista di civiltà”, e che trova giusto e doveroso che lo Stato finanzi con il pubblico denaro i centri preposti alla “cura” dei cosiddetti disturbi dell’identità di genere, in pratica le cliniche specializzate nel cambiamento di sesso.

Chi lo sa il perché, le immagini della signora Bonino e delle altre parlamentari che piangono di commozione e di felicità perché è stata approvata una legge che toglie ai medici il diritto/dovere di lottare per difendere la vita del paziente, in nome di una supposta “dignità del morire” (ma bisogna vedere cosa sia la “dignità”, perché, evidentemente, su questo punto le opinioni non solo affatto univoche, come si vorrebbe far credere) hanno fatto sorgere in noi un’altra immagine, uscita dai lontani recessi della memoria: l’immagine di un quadro, una tela di grandi dimensioni, che, negli anni della nostra infanzia, ci aveva profondamente colpito. Non è frequente che un bambino si trovi a girare per i saloni di una pinacoteca; e non lo era neppure mezzo secolo fa, benché allora la famiglia, la parrocchia, la scuola, la cultura, la musica, la stampa quotidiana e periodica, il livello intellettuale complessivo della nostra società, televisione compresa (quella del canale unico: che era una signora televisione) fossero incommensurabilmente superiori agli standard odierni, nei quali si vagola fra i quiz sui pacchi o sulle identità dei concorrenti, il Grande Fratello, le puntate alla lotteria, i film di Hollywood sempre più demenziali e i libri “più venduti” dalle librerie, che sono sempre più spazzatura. Era una bella giornata d’estate, e un gruppo di ragazzini, vatti a ricordare il perché, una volta tanto, invece di trascorrere la mattina giocando e correndo sul prato, con le macchinette e gli aeroplanini, aveva deciso di acquistare il biglietto e vistare il museo ospitato nel castello (in realtà, un grandioso palazzo veneziano in stile rinascimentale), sul colle che domina la città di Udine. Esperienza singolare, quella di visitare i diversi saloni carichi di storia, di arte, di memorie del passato; scendere nelle carceri sotterranee, e poi passare su, per lo scalone di marmo, ai piani superiori, negli ampi locali pieni di sole, con le pareti tappezzate di dipinti, di sculture, di testimonianze di epoche passate: cosa poteva capirci un bambino delle elementari, senza la guida di un adulto, senza un cicerone che spiegasse il significato di quegli oggetti; cosa poteva pensare, abbandonato alle magre risorse del suo sapere, con un senso del tempo per cui le guerre puniche potevano essere poco più antiche della Prima guerra mondiale? Eppure, la tela di Tullio Crali, con il paracadutista che si getta nel vuoto dall’aereo, e il paesaggio sottostante che pare venirgli incontro a velocità folle, era una scena che gli accendeva nel cuore e nella mente sensazioni strane, come di un mondo nuovo e diverso, di una dimensione parallela della vita – quella dell’arte – che scorre accanto alla realtà di tutti i giorni, ma senza intersecarla. E quel giovanetto morente portato dalle onde, quell’Icaro caduto di Luigi de Paoli (scultore di Cordenons), chiaramente ispirato all’Abele morente di Giovanni Duprè: a quale mondo apparteneva, da dove veniva, dato che tutto, in lui, nella sua figura, appariva inesplicabile alla luce della vita ordinaria?
Ma ecco, a un certo punto, la tela che s’imponeva su tutte per il suo patetismo, per la sua drammaticità, per l’atmosfera cupa e romantica che l’avvolgeva: il Diluvio universale di Filippo Giuseppini, pittore udinese del quale il bambino nulla sapeva, neanche che avesse rivelato al mondo la sua bravura presentando, neanche venticinquenne, quella prima opera all’Esposizione annuale dell’Accademia di Venezia, nel 1836, due giorni prima che chiudesse e senza aver avuto il tempo di darle l’ultima mano. Lui restava a lungo incantato a contemplarla, con un misto di ammirazione e di disagio, quasi di sgomento; pur non sapendo nulla sull’estetica del sublime, pure qualcosa, in essa, gli parlava di cose grandi, di sentimenti sovrumani, di situazioni assolutamente straordinarie, tragiche, commoventi. Su uno sfondo roccioso e desolato, disseminato di rovine, un uomo e una donna, giovani e ben fatti, stanno ritti al centro della scena, abbracciati, con i segni della disperazione sul volto e nei gesti del corpo; il cielo, sopra di loro, è un turbine arcigno di nuvole basse e gonfie, dalle quali si rovesciano lampi e pioggia a cateratte. Lui tiene stretta la donna al suo petto e guarda in alto, gli occhi sbarrati, come si può guardare il cielo per l’ultima volta, sapendo di avere le ore, forse i minuti contati; lei lo guarda come invocando un aiuto che non può arrivare, e intanto lo stringe con ambo le braccia, come se volesse afferrarsi al relitto di una nave sul punto d’inabissarsi; ha i lunghi capelli e il vestito fradici d’acqua, la stoffa incollata alla pelle, il seno s’intravede appena ma l’insieme non è sensuale, è tragico, come lo è lo spettacolo di due esseri umani che fra poco saranno morti, come sono già morti tutti gli altri: la sensazione è che siano gli ultimi rimasti in vita di una umanità ormai totalmente distrutta, e che il cielo non si aprirà, il sole non ritornerà, né smetterà di piovere, fino a quando anche loro non saranno stati inghiottiti nella tomba liquida che ha già rapito ogni altra creatura. Guardare quel quadro, significava entrare davvero in un altro mondo: un mondo pieno di pathos, pervaso da una struggente sensazione di angoscia e di morte, ma anche qualcos’altro, una fatalità, una giustizia superiore, un destino incombente che gli uomini avevano attirato sopra di sé, da se stessi, con le loro stesse mani, con le loro empie azioni. E questo il bambino lo sapeva, o lo intuiva; glielo avevano detto le maestre al catechismo, ne aveva parlato anche il sacerdote, qualche volta; e poi aveva già visto raffigurate scene simili in qualche libro illustrato, in qualche edizione della Bibbia fatta apposta per i lettori più giovani, forse in quella – bellissima, quasi michelangiolesca – di April Oursler Armstrong, oppure in quella, originale e dalle figure brillanti e coloratissime, di Piet Worm.


Il diluvio, olio su tela di Filippo Giuseppini, 1836 (Udine, Civici musei)


In ogni caso, quegli ultimi due esseri umani non stavano per morire di una morte naturale: quella pioggia, quel diluvio, quelle cascate d’acqua e di fango, non erano solamente opera della natura; quella era la raffigurazione di una scena molto più misteriosa e profonda, era il tentativo far vedere concretamente l’ira di Dio. Ecco, qui si annidava la ragione intima di quella strana attrazione che il bambino provava nei confronti di quel quadro, fra tutti gli altri, pur non sapendo niente del suo autore, del suo stile, del periodo storico in cui era stato dipinto, e sapendo poco, o pochissimo, pure dell’episodio biblico cui si riferiva; però una cosa era chiara: quel che appariva dipinto in quella tela, quel che stavano a indicare quel giovane uomo e quella giovane donna, abbracciati convulsamente l’uno all’altra, con frenesia, quasi con rabbia, in attesa di morire, era il punto d’arrivo di un qualcosa che loro stessi, e tutti gli altri esseri umani,dovevano aver fatto; qualcosa che, allora, non era chiarissimo, ma di cui, tuttavia, una sia pur vaga intuizione era penetrata fino alla sua mente. Essi si erano ribellati a Dio, avevano vissuto in una maniera tale da disgustare il loro Creatore, e da attirare sopra le loro teste i fulmini e la pioggia torrenziale che, ora, avevano sommerso le loro case e le loro città, e fra poco avrebbero sommerso anche loro, gli ultimi esseri viventi del pianeta. C’era, in quella scena sconvolgente, una presenza invisibile: quella della giustizia divina, cioè di una giustizia superiore, che sfugge, in gran parte, allo sguardo dell’uomo, e che tuttavia l’uomo, con qualche senso nascosto, riconosce, e che sente essere tale: cioè giustizia, la quale consiste nel dare a ciascuno secondo il suo merito, nel bene come nel male. Una lezione che può essere colta solamente se ci si pone in un atteggiamento di umiltà: perché chi vuol capire tutto, perfettamente, anche il Mistero del divino, fatalmente si pone in un atteggiamento tale per cui non capirà nulla, e infine se la prenderà con Dio, rinnovando nel suo cuore il peccato di superbia e d’incredulità che proprio in quella scena pittorica viene rappresentato nel momento della sua punizione esemplare. Non tutto si può capire, e, da questo punto di vista, un adulto non è poi tanto avvantaggiato rispetto a un bambino; una cosa, tuttavia, si può capire, e la possono comprendere tanto un bambino come una persona adulta: che a Dio non la si fa; che come si vive, così si viene poi giudicati; e che una condotta di vita immorale da parte degli uomini, attira dall’alto una punizione proporzionata.
Oggi questi concetti sono diventati quasi impronunciabili, da quando la dittatura del politicamente corretto si è stabilita non solo nella società profana, ma, da ultimo, anche nella stessa Chiesa; e tutti sappiamo cosa è capitato al teologo domenicano Giovanni Cavalcoli per aver osato dire, dai microfoni di Radio Maria, che le catastrofi naturali sono una conseguenza del Peccato originale e che certi terremoti, per esempio, possono essere visti come l’effetto di un grave peccato commesso dagli uomini contro Dio e le sue leggi. Il clero odierno è diventato modernista, perché ragiona esattamente come ragiona il mondo: in questo caso, come ragionano gli scienziati, i quali non vedono altra spiegazione del mondo che la loro scienza meramente umana. E come i cattolici, oggi, quando si ragiona di storia, non pensano ad altre spiegazioni dei fatti storici se non quelle della storia stessa, cioè ragioni puramente umane; così essi, quando si parla di fatti naturali, non riescono a immaginare altre cause dei fenomeni che non siano quelle della natura e soltanto della natura, proprio come fanno gli scienziati materialisti. 
Signore, abbi pietà di noi

di Francesco Lamendola
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