Ecco perché le nuove chiese sono così brutte
Archistar & chiese. Dio, condonali: non sanno quello che costruiscono
Archistar & chiese. Dio, condonali: non sanno quello che costruiscono
Pubblichiamo qui un estratto del saggio di Angelo Crespi «Costruito da dio» (Johan&Levi, pagg. 138, euro 11). Il libro sarà presentato oggi a Milano al Megastore Mondadori (piazza Duomo 1, ore 18,30) e mercoledì al Cantiere Galli Design di Roma (via A.Pacinotti 63, ore 18,30). E se volete segnalarci le vostre chiese più brutte, mandate una foto a segnala@ilgiornale.it. Saranno tutte pubblicate online.
Verrebbe da dire: Dio, condonali perché non sanno quello che fanno. Anzi... costruiscono. Perché le nuove chiese firmate dalle archistar più apprezzate (e pagate) al mondo sembrano aver perso il senso del sacro e soprattutto del bello. Stravaganti fino all’eccesso, alcune sono capannoni o cubi, o hanno le toilette vicino all’altare; luoghi in cui si celebra di tutto, tranne il culto. E, intanto, ogni città che si rispetti desidera il proprio «museo del contemporaneo» come un tempo si ambiva al campanile.
Nella remota provincia industriale del profondo Nord d’Italia si può ammirare quella che da molti viene considerata la chiesa moderna più brutta al mondo. Mi capita di passarci davanti ogni tanto e sempre mi desta lo stesso sentimento di incredulità e raccapriccio. Descriverne l’architettura non è cosa semplice: una specie di scatola in cemento sopraelevata su colonne, la facciata composta da finestre anni Ottanta ormai sdrucite, al cui fianco corre un tunnel ovale trasparente che culmina con una statua della Madonna; di fronte, la torre campanaria in tubi Innocenti color arancio al cui interno è ingabbiato un carillon di molte campane, mentre alla base si staglia un improbabile arcangelo Gabriele; a delimitare il sagrato, infine, una serie di panettoni grigi. Non sembra una chiesa, in realtà non saprei neppure dire a cosa somigli, il parallelepipedo centrale potrebbe essere scambiato per il capannone di una fabbrica di mobili, oppure per la sede di un ufficio, mentre il lungo cannocchiale in plexiglas a lato risulta, comunque lo si veda, incomprensibile nella sua funzione, liturgica o esornativa.
Non avrei mai pensato di scriverne, anche perché lo spaesamento che generano edifici religiosi di questo tipo, sparsi un po’ ovunque, impedisce qualsiasi riflessione che non generi il puro orrore metafisico. Un giorno, invitato a una cerimonia, in una di queste chiese post-conciliari, mentre il coro intonava una canzoncina pop accompagnato da un paio di chitarre, e l’atmosfera era terribile, simile alle sere agostane passate in spiaggia a cantare Venditti e Baglioni, mi accorsi che a pochi metri a fianco dell’altare era posizionata la toilette. Da principio mi sembrò impossibile, tanto che mi alzai e senza disturbare il ritmo che i fedeli giubilanti tenevano battendo le mani arrivai fino alla porta. Sembrava di stare in una di quelle pizzerie di paese con i servizi accanto ai tavoli, una prossimità che genera imbarazzo sia in quelli che stanno mangiando sia in quelli che in processione necessitano della ritirata. Che pessima sensazione gustare la margherita o la capricciosa sentendo il rumore dello sciacquone, vedere uscire dal bagno l’avventore che cerca di asciugarsi le mani sui pantaloni; che strana sensazione l’eucarestia celebrata in prossimità del water. Ma forse non è un caso: il water è il simbolo per eccellenza della modernità. A Londra, una stanza della Tate Modern, il museo più influente del globo, è dedicata al cesso che Duchamp innalzò a opera d’arte: milioni di fedeli ogni anno si fermano davanti all’orinatoio sotto teca, come fosse una reliquia sacra, e lo venerano.
Perché le chiese contemporanee sono brutte e perché i musei della contemporaneità sono diventati cattedrali è dunque un dilemma facile da comprendere, più complesso da spiegare. Il tema, prima ancora che all’architettura, atterrebbe alla filosofia, anzi alla teologia e potrebbe essere risolto indicando la persistenza del demonio nel mondo, la sua prevalenza in questo determinato evo, l’emergere di quella che sant’Agostino definì «città terrena», cioè la mitologica Babele dove regna sovrano il caos e il brutto viene considerato bello. Che ci sia lo zampino del diavolo, il cui massimo inganno è dimostrare la propria non esistenza, lo prova la disarmante ingenuità e incuranza con cui procedono le gerarchie della ecclesia quando concedono il nulla osta all’edificazione di nuovi luoghi di culto. Edifici distanti dalle forme della tradizione, privi di qualsiasi idea di trascendenza, che possono essere ben confusi con costruzioni di altro tipo, capannoni industriali, ospedali, discoteche, autorimesse, piscine. È il tributo che la Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, paga alla modernità, alla postmodernità, alla contemporaneità: nel tentativo di risultare di moda annuncia con giubilo la propria sottomissione al secolo, anche dal punto di vista estetico.
L’altro corno del dilemma sono i musei. Ogni città che si rispetti, per no ogni paese, ogni borgo sperduto a ogni latitudine del globo, desidera il proprio «museo del contemporaneo» (un ossimoro) come un tempo ambiva al campanile. E per l’edificazione si chiamano le più celebrate archistar, le quali di solito propinano assolute stravaganze e per esse vengono onorate e gratificate economicamente. Il fine sembra quello di erigere cattedrali, tanto impattanti quanto più servono a rendere sacro un contenuto profano, cioè l’arte contemporanea che spesso – essendo orrenda, informe, di natura organica, e incomprensibile – necessita per esistere di magniloquente confezione, di un packaging di lusso. In soldoni, si tenta di risacralizzare oggetti per loro natura dissacranti, che sono gli idoli da adorare di una religione dell’inumano.
Anche questo secondo tema attiene solo in via residuale all’architettura, più specificatamente alla filosofia, ancora più strettamente alla teologia. Il vero problema è che mancano i teologi e i filosofi, mentre imperversano, maledetti, gli architetti.
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