GESU' RE:" VERITA' O
CROCE?"
Teologia. Gesù è Re mediante la verità o mediante la croce? per i cattolici, Gesù è il Re dell’universo: ma la sua regalità gli deriva dal fatto che Egli è la Verità, o dal fatto che ha scelto la Croce per amore degli uomini?
di Francesco Lamendola
Con l’enciclica Quas Primas, dell’11 dicembre 1925, Pio XI stabiliva la solennità di Cristo Re dell’universo, da celebrarsi nell’ultima domenica dell’anno liturgico.
Gesù Cristo, infatti, per i cattolici, è il Re dell’universo: ma la sua regalità gli deriva dal fatto che Egli è la Verità, o dal fatto che ha scelto la Croce per amore degli uomini?
Quando Pilato, pressato dagli anziani e dai capi del popolo, chiede a Gesù se Egli sia re, Gesù dapprima gli risponde con un’altra domanda: vuol sapere se le parole di Pilato gli siano state suggerite dai Giudei; ma il procuratore evita di rispondere, dice di non conoscere le usanze e il linguaggio dei Giudei, i quali l’hanno consegnato a lui (sono forse giudeo?), e poi, in maniera più diretta, da romano che non vuole impicciarsi in questioni religiose giudaiche, gli chiede: Che cosa hai fatto? E questa volta Gesù, rispondendo alla domanda precedente di Pilato, ma in maniera indiretta, spiega in che senso si debba intendere la sua regalità: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù (Gv., 18, 36). Allora Pilato, che, da uomo pratico, non ha ben compreso la distinzione in tutte le sue sfumature, e vuole stringere in mano una vera confessione, ripete la sua prima domanda: Dunque tu sei re? E Gesù gli risponde: Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce (id., 37).
Risposta che Pilato comprende ancor meno della precedente, tanto è vero che si limita a borbottare, quasi parlando a se stesso: Che cos’è la verità? (id., 38). Subito dopo, però, esce fuori del tribunale e, rivolgendosi ai Giudei, dice di non aver trovato alcuna colpa nell’imputato, e propone loro di liberarlo, secondo l’usanza pasquale: o lui, o Barabba. Non c’è alcun dubbio che egli preferirebbe che la folla gli chiedesse la liberazione di Gesù, perché Barabba era un assassino, e, forse (ma questa è solo un’ipotesi, peraltro non assurda), se era anche uno zelota, aveva ucciso proprio un romano, o un giudeo considerato simpatizzante dei romani. Evidentemente, nonostante il suo scetticismo religioso e quasi il suo fastidio per le complicate e litigiose consuetudini giudaiche, il procuratore ha capito almeno l’essenziale: che Gesù si proclama re, ma non nel senso politico del termine, bensì solo in senso religioso. Ai suoi occhi, dunque, Gesù non costituisce alcun pericolo per l’ordine pubblico: sono i Giudei che, vedendolo così restio ad accogliere le loro richieste di emettere una sentenza capitale, spostano le loro accuse sul versante politico, affermando che Gesù, proclamandosi re, ha sfidato l’autorità dell’imperatore, il che implica la pena di morte.
Questo è un brano del Vangelo di Giovanni che piace poco ai fautori del “dialogo” inter-religioso, perché temono che esso suoni offensivo agli orecchi dei giudei, e comprometta la riconciliazione e le buone relazioni fra le due religioni; così pure, esso è letto con un certo distacco dai cattolici progressisti e neomodernisti, ai quali il concetto stesso di una regalità di Gesù Cristo, e sia pure in senso spirituale, risulta un po’ allergico, perché mal conciliabile con l’idea, che per loro è diventata ovvia e scontata, che un buon cristiano è anche, anzi, deve essere anche, un buon democratico, o, quanto meno, un buon liberale. E la parola “re” ha sempre un suono un po’ antipatico per questo genere di persone, poiché il loro obiettivo è quello di trasformare la Chiesa cattolica in una repubblica democratica e assembleare, dopo averla trasformata (col Vaticano II) in una monarchia costituzionale, in cui le conferenze episcopali, i sinodi e il concilio stesso affiancano e smorzano, in qualche misura, l’autorità assoluta del pontefice, anche in campo magisteriale. D’altra parte, se si prescinde dalla regalità di Cristo, si mette in ombra un aspetto centrale della Rivelazione: Gesù non è “semplicemente” Colui che Dio ha mandato nel mondo come Redentore, ma è, appunto in quanto Redentore, il sovrano dell’universo:tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (Gv., 1, 3).
Rimettere al centro dei propri pensieri, per il cattolico, la regalità di Cristo, significa premunirsi contro la deriva storicista e immanentista, che si delinea da tempo nella “teologia” neomodernista, la quale, al contrario, vuole porre l’accento, deliberatamente e tendenziosamente, sull’umanità di Gesù: come se, essendosi Gesù fatto uomo, da quel momento il regno di Dio fosse diventato il mondo stesso, e non vi fosse più distinzione fra l’una e l’altra cosa; errore capitale che è alla base di tante deviazioni inaugurate dal Concilio Vaticano II. Secondo quella interpretazione, l’Incarnazione di Gesù ha, in certo qual senso, “divinizzato” il mondo, nel senso che ha conferito anche al mondo la qualità ontologica di Cristo, che è il Figlio di Dio. Ma si tratta, evidentemente, di una vera e propria eresia, perché Gesù si è fatto uomo pur continuando ad essere Dio, e il fatto della sua umanità non restituisce al mondo la perfezione originaria, ma offre una risposta alle conseguenze del Peccato originale, conseguenze che rimangono e che rimarranno sino alla fine del mondo stesso. Opinare diversamente equivarrebbe a dire che Gesù, con l’Incarnazione, ha tolto il Peccato originale, il che, evidentemente, è del tutto falso: ed ecco perché è così importante tradurre la frase ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi, non con l’espressione “che toglie i peccati del mondo”, ma con quella “che prende su di sé i peccati del mondo”; tollere significa innalzare, elevare, far salire, prendere su, e non già “levare”, “portare via”. E dunque, Gesù Cristo è il Redentore perché è il Re dell’universo; se non fosse il Re dell’universo, non potrebbe essere il Redentore, perché non avrebbe l’autorità per “prendere su di sé i peccati del mondo”, i peccati degli uomini (cioè i loro peccati “attuali”, e non il Peccato originale, che resta). Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe (Gv., 1, 10). E ancora: in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo (Eb., 1, 2). Resta comunque l’interrogativo: la regalità di Gesù consiste nella Verità o nella Croce? Egli è Re perché rende testimonianza alla Verità, o perché prende su di sé tutti i peccati mediante la Croce? Ma forse, a ben guardare, si tratta di un falso problema; forse le due cose non si pongono in alternativa reciproca, bensì si completano, perché la Verità è la Croce, e la Croce è la Verità.
L’insigne teologo e biblista belga Ignace de la Potterie (1914-2003) ha così riassunto la questione, nel suo saggio La Passione di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni (titolo originale: Het Passieverhaal vo gens Johannes. Tekst en geest, Bonheiden, Belgique, Abdij Bethelem, 1983; traduzione dal francese La Passion de Jésus selon l’évangile de Jean, di Elena De Rosa, Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 1988, pp. 97-99):
Come conclusione, bisogna accennare al problema della regalità di Crosto. È re mediante la verità o mediante la croce?
Nel primo dialogo con Pilato, alla domanda: “Dunque sei tu re?”, egli risponde: “Tu lo dici, io sono re. Io sono nato e sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (18, 37). Nella misura in cui gli uomini ascoltano la voce di Cristo e si lasciano educare da lui, in questa misura essi divengono suoi “discepoli” e formano gradualmente il nuovo popolo di Dio, e in questa stessa misura Cristo è signore dei suoi, pastore del gregge, re del popolo messianico. Il regno della verità è instaurato, il che costituisce un aspetto della regalità di Cristo. D’altra parte, Giovanni considera la croce come un trono da cui Gesù “attirerà tutto a sé” […].
Gesù è dunque re mediante la verità o mediante la croce? O per ambedue ad un tempo? In quest’ultimo caso qual è la relazione fra le due?
In termini dogmatici: nella teologia di Giovanni, qual è il rapporto tra il tema della rivelazione e il tema della salvezza?
Secondo Bultmann, che ha visto le cose in modo corretto, l’evento della croce , nel pensiero di san Giovanni, è in un certo senso incluso nella categoria più generale della rivelazione. La croce è l’apice rivelatore per eccellenza; lì Cristo rivela chi è, lì è re mediante la verità. Nella traduzione latina di un’omelia sulla croce, di un certo vescovo armeno Atanasio, si trova la felice formula: “De veritate sanctae crucis”, “sulla verità della santa croce”. Questa sintesi è perfetta; utilizza la parola “verità” nel senso giovanneo di parola rivelatrice: dalla croce proviene la rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Nella croce di suo Figlio e per mezzo di essa, il Padre rivela il suo disegno sugli uomini. L’evento della croce è così ripreso nella visione generale della verità, della rivelazione apportata dal Cristo. Gesù è re attraverso la sua croce, ma lo è anche attraverso la sua verità.
Per contro, nella visione teologica di Giovanni, la ricca tematica di Gesù sommo sacerdote, la categoria dell’ordine rituale, quale la si trova nella lettera agli Ebrei, non svolge praticamene alcun ruolo. È una falsa problematica il contrapporre croce e verità. La teologia della rivelazione, in Giovanni, non deve essere completata da una teologia del sacrificio: la croce, senza dubbio, non deve essere eliminata, ma in Giovanni deve essere integrata nella teologia della rivelazione.
Gesù è Re mediante la verità o mediante la croce?
di Francesco Lamendola
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