ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 27 gennaio 2018

«Incredibile!», sibilò il teologo.

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Vecchia formula

    In quel tempo, al termine del concilio convocato per decretare ufficialmente l’obbligo di utilizzare l’ecclesialmente corretto, i reverendi padri, dopo lunghe discussioni, raggiunsero l’accordo sulla nuovissima traduzione, riveduta e corretta, e poi ricorretta e ri-riveduta, del «Padre nostro», adottata al posto della vecchia formula, da tutti giudicata inadeguata.
Determinante fu il contributo di un noto teologo che si batté per la nuova formula riuscendo a convincere anche i più recalcitranti.
Dunque la formula ricorretta e ri-riveduta diceva: «Padre nostro (ma anche madre e comunque senza distinzioni di genere), tu che sei nei cieli (ma anche in tanti altri posti e praticamente ovunque), sia onorato il tuo nome, venga la tua democrazia, sia ascoltata la tua opinione (nel rispetto di tutte le altre e nel doveroso dialogo), come nel mondo degli ideali così come sul territorio. Dacci oggi la nostra alimentazione corretta quotidiana e sii misericordioso nei confronti dei nostri debiti così come noi siamo tolleranti verso i nostri debitori, e non ci abbandonare alla tentazione, ma liberaci da ciò che soggettivamente riteniamo essere il male nella data situazione e tenuto conto di tutte le circostanze attenuanti. Amen».

Dopo la parola «nostro» c’era un asterisco che rimandava a una nota a piè di pagina nella quale si poteva leggere: «Abbiamo ritenuto di mantenere l’antica versione e di continuare a dire “nostro”, ma con questo aggettivo possessivo non vogliamo in alcun modo avanzare la pretesa che il Padre sia soltanto di coloro che si dicono cristiani. Il padre è in realtà “nostro” nel senso che è dell’umanità intera, di tutti i popoli sulla terra, nessuno escluso, perché la Chiesa, oltre a essere comprensiva e accogliente, è inclusiva».
Dopo la parola «debitori» c’erano due asterischi. Rimandavano a una seconda nota nella quale si poteva leggere: «Abbiamo ritenuto di mantenere l’antica versione e di continuare a dire “debitori”, ma con questa parola non vogliamo ferire nessuno. Chi si dovesse sentire nella condizione del debitore sappia che nessun giudizio è formulato nei suoi confronti».
Qualche padre conciliare, pur proclamandosi d’accordo con le esigenze dell’ecclesialmente corretto,  fece notare che le note a piè di pagina erano, nel complesso, più lunghe dell’intera preghiera e dunque si notava una certa sproporzione, ma la maggioranza disse che spesso è proprio nelle note che emerge il significato più autentico di un testo, com’era successo molti anni prima con la rivoluzionaria «Amoris laetitia», e gli asterischi furono approvati.
La versione ri-riveduta e ricorretta del «Padre nostro» fu dunque pubblicata. Ma avvenne un fenomeno strano. Per quanto le conferenze episcopali nazionali si impegnassero nell’imporre il nuovo testo, la gente, stranamente, continuava a pregare come una volta, con la vecchia formula. Durante le sante messe la cosa assumeva contorni alquanto singolari. Succedeva infatti che il celebrante, ligio al dovere, attaccasse con la nuova formula, salvo poi tornare alla vecchia quando si rendeva conto che i fedeli pregavano seguendo il testo tradizionale.
«Tutto ciò è inammissibile!», tuonò il noto teologo. «Ogni uomo prega secondo il linguaggio del suo tempo, espressione di una data cultura, ecco perché occorre cambiare le parole. Se davvero Gesù pregò come ci è stato insegnato (ma non possiamo saperlo, perché nessuno all’epoca registrò), nulla vieta che oggi noi adattiamo quel testo alle nuove esigenze e alle nuove sensibilità».
Ma non ci fu nulla da fare. Nonostante gli sforzi fatti per imporre il nuovo testo (fu corretto anche il Catechismo), la gente continuava a dire: «Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen».
«Incredibile!», sibilò il teologo. «Dicono ancora “e non ci indurre in tentazione”; e pensare che noi incominciammo il necessario adeguamento proprio da lì!».
Un giorno il noto teologo, che non era tanto anziano ma aveva una salute un po’ precaria, si sentì male e finì all’ospedale. Era in uno stato di quasi incoscienza, però capiva ciò che accadeva attorno a lui e vedeva i medici che scuotevano la testa. «È finita», pensò. E si mise a pregare. Incominciò dunque a dire: «Padre nostro, ma anche madre…». Tuttavia non riuscì ad andare avanti. Per quanto si sforzasse di applicare le regole dell’ecclesialmente corretto, da lui stesso fissate, dal cuore gli salivano le parole di un tempo, della vecchia preghiera, imparata quand’era bambino, non riveduta e non ricorretta e neanche ri-ricorretta. «Che strano…» pensò. E fu quello il suo ultimo pensiero prima di spirare.
Quando, un istante dopo, si trovò davanti a Dio per il giudizio, il noto teologo restò alquanto stupito. Non se lo sarebbe mai immaginato. Dio era proprio un vecchio, e aveva proprio la barba, come nell’iconografia che lui, il teologo, aveva sempre giudicato ingenua. Ed era proprio assiso in trono, e alla sua destra c’era il Figlio! E quello era proprio il momento del giudizio!
«Incredibile!», pensò il noto teologo. «Chi l’avrebbe mai detto?».
Dopo di che Dio gli chiese di recitare il «Padre nostro», e fu a quel punto che il noto teologo si trovò nel dubbio. Che fare? Utilizzare la nuova formula, che lui, in quanto grande esperto della materia, aveva contribuito a elaborare, oppure attenersi alla vecchia?
Dio sembrò leggergli nel pensiero. Gli disse infatti: «Figliolo, non stare tanto a pensarci. Su! Latino o volgare, fa lo stesso».
Latino o volgare! Dio pensava che il rovello interiore del noto teologo fosse quello, e invece…
Comunque non c’era tempo da perdere, perché altre anime erano in attesa del giudizio. E fu così che al noto teologo salì dal cuore la preghiera di una  volta, vecchia formula.
«Ma guarda», disse Dio lisciandosi la barba e voltandosi dalla parte del Figlio con un’espressione di finta sorpresa. «M’era sembrato di capire che questo testo fosse superato».
Il Figlio non commentò e sorrise.
«Pietà di me» disse allora il noto teologo. E pianse.
Arrivarono due angeli e scortarono il noto teologo verso il luogo stabilito per lui.
Egli non credette ai suoi occhi e alle sue orecchie. Era un giardino, bellissimo. E lì, immersi in una melodia di una dolcezza indescrivibile, decine, centinaia, migliaia di bambini cantavano incessantemente il «Pater noster». Vecchia formula.
Aldo Maria Valli

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