Catechesi Don Minutella - 24-gennaio 2018
Perché alla teologia di Walter Kasper sfugge la vera sostanza del Mistero cristiano. La degradazione della teologia ad antropologia: un abbassamento della regale divinità di Cristo in una ambigua “umanizzazione”
di Francesco Lamendola
Walter Kasper, cardinale tedesco nato a Heidenheim an der Brenz, nel Baden-Württemberg, nel 1933, è considerato da molti, oggi, come l’esponente principale di un vero e proprio modello teologico, non solo diverso, su importanti questioni, da quello “tradizionale”, ma alternativo e incompatibile con esso; in altre parole, come il maggiore ispiratore di quella “svolta antropologica” che ferve da alcuni decenni soprattutto nell’area di lingua tedesca, e il cui obiettivo finale è, in buona sostanza, adeguare sempre di più il Vangelo al mondo, anziché il mondo al Vangelo.
Oltre ad aver ricoperto importantissimi incarichi ai più alti livelli della gerarchia cattolica, Kasper è anche considerato come il vero ispiratore del Sinodo sulla famiglia voluto da papa Bergoglio, il quale, del resto, ha reso pubbliche grazie al cardinale e teologo tedesco, dicendosi felice di aver letto la sua relazione preparatoria e d’averla trovata alquanto stimolante e “rasserenante”. Le posizioni di Kasper sui divorziati che si sono risposati, come pure sulla questione delle unioni omosessuali, sono talmente avanzate, che incontrano non solo la perplessità, ma anche la decisa opposizione di una parte della Chiesa, e in particolare quella, autorevolissima, del cardinale Gerhard L. Müller, attuale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Per lui, le idee di Kasper in materia di famiglia, divorzio, omosessualità, non sono in linea con la tradizione della Chiesa, contraddicono anzi il Magistero ecclesiastico, e non trovano alcuna base di appoggio in una lettura, per quanto “libera” e disinvolta, del Vangelo. Kasper, da parte sua, sul tema dei divorziati risposati, ha testualmente affermato: Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale. Abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo – come lo ha fatto il buon Samaritano – considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto. Ecco, dunque, quel che desidera il cardinale Kasper, e lo dice apertamente: un cambiamento di paradigma. Come se qui si discutesse di un paradigma culturale come un altro, in termini di cultura laica (non ci si lasci fuorviare dal sapiente richiamo alla parabola del buon Samaritano, che, peraltro, è pertinente quanto lo sono i cavoli a merenda), e non di un complesso inscindibile di dottrina e di azione pastorale che ha duemila anni di Tradizione alle spalle, e che si richiama direttamente alla Rivelazione di Cristo.
Il vaticanista Sandro Magister ha sottolineato questo aspetto del problema, che Kasper affronta, da parte sua, con la consueta baldanza: Di fronte alla sfida del presente, Kasper ha premesso che “la nostra posizione oggi non può essere un adattamento liberale allo statu quo, ma una posizione radicale che va alle radici, che va al Vangelo”. Kasper, insomma, vorrebbe fondare la sua proposta rivoluzionaria – perché un cambio di paradigma non è una riforma, per quanto radicale, ma una rivoluzione: questo concetto, almeno, bisogna che sia assolutamente chiaro a tutti – su un “ritorno” alle radici, su un ritorno al Vangelo. Sono le stesse tematiche, ed è la stessa impostazione, che furono proprie, a suo tempo, di Lutero: tornare al Vangelo, e intanto rifare dalle fondamenta ogni cosa, dopo aver azzerato l’esistente. E l’esistente, se qualcuno non lo avesse ancora capito, è la Chiesa cattolica: per quello che essa è, nel bene e nel meno bene; per quello che rappresenta rispetto alla Tradizione e alla Scrittura, delle quali è depositaria da duemila anni; e per quello che essa rappresenta riguardo al futuro della cristianità, e anche dell’umanità tutta, vista la dimensione ormai globale che ogni grande svolta politica, sociale, culturale, scientifica, tecnologica, inevitabilmente finisce per assumere, ma vista anche, e soprattutto, la natura ecumenica della Chiesa stessa, e la sua perenne, irrinunciabile vocazione missionaria.
Ma che cosa vorrebbe, Kasper, quale spirito animatore della sua Chiesa? Per farcene una idea, prendiamo in esame il Misteri cristiano per eccellenza, il Mistero eucaristico: anche se i teologi della sua tendenza raramente parlano dei “misteri” cristiani, e lo fanno quasi controvoglia, oppure evitano di farlo, imbevuti come sono di razionalismo “laico” e d’immanentismo. Kasper, in particolare, è largamente debitore della filosofia di Hegel e, più ancora, di quella di Schelling, per il quale ha avuto espressioni di lode iperbolica, anche se si stenta a capire che cosa possa aver trovato di tanto prezioso un teologo cristiano, che è anche un cardinale della Chiesa cattolica, nel vago e confuso panteismo del pensatore idealista tedesco. L’Eucarestia è il maggiore dei Sacramenti, e i Sacramenti sono il cuore della dottrina cattolica: perciò, quel che un teologo pensa dell’Eucarestia è rivelatore di moltissime altre cose, diremmo di tutta la sua visione speculativa e di tutta la sua prospettiva spirituale.
Ci serviremo di una pagina tratta dal saggio di monsignor Antonio Livi, «L’Eucarestia secondo Kasper», pubblicata su «Disputationes Theologicae». Ricordiamo che padre Livi (nato a Prato il 25 agosto 1938, e, dunque, di soli cinque anni più giovane di Kasper) non è un signore qualsiasi: è uno dei massimi filosofi cattolici viventi e proviene da una scuola di altissima caratura, essendo stato allievo di Étienne Gilson e collaboratore di Cornelio Fabro: e basterebbero questi due nomi per far capire la qualità e lo spessore straordinario di questa scuola di pensiero, che si propone di restaurare, dopo tante astrusità e fumisterie incomprensibili, talvolta, agli stessi specialisti, la filosofia del senso comune. Dice, dunque, padre Livi, che, in una ecclesiologia sostanzialmente immanentistica, come quella delineata da Walter Kasper, il Mistero eucaristico non riesce più a trovare il proprio adeguato e naturale spazio teologico (riportiamo solo il passaggio centrale della sua riflessione, omettendo, per brevità, le numerose note):
I frequenti cambiamenti di tesi teologiche che hanno caratterizzato la produzione scientifica e la pubblicistica divulgativa di Kasper fanno pensare che il criterio (i target, la finalità, lo scopo finale) dei suoi discorsi non sia tanto una valida proposta di interpretazione del dogma, animata dallo zelo per la sua applicazione salvifica alla vita dei fedeli, quanto piuttosto l’ansia di imporsi nell’opinione pubblica come figura di rilievo dell’ala progressista della teologia contemporanea, soprattutto in rapporto all’ecumenismo, ossia al “dialogo” con i protestanti in vista di un “riavvicinamento” rituale e dottrinale tra loro e la Chiesa cattolica. In ogni caso, va detto che, nelle opere di Kasper, la continua proposta di “riforme” della Chiesa - riforme istituzionali, liturgiche, pastorali - ignora il necessario riferimento alla fondamentale “forma” che la Chiesa ha per istituzione divina; e ciò dipende dalla svalutazione dei principi propriamente teologici dell’ecclesiologia, a cominciare dal riconoscimento esplicito della natura divina di Cristo come Verbo Incarnato che ha affidato alla Chiesa da Lui fondata la prosecuzione della sua missione salvifica con il fedele annuncio dei misteri soprannaturali e la grazia santificante dei sacramenti. I principi propriamente teologici dell’ecclesiologia erano stati giustamente connessi con il dogma cristologico (e anche a quello mariologico) negli anni precedenti il Concilio da un altro teologo del Novecento, lo svizzero Charles Journet, il quale aveva saputo ripresentare e sviluppare coerentemente i principi essenziali della tradizione dogmatica su Cristo, Maria e la Chiesa nel suo trattato su “L’Église du Verbe Incarné”, la cui dottrina risulta in gran parte recepita nella costituzione dogmatica “Lumen gentium”, specie nell’ottavo capitolo, lì dove il Concilio parla di Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa. Ma Kasper, che pure si presenta come “teologo conciliare”, ignora sistematicamente le nozioni propriamente teologiche dell’ecclesiologia, anzi pretende di “purificare” la fede cattolica dalle «forme e formule» che pure erano state riconfermate solennemente dal Vaticano II, in quanto proprio queste «forme e formule» assicurano il carattere soprannaturale (trascendente) delle realtà divine e giustificano il culto di adorazione che la Chiesa tributa a Cristo, che è Dio, il Verbo eterno che nel tempo si è fatto carne ed è realmente presente nell’Eucaristia, così come giustificano la venerazione nei confronti di Maria, riconosciuta come Madre di Dio in quanto è la vera Madre di Cristo che è Dio. La battaglia per l’abolizione di termini teologici dal sapore “metafisico”, presentata come mera esigenza pastorale (la solita pretesa necessità di abbandonare un linguaggio che risulterebbe incomprensibile e inaccettabile per l’uomo di oggi), è indirizzata in realtà a eliminare dalla “predicazione” tutti i principi di base dell’ecclesiologia cattolica, sottomettendoli a una sistematica critica razionalistica, a cominciare proprio dalla nozione di “Verbo Incarnato”. Questa infatti è ridotta in termini immanentistici nella sua opera più nota, “Jesus der Christus”, dove Kasper propone la “sua” cristologia in chiave antimetafisica: si tratta in realtà di una riformulazione del dogma cristiano attraverso l’adozione delle categorie immanentistiche proprie della filosofia religiosa di Schelling, il quale riduce le tre Persone divine a tre “modi di sussistenza” di un’unica realtà divina, la cui natura si risolve nella storia del suo manifestarsi al mondo. Nell’orizzonte di questa Selbstoffenbarung Gottes, Cristo non è più creduto e adorato come Mediatore tra Dio e gli uomini, ma è ridotto alla manifestazione storica della Trinità “economica”. Kasper non riesce a emanciparsi dalla filosofia della rivelazione schellinghiana, come invece aveva fatto nel suo stesso ambiente tedesco Romano Guardini, e così, da teologo cattolico finisce per ostinarsi in un’opera insensata di decostruzione del dogma cristologico tradizionale; persino le prove storiche della divinità di Cristo - ossia i miracoli da Lui operati con l’esplicita intenzione di mostrare la sua onnipotenza e sostenere così la fede dei discepoli - vengono sottoposti da Kasper al dubbio sulla loro effettiva verità fattuale e sul loro significato teologico in rapporto alla fede, sicché in definitiva vengono a essere negate per quello che essenzialmente sono, cioè l’evidenza empirica dell’intervento di Dio, facente parte dei motivi di credibilità. Dalla negazione implicita della divinità di Cristo deriva l’uso insistito che Kasper fa dell’espressione «il Dio di Gesù Cristo»,espressione che appare anche come titolo di una delle sue opere dianzi citate (“Der Gott Jesu Christi”) e che, in quanto separa il nome di Dio dal nome di Cristo, insinua semanticamente la negazione della divinità di Gesù, non riconosciuto come l’unigenito Figlio di Dio, consustanziale al Padre. In realtà, Kasper partecipa in pieno a quella corrente ideologica che fa capo a Hans Küng e a Kar Rahner e che intende la teologia come antropologia, suggerendo alla Chiesa di parlare non tanto di Dio quanto dell’uomo; in conformità a questo preciso indirizzo speculativo, Kasper mette da parte il discorso sulla duplice natura di Cristo, Verbo eterno (discorso che logicamente ha senso solo se si ammettendo che le categorie metafisiche di “persona” e di “natura” siano adeguate alla necessaria formulazione dogmatica del mistero soprannaturale contenuto nella Rivelazione) e riduce la cristologia a un discorso di stampo fenomenologico sulla coscienza di Gesù come “uomo che parla di Dio”.
Crediamo che Antonio Livi sia stato di una tale chiarezza, di una tale linearità, di una tale capacità di andare dritto al nocciolo delle cose, che non vi sia bisogno di ulteriori commenti. In questa degradazione della teologia ad antropologia; in questo abbassamento della regale divinità di Cristo in una ambigua “umanizzazione” che, togliendo di mezzo tutto ciò che sa di soprannaturale (come i miracoli), per non disturbare la sensibilità laicista e modernista e per non concedere nulla, ma proprio nulla, a ciò che è “teologico” in senso forte, sta il senso ultimo del “cambio di paradigma” auspicato da Walter Kasper, sulla scia di “maestri” quali Karl Rahner e Hans Küng. Essi hanno voluto rifondare una teologia debole, a imitazione del pensiero debole caro ai filosofi laici del dubbio sistematico, del sospetto eretto a sistema, della diffidenza e della insofferenza verso i contenuti “forti”, i valori assoluti, le affermazioni nette, le scelte radicali. Mentre a noi sembra che, a questo proposito, abbia visto giusto un grande filosofo e teologo, che appartenne, sì, all’ambito culturale del luteranesimo, ma che si spinse molto più avanti dei suoi consimili, e che, come ben vide Cornelio Fabro, si avvicinò in molti punti, e sia pure inconsapevolmente, alla prospettiva propriamente cattolica: Sören Kierkegaard. Per Kierkegaard, la fede è un “paradosso” ed esige scelte drastiche, non ambigue mediazioni, le quali, peraltro, risolvono le cose solo sulla carta, ma lasciamo intatte le antinomie della vita reale. La fede è un aut-aut, e non un et-et, come per Hegel. E allora diciamo, con Kierkegaard, con Fabro, con Gilson, con Livi, con Guardini, con Amerio: iota umnum, non cadrà nemmeno uno iota dalla Legge divina. I “cambiamenti di paradigma” alla Walter Kasper, se pure non sfociano in vere e proprie eresie, vanno e passano; solo il Verbo rimane, intatto.
Perché alla teologia di Walter Kasper sfugge la vera sostanza del Mistero cristiano
di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
Già pubblicato il 22 Marzo 2016
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