IL DIO IN CUI CREDERE
Il dio in cui, bontà nostra, possiamo ancora credere. Le funeste conseguenze della “svolta antropologica” varata da Karl Rahner e del dio del ’68 sulla neochiesa di oggi e la foglia di fico dei “poveri” e dei falsi profughi
di Francesco Lamendola
Una delle funeste conseguenze della “svolta antropologica” in teologia, varata da Karl Rahner e dai suoi amici e sodali del Vaticano II, è stata la deformazione psicologica per cui molti cattolici, a partire da quegli anni, i primi anni ’60 del Novecento, hanno cominciato a pensare che non loro devono aprirsi al mistero di Dio, cercarlo umilmente, adorarlo e servirlo fedelmente, ma è Lui che deve adeguarsi alle loro aspettative, alle loro categorie, alle loro umane possibilità e prospettive: in un certo senso, sono gli uomini che decidono in quale dio sono disposti a credere, e che si sentono legittimati a rifiutare quel dio le cui pretese apparissero loro “eccessive”. In fondo, è una variante della mentalità consumista, estesa all’ambito del sacro e del divino: come si va al supermercato e si sceglie il prodotto che più soddisfa, il più economico, il più appetitoso, il più conveniente, così si va in chiesa per cercare quel dio (minuscolo) che risulta più confacente ai propri desideri e ai propri bisogni, o meglio, alle proprie “esigenze”: perché i bisogni sono qualcosa di reale, mentre le esigenze sono delle necessità artificiali, e quindi immaginarie, spacciate però come irrinunciabili. E come, al supermercato, o al centro commerciale, si sceglie sullo scaffale, in mezzo a tanti altri, il prodotto che appare più utile o più desiderabile, così si va in chiesa con la pretesa d’incontrarvi un dio di proprio gusto, che chiede poco, ma offre abbastanza da soddisfare una “spiritualità” banale e superficiale, in ultima analisi infantile e capricciosa, figlia del consumismo e non di un autentico bisogno dell’anima.
Non è casuale la coincidenza temporale con il ’68 studentesco: vogliamo tutto e lo vogliamo subito, scandivano i contestatori figli di papà; e i “nuovi” credenti condividevano, con essi, l’atteggiamento di fondo, sia pure non del tutto confessato ed esplicito: il mio dio è mio e quindi deve fare quel che va bene a me. Non, però, abbastanza sinceri con se stessi da riconoscere la propria pretesa per quel che è realmente, codesti cattolici “adulti” e “maturi”, ché tali si sono immediatamente auto-proclamati, hanno invocato, quale paravento del loro utilitarismo e del loro narcisismo, la foglia di fico dei “poveri”: dio è il dio dei poveri; essi amano i poveri (anche se non lo sono, sono quasi sempre figli di papà, proprio come gli studenti sessantottini); ergo, il dio dei poveri è il loro dio, e non lo è di quegli altri, i “ricchi”, gli egoisti, i “razzisti”, i “populisti”, gli “xenofobi”, insomma, tanto per capirci, quelli che, ai nostri dì, non sono disposti a regalare l’Italia e l’Europa ai migranti/invasori islamici convinti d’aver tutto il diritto di stabilirsi qui, come se fosse casa loro. E chi ha instillato in quei marocchini, nigeriani, senegalesi, congolesi, e chi sa che altro, una tale, balorda convinzione: al punto che appena arrivati, in qualità di presunti profughi, subito cominciano a spacciare, prostituirsi, rubare, rapinare, stuprare, picchiare e ammazzare; e che, scontenti di essere ospitati nelle ex caserme e nutriti con un menù troppo “monotono”, fanno le marce di protesta e gli scioperi della fame, convinti, convintissimi di aver diritto a soggiornare in case o in alberghi, e di poter scegliere il piatto del giorno, come al ristorante? Chi ha instillato in loro tali assurde pretese, che fanno a pugni con il quadro di “guerra e fame” dal quale, come ci ripetono i media addomesticati di regime, essi sono fuggiti in preda alla “disperazione” (ma lasciando rigorosamente a casa, in balia di simili orrori, le loro mogli, i loro figli e i loro anziani genitori, come tanti Enea alla rovescia)? Chi, se non i cattolici “adulti” e “maturi”, i cattolici progressisti e di sinistra, tutti Vangelo ed uguaglianza giacobina? Chi, se non questi Paglia e Galantino, e questo (falso) papa Bergoglio, che ogni giorno, dal pulpito, compresa la santa Messa di Natale, ci rintronano gli orecchi col dovere cristiano di accogliere questi nostri “fratelli” che vengono da noi in cerca, dicono, di “pace”, come si evince, per esempio, dal fatto che uno di essi è andato a trovare la sua donna, ospite di un centro d’accoglienza, e l’ha sgozzata come un animale, per vendicarsi d’essere stato lasciato? Ma via, queste cose non dovremmo dirle; noi cattivi, noi ricchi ed egoisti, non siamo neanche degni di legare i sandali a questi martiri della libertà e della pace…
Dunque: per il cristiano moderno, la questione religiosa si riduce a un fatto di compatibilità con il modo di sentire, di pensare e di vivere dell’uomo moderno in quanto tale: egli è disposto a credere in un dio fatto secondo le sue aspettative, e si sente in diritto di rifiutare un dio che si permetta di chiedergli troppo: per esempio, che si permetta di chiedergli di rifiutare il peccato e di seguire la via della santificazione. Con la scusa che dio è “amore”, che Dio è “misericordioso”, che dio capisce le nostre “fragilità”, alla fine ci si fabbrica un dio secondo la propria immagine: banale, permissivo, zuccheroso e inconsistente. Un dio che non serve a nulla e che non redime nessuno, se non altro perché non c’è nulla da redimere: se l’uomo avesse bisogno d’essere redento, vorrebbe dire che l’uomo è peccatore; ma il cattolico “adulto” si è liberato da questa ubbia, da questa nevrosi, da questo “senso di colpa”, non si sente peccatore, ergo ritiene di non esserlo. Quel che gli serve non è un dio che lo redima, ma un dio-cagnolino, che gli scodinzoli attorno festoso, o un dio-gattino che gli faccia le fusa in grembo: un dio tenero e dolce, che non dice mai di no, che non pretende sacrifici, che non pone limiti, che non vieta mai nulla, perché tutto quel che l’uomo moderno vuole è “legittimo”, in quanto scaturisce da bisogni “naturali” e da “normali” aspirazioni: compresi il divorzio, l’aborto, la sodomia, la pederastia, l’incesto e la libertà di drogarsi.
La neochiesa nasce da questa perversione del vero sentimento religioso da questo capovolgimento dei giusti termini del rapporto fra l’uomo e Dio. Facendo leva sul fatto che Gesù Cristo ha tanto insistito, giustamente, sul fatto che Dio va a cercare gli “ultimi”, le pecorelle smarrite, i membri del neoclero hanno proclamato che tutti i cattolici “adulti” sono gli ultimi e che, poverini, sono smarriti, feriti, eccetera (vedi l’ospedale da campo di bergogliana memoria), quindi hanno preteso di predicare un dio secondo il loro metro: un dio che accetta qualsiasi cosa accondiscende a qualunque richiesta, compreso il peccato: si veda il capitolo ottavo della esortazioneAmoris laetitia, vera e propria inversione dell’autentico Vangelo di Gesù, dato che Gesù, alla donna adultera, non ha detto: Vai e segui il tuo cuore, ma ha detto: Vai e non peccare più. Dispiace che a questa deriva modernista e progressista si siano accodati anche settori della Chiesa che a lungo, anche negli anni successivi al Concilio, avevano conservato la piena fedeltà all’autentico Vangelo di Gesù; ne prendiamo atto con profonda malinconia. I padri dehoniani, per esempio, hanno conservato, e molti di essi senza dubbio conservano ancora, la fedeltà al vero Vangelo; da alcuni segnali, però, appare che una parte di essi si sta adeguando al nuovo andazzo, del quale non c’è proprio nulla di cui vantarsi. Prendiamo ad esempio ciò che ha scritto don Giuseppe Moretti sul periodico Presenza Cristiana, in un articolo significativamente intitolato C’è ancora posto per la fede, oggi? (Andria, Barletta, n. 2 di marzo/aprile 2017, pp. 45-46):
L’uomo moderno è il risultato di complesse esperienze che ancora pesano su di lui. Dopo la fiducia nel pensiero (filosofia) si è pressoché esaurita anche la fede nel progresso, alla luce delle tragiche realtà delle guerre e delle violenze ormai inarrestabili. La secolarizzazione ha investito gli ambiti tradizionali della religione creando smarrimento; il consumismo e il benessere, dopo una fiammata di entusiasmo, stanno lasciando una forte delusione; il pluralismo religioso che si sta affermando anche da noi rischia di relativizzare ogni utopia e ogni sicurezza di fede. L’uomo, anche l’uomo della strada, sente nostalgia di sicurezze profonde e torna a bussare alla porta dei valori spirituali. Se la risposta non sarà adeguata la delusione creerà una sofferenza ancora più grande.
Il cristianesimo con l’annuncio della ”incarnazione” ha profondamente cambiato i rapporti tra il mondo dell’uomo e il mondo di Dio: non c’è più separazione ma contiguità, anzi profonda unione Dio è raggiungibile, si manifesta attraverso l’umanità di Cristo. C’è, a questo proposito, un passo estremamente illuminante del IV Vangelo: l’apostolo Filippo chiede a Gesù: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”. La risposta di Gesù non lascia dubbi: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”. (Gv 13,7-9). E in altra occasione aveva precisato: “Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19).
Dopo l’Incarnazione, Dio ha un volto, una voce, dei gesti, dei sentimenti… visibili. Dio è visibile. Adesso sappiamo che cosa prova Dio di fronte al dolore di una vedova che ha perduto l’unico figlio (Lc 7,11), di un padre angosciato per gli attacchi “epilettici” che distruggono suo figlio (Mc 9,14-27) [ma non è solo epilettico, è anche indemoniato!], per il cieco che chiede la luce, per il lebbroso che invoca di essere liberato dalla condanna della sua terribile malattia, ma anche del pubblicano che, sulla spianata del tempio, si batte il petto chiedendo pietà a Dio (Lc 18,9-10), di una donna sorpresa di adulterio (Gv 8,1-11).
Anche il cuore di Dio non è più un pianeta lontanissimo ed estraneo al nostro. Il mondo affettivo di Cristo è un cielo nel quale si rispecchiano tutti i nostri sentimenti, tenerezza, gioia, meraviglia, ansia, indignazione, tristezza, paura… e perfino ira.
L’Incarnazione ci assicura così l’accoglienza, da parte di Dio, di tutto ciò che è umano. Il libro della “Genesi” parlava di un Dio che “scendeva a passeggiare nel giardino alla brezza del giorno” (Gen 3,8), ora, per l’Incarnazione è con noi per sempre. Dio fu confinato da noi nei cieli altissimi perché di là governasse il mondo.
È Gesù che si è permesso di chiamare Dio “papà” (“abba” in ebraico) e lo ha insegnato anche a noi. Ma quale tipo di “padre”? è il Dio di Gesù? Ripercorrendo le pagine dei Vangeli, attraverso le parole e i gesti di Gesù, potremmo concludere che è un “padre” che:
- SI INGINOCCHIA DAVANTI ALL’UOMO (Gv 13, 1-11);
- AMA GLI ULTIMI: i lebbrosi (Mc 1,40-42) …, le donne (Lc 8,1-3), i bambini (Lc 9,46-48), i pagani, i peccatori (…);
- MANGIA CON I PECCATORI. Su questo punto si scontra frontalmente con il modo di pensare della sua religione, che chiedeva un rifiuto totale nei confronti di chi aveva sbagliato. (…);
- PREDILIGE GLI ESCLUSI: ciechi, zoppi, storpi… cui era vietata la partecipazione all’assemblea del popolo di Israele (…):
- AMA GRATUITAMENTE: non in base ai meriti, ma in base al suo cuore (…);
- STA SEMPRE DALLA PARTE DI CHI HA SBAGLIATO; la sua ira distrugge il peccato e non il peccatore...
Ci dispiace dirlo, ma questo brano di prosa è letteralmente zeppo di enormità teologiche e dottrinali.
Il dio in cui, bontà nostra, possiamo ancora credere
diFrancesco Lamendola
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/la-contro-chiesa/3696-il-dio-in-cui-credere
"La Chiesa cattolica rinnega i suoi santi. La pittura deve salvarli"
Il campione italiano dell'arte sacra denuncia "l'apostasia delle gerarchie ecclesiastiche"
Il campione italiano dell'arte sacra denuncia "l'apostasia delle gerarchie ecclesiastiche"
Mi innervosisco molto, e capita spesso, quando un cattolico conservatore (anche sotto Papa Francesco ne sono rimasti parecchi) manifesta la sua avversione all'arte contemporanea, giudicandola in blocco brutta e nichilista, se non addirittura satanica. Mi innervosisco perché vuol dire che un individuo teoricamente mio simile o sodale l'ha data vinta a Duchamp e Cattelan, è cascato in tutte le provocazioni, considera arte solo ciò che viene spacciato dai media sotto forma di scandalo.
Prima di parlare bisognerebbe studiare o almeno informarsi. Si scoprirebbe che in Italia non si dipingevano così tanti bei quadri da almeno mezzo secolo, che nel mercato internazionale dell'arte si vende soprattutto pittura, e soprattutto pittura figurativa, altro che installazioni, e che Giovanni Gasparro vive e lotta insieme a noi. Il campione nazionale dell'arte sacra è ancora giovane, essendo nato nel 1983, ma ha già un corpus di lavori monumentale su cui svettano le 18 pale d'altare (più altrettante cimase e due teleri) della chiesa aquilana di San Giuseppe Artigiano: il più grande ciclo pittorico religioso realizzato in Italia negli ultimi anni.
La tua arte guarda verso l'alto. Cosa pensi di quella che guarda verso il basso, l'arte stercoraria della linea Duchamp-Manzoni(Piero)-Cattelan?
«Barbey d'Aurevilly recensendo A rebours, il romanzo decadente di Huysmans, scrisse: Dopo un libro tale non resta altro all'autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce. Huysmans scelse la seconda, convertendosi al cattolicesimo. Dopo aver sperimentato le peggiori nefandezze, alla critica, ai collezionisti e agli amanti dell'arte contemporanea non resta, esclusa la canna della pistola, che il ritorno alle belle arti e alla croce».
Può esistere un'arte contemporanea cattolica?
«Può esistere, malgrado l'apostasia delle gerarchie ecclesiastiche che difficilmente si fanno carico di commissioni di un qualche pregio. Ma gli artisti possono lavorare a prescindere dai committenti e riscoprire il carattere figurativo dell'arte cattolica perché questo assicura la trasmissione di un messaggio oggettivo, al contrario dell'astrazione che determina una fruizione soggettivistica, potenzialmente discordante dal dogma».
Sgarbi dice che il tuo ciclo per San Giuseppe Artigiano è riferito alla visione liturgica ed estetica dell'allora regnante Papa Benedetto XVI. Adesso ti riferisci alla visione liturgica ed estetica di Papa Francesco?
«Il mio pensiero estetico e teologico non è subordinato all'avvicendarsi dei singoli pontefici. Sgarbi ha intuito bene la mia sensibilità, anche se non è Benedetto XVI il riferimento immediato del mio pensiero estetico in relazione all'arte sacra. Mi sento figlio della trattatistica post tridentina...».
Addirittura...
«Sì, le mie fonti privilegiate restano quelle della stagione controriformista-barocca, italiana, fiamminga e spagnola. Il felicemente regnante pontefice Francesco non ha mai espresso un pensiero inerente le questioni artistiche, pur avendo l'arte sacra un fortissimo potenziale catechetico. Nei Giardini Vaticani ha fatto installare un'immagine della Vergine Maria e un Crocifisso realizzati da un artista argentino assemblando ferraglie raccattate nelle discariche».
Come ti spieghi che i vescovi inzeppino le chiese di opere iconoclaste e dunque, se non proprio anticattoliche, certamente acattoliche? Ti segnalo quanto recentemente fatto da Tremlett nella chiesetta di Coazzolo e da Favelli in Santa Maria della Spina a Pisa.
«Gli insegnamenti magisteriali di San Pio X, Pio XI e Pio XII in materia d'arte e musica sacra sono stati letteralmente sovvertiti, fin dai tempi delle commissioni scellerate di Giovanni XXIII e Paolo VI: basti pensare alla promozione della scultura dell'ateo-comunista Manzù, chiamato da questi due papi a ritrarli, allestire cappelle private, realizzare portali della basilica di San Pietro con simbologie massoniche. Se dai vertici giungono questi esempi, l'episcopato non può che adeguarsi».
Secondo Gerhard Richter, grande artista non esente da colpe (le vetrate del Duomo di Colonia, adatte a una moschea), «quello che non è più possibile è tutto ciò che è stato detto». Invece tu ritieni che il già-detto si possa ancora dire?
«Assolutamente sì. La grandezza del cattolicesimo è stata quella di non aver imposto argini stilistici severi come quelli della tradizione bizantina. Il cattolicesimo ha permesso l'evoluzione dello stile, ha reso possibile e legittima la coesistenza di Simone Martini, Michelangelo, Bernini e Serpotta».
Questo un tempo? Ma oggi?
«Anche oggi si possono annunciare le verità cristiane in forme diverse. Ma in Italia da un lato si commissionano mosaici fumettistici e neobizantini come quelli del gesuita Marko Ivan Rupnik, dall'altro pannelli aniconici o monocromatici (quindi concettualmente di matrice protestante o giudaico-islamica) come quelli che commissiona, alle grandi firme dell'arte povera, un altro gesuita, Andrea Dall'Asta, per la chiesa di san Fedele a Milano o per il duomo di Reggio Emilia».
Cosa rispondi a chi critica il tuo stilema delle mani plurime?
«Le mani ripetute più volte rimandano a iconografie sacre del Quattrocento: le tante Arma Christi di area fiorentina o fiamminga, la Pietà di Lorenzo Monaco e quella del Maestro della Madonna Strauss, il Cristo in Pietà nel trittico di Domenico di Michelino, il Cristo deriso fra san Domenico e la Santa Vergine in meditazione del Beato Angelico... Il riferimento al futurismo e al cubismo, che tanti hanno evidenziato, non corrisponde a un mio proposito: nella pittura di Balla, Severini e Boccioni all'esaltazione meccanica del movimento è sottesa l'ideologia modernista di rinnegamento della tradizione».
Il pittore Daniele Galliano mi ha detto, con formula quasi ecclesiastica: «Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere». Qual è la tua opera che ritieni essere destinata a durare di più?
«Un dipinto ultimato in questi mesi, il San Pio V e san Carlo Borromeo difendono il Cattolicesimo dall'Islam e dall'eresia protestante, tela monumentale destinata non a una chiesa ma a un collezionista privato. In tempi in cui la Chiesa cattolica rinnega l'operato dei santi, anche i pittori devono fare la loro parte».
Tu abiti nel profondo Sud, in un piccolo paese mal collegato, e per giunta non hai la patente... De Nittis non sarebbe diventato De Nittis se fosse rimasto a Barletta: oggi invece l'handicap geografico è superabile?
«Sono tornato per consumare l'atto creativo in una dimensione che conciliasse più facilmente meditazione, studio, ricerca. Adelfia è ancora legata alla vita contadina. I tempi quotidiani e stagionali sono scanditi da quelli delle campagne. Ho vissuto a Roma negli anni dell'accademia e, malgrado gli stimoli potentissimi dati dal confronto con l'arte antica, mi risultava più complicato ricreare una dimensione claustrale».
All'accademia eri osteggiato dai professori quattro volte, in quanto cattolico, in quanto pittore, in quanto figurativo, in quanto virtuoso... Ricordo bene?
«Ricordi benissimo. In accademia ho sperimentato le avvisaglie di quelli che sarebbero stati i vizi ideologici della critica e del mercato, una volta catapultato nell'arena dell'arte contemporanea. I docenti, seppur stimando le mie capacità tecniche tanto da non defraudarmi mai della lode accademica, tradivano il loro disprezzo per le scelte formali e contenutistiche delle mie opere. Pittore nell'epoca del concettuale e delle installazioni, per giunta pittore figurativo, inoltre cattolico: possedevo tutte le credenziali per meritarmi sguardi commiserevoli ed epiteti derisori».
Abbiamo parlato di lontananza, concluderei parlando di lentezza, visto che consegni i quadri a nove mesi dalla commissione.
«Dio ha impiegato sette giorni per la creazione dell'universo e dell'uomo. Io, che sono infinitamente meno abile, anche solo per realizzare un quadro ho bisogno di molto più tempo. E mi piace considerare il mio prodigarmi sull'opera come una gestazione».
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