Martin Lutero
di Francesco Lamendola
Una tendenza strisciante, e a volte neanche tanto strisciante, di tipo protestante, pervade la Chiesa cattolica contemporanea: dapprima con il fenomeno del Modernismo, indi con certe tendenze e indirizzi manifestatisi a partire dagli anni ’60 del Novecento e fatti passare come la “vera” attuazione dei decreti conciliari del Vaticano II, nonché di un più generico “spirito conciliare” che vedrebbe nel Vaticano II non solo quel che esso effettivamente è stato, ma anche quel che avrebbe potuto essere, a detta di certi membri del clero, di certi teologi e di certi laici, se la “spinta innovativa” e il “dialogo con il mondo moderno” non fossero stati ostacolati, rallentati e frenati da deplorevoli atteggiamenti conservatori di una parte dei padri conciliari.
Tale tendenza protestante si manifesta in accenni, spunti, proposte che, pur tenendosi, almeno formalmente, all’interno del solco della piena ortodossia, nondimeno vanno, nei fatti, in direzione di un certo qual “superamento” di detta ortodossia: come se il patrimonio spirituale di cui la Chiesa cattolica è depositaria e distributrice, non avesse potuto manifestarsi pienamente, a causa di una sua interpretazione ristretta, troppo legate a circostanze del passato, insomma gravata dal peso eccessivo della tradizione (con la “m” minuscola, e dunque intesa in senso puramente umano). Pertanto, per “liberare” le potenzialità, ancora parzialmente inespresse, del messaggio evangelico, e per instaurare un autentico dialogo con il mondo moderno, sarebbe necessario ritornare alle Scritture, al Cristo “originario”, anteriore alle sovrapposizioni che si sono succedute intorno a quanto da lui detto e operato.
La protestantizzazione, dunque, consiste in questo: nella svalutazione della Tradizione cattolica, o, quanto meno, nella negazione della sua centralità e della sua essenzialità nell’ambito della fede, e nel trasferimento alla sola Scrittura dell’integrità del messaggio evangelico; più ancora, nella pretesa di criticare, limitare o espungere dalla teoria e dalla pratica cristiana tutto ciò che non trova nella Scrittura un chiaro, preciso e incontrovertibile fondamento. A questo aspetto centrale si affiancano alcuni corollari: l’applicazione rigorosa e tendenzialmente esclusiva del metodo storico-critico alle Scritture stesse, per cui non basta fare appello a quanto nei Vangeli è scritto, ma bisogna altresì “sfrondarlo” d ciò che apparterrebbe alla leggenda, al mito, a delle incrostazione successive; la svalutazione, il fastidio e quasi il disprezzo in tutti quegli atti liturgici e di quelle pratiche devozionali che provengono dalla Tradizione, ma non troverebbero esplicita e univoca conferma nelle Scritture, peraltro così espurgate (culto della Madonna e dei santi, pellegrinaggi, esorcismi, indulgenze, reliquie, devozioni particolari come quella eucaristica); l’appello alla ragione come criterio di verità e la diffidenza verso il le forme popolari del culto, viste come “superstiziose”, o come potenzialmente tali; una certa contestazione, di solito abilmente dissimulata, del primato di Pietro e quindi, in senso lato, una tendenza “democratica” da opporsi all’impostazione gerarchica della Chiesa; il continuo richiamo alla libertà di coscienza e il senso dell’impegno nella realtà secolare, a livello sociale, sindacale, politico, negando, implicitamente o esplicitamente, che la Lieta Novella riguardi la dimensione spirituale e universale dell’uomo e pretendendo, al contrario, di calarla, sempre e comunque, nel tessuto della vita sociale, con la scelta preferenziale dei poveri, intesi in senso puramente economico e, perciò, larvatamente marxista.
Ora, la dottrina cattolica, sia in sede ufficiale, nei concili e nei documenti papali, sia in sede catechetica, sostiene in maniera inequivocabile che le due fonti del magistero sono la Scrittura e la Tradizione, con pari dignità ed importanza,e non la sola Scrittura, o prevalentemente la Scrittura. La Tradizione, infatti (con la “t” maiuscola) altro non è che la trasmissione orale del messaggio evangelico, da parte degli apostoli e dei loro successori, ispirata dallo Spirito Santo: e non è privo di importanza il fatto che la Tradizione storicamente precede, e non segue, la stesura del Nuovo Testamento (e delle stesse lettere paoline): quando quest’ultimo venne messo per iscritto, infatti, una Tradizione già esisteva, ed era, appunto, quella costituita dalla trasmissione orale delle parole e degli atti di Cristo da parte dei discepoli.
Ebbene, la tendenza a mettere fra parentesi l’autorità della Tradizione, per fare riferimento esclusivo, o assolutamente prioritario, alla sola Scrittura, non è affatto recente, come si potrebbe pensar: risale addirittura agli anni successivi alla nascita del protestantesimo, agli anni del Concilio di Trento. Anche allora questa tendenza esisteva ed era abbastanza forte da presentarsi, nelle persone di un gruppo di vescovi “progressisti”, alcuni dei quali anche in veste di teologi, con l’obiettivo dichiarato di provocare una rottura con la Tradizione, di limitare al massimo, o di abolire, le forme del culto e della liturgia che ad essa fanno riferimento, e di sfidare, nel modo più palese, le posizioni contrarie, ritenute “conservatrici”, spesso unendo a tale strategia un richiamo rigoroso alla riforma disciplinare, specialmente all’obbligo di residenza dei vescovi nelle rispettive diocesi. E questo perché, venendo da soggetti particolarmente sensibili al tema della restaurazione morale nella vita del clero, soggetti notoriamente irreprensibili e impegnati nella vita ecclesiale delle loro comunità, apparivano – proprio come sarebbe accaduto, ai primi del Novecento, con i preti simpatizzanti del modernismo e, contemporaneamente, del movimento democratico-cristiano di Romolo Murri – anche la loro offensiva teologica e dogmatica poteva essere presentata in maniera più accettabile da parti di tutti coloro i quali erano sinceramente desiderosi di partecipare a un rinnovamento della Chiesa cattolica in senso spirituale.
Una delle figure che più si misero in vista in questo gruppo di “innovatori”, o in questa tendenza (ma secondo noi si trattava realmente di un gruppo, relativamente bene organizzato), fu quella del vescovo di Chioggia, Jacopo Nacchianti (1502-1569), che fu presente al Concilio di Trento fin dall’inizio e che si segnalò in diverse occasioni per la sua aggressiva e irruente maniera di proporre le riforme di cui, a suo parere, la Chiesa abbisognava, mostrando il massimo disprezzo per le opinioni contrarie e senza curarsi delle critiche e delle perplessità che il suo modo di agore provocava. Una delle sue prime prese di posizione ufficiali fu la proposta che agli abati e ai generali degli ordini religiosi venisse negato il dirotto di voto nel corso dei lavori conciliari: evidentemente, secondo lui costoro erano troppo legati alla tradizione e il loro parere non meritava di esser preso in considerazione: il diritto di voto deliberativo doveva spettare esclusivamente ai vescovi, cioè ai suoi pari (fra parentesi, tale proposta venne solennemente bocciata, ma senza che ciò insegnasse al Nacchianti un minimo di umiltà nel prosieguo dei lavori).
Addirittura, prima ancora che la pesante macchina del Concilio si mettesse in moto, il Nacchianti già si abbandonava a pubbliche dichiarazioni, presenti decine di testimoni, laici ed ecclesiastici, nelle quali sosteneva doversi fare riferimento, per il magistero della Chiesa, alle sole Scritture e non anche alla Tradizione: una dichiarazione di guerra vera e propria ai “tradizionalisti” e, in genere, a quelli che già allora – come poi, al Concilio Vaticano II, in circostanze non troppo dissimili – sarebbero apparsi, o sarebbero stati fatti apparire, come i “conservatori”, nemici, ovviamente, delle “novità” e del “dialogo” (ma con chi, visto che i protestanti si erano auto-esclusi?), aggrappati a una visione antiquata e superata delle cose. E si noti che il vescovo di Chioggia era stato chiamato al Concilio non solo nella sua qualità di pastore, ma anche come teologo di una certa fama, oltre che come sacerdote di specchiata virtù, forte, cioè, di un prestigio personale non indifferente, come persona integra e totalmente dedita al proprio ufficio.
Anche nelle sessioni successive il Nacchianti, benché gli fosse stato suggerito di non farsi più vedere, volle essere presente e dire la sua a voce alta; né si trattenne dal lamentare, in tutte le sedi possibili, la mancanza di libertà cui si volevano costringere, a suo dire, i padri conciliari, cosa che esacerbò il contrasto fra le sue posizioni e quelle assunte dalla stragrande maggioranza dei partecipanti (ma si sa che i profeti del nuovi si sentono sempre dalla parte del giusto e del vero, e, anche se si trovano in esigua minoranza, considerano ciò come un incidente transitorio o come la prova del fatto di aver ragione). Come è noto, il Concilio di Trento si svolse in un arco di ben diciotto anni, dal 1545 al 1563: il Nacchianti partecipò a tutte le sue fasi, dall’apertura fino alla chiusura, e sempre come personaggio molto in vista, che non temeva la pubblicità e, anzi, faceva di tutto per mettersi in forte evidenza. Le cose arrivarono a segno che il segretario e inquisitore del Concilio, Angelo Massarelli, gesuita, fu inviato nella sua diocesi a svolgere una indagine sul suo conto, essendo stata aperta una inchiesta sulla sua ortodossia; indagine che non fu favorevole al Nacchianti e che tuttavia, significativamente, si concluse senza che venisse preso alcun provvedimento contro di lui, anche perché egli ebbe sempre la destrezza di sottomettersi alle decisioni che venivano prese dai padri conciliari, pur dopo aver sostenuto delle posizioni nettamente contrarie e in aperto odore di luteranesimo. Al contrario, l’inquisitore Massarelli venne a sua volta accusato da alcune parti, anche se non ufficialmente, di essere prevenuto contro il Nacchianti e di aver proceduto in modo scorretto nel corso della sua inchiesta.
È evidente, pertanto, che il vescovo di Chioggia godeva di altissime protezioni. Come spiegare altrimenti il fatto che venne difeso a spada tratta, là dove si decidevano le sue sorti, e che non si trovò mai seriamente esposto al pericolo di subire una condanna per eresia? Chi o che cosa gli dava l’ardimento per sfidare apertamente la maggioranza dei padri conciliari e per non curarsi del procedimento aperto a suo carico, che s’intrecciava pericolosamente con il libro di un frate benedettino, Benedetto da Mantova, «Il beneficio di Cristo»? Il frate venne incarcerato e il libro messo all’Indice, eppure in quell’opera si sosteneva una teoria della Chiesa come corpo mistico di Cristo, non molto diversa da ciò che lo stesso Nacchianti sosteneva in proposito. Il vescovo di Capodistria, Pier Paolo Vergerio (che era stato uno fra i più accesi animatori dell’ideazione e della progettazione del Concilio), poi processato dall’Inquisizione e passato al protestantesimo dopo una clamorosa fuga dall’Italia, lasciò intendere che, a suo avviso, il Nacchianti non doveva essere estraneo alla stesura del libro incriminato.
Scrive Pietro Mozzato nella sua biografia, decisamente favorevole al vescovo di Chioggia, «Jacopo Nacchianti, un vescovo riformatore» (Chiogggia, Edizioni Nuova Scintilla, 1993, pp. 50-53):
«Nell’agosto [1545] la buona fama del Nacchianti fu messa in crisi da un fatto sconcertante. Il giorno 8 di quel mese, don Diego Hurtado de Mendoza, oratore di Carlo V al Concilio, offrì un pranzo a tutti i padri conciliari, per festeggiarla nascita del figlio del principe di Spagna. Era presente anche il Nacchianti, il quale, durante il pranzo, usò un’espressione pericolosa contro la tradizione, dicendo ch’essa non è necessaria, dal momento che tutta la rivelazione è contenuta nella Scrittura. Le parole assunsero una gravità particolare, per il clima infuocato nel quale risuonavano, e gettarono un’ombra sulla sua persona. La defezione di molti pastori ella Chiesa non era pioù una novità, e le parole del Nacchianti lasciarono il segno. […]
A pochi giorni dall’inizio [del Concilio], egli si alzò per contestare il diritto di voto degli abati e dei generali degli ordini religiosi; per lui il voto deliberativo era da riservare esclusivamente ai vescovi. La maggioranza dei padri fu favorevole al voto, e nella seduta conclusiva sull’argomento, egli non risparmiò una forte invettiva contro i privilegi dei suddetti superiori.[…]
Il Nacchianti, il 26 febbraio [1546]sostenne che si sarebbe dovuto prescindere affatto dalla tradizione, poiché - diceva, appellandosi a Sant’Agostino – “nemo ignorat contineri in sacris Libris omnia ea quae ad salutem pertinent”. Tutti gli s’opposero e la sua opinione fu confutata dal cardinale Del Monte, il quale respinse pure il dubbio, avanzato dal Nacchianti, sul decreto del concilio fiorentino, concernente l’elenco dei libri sacri: il vescovo in precedenza, nel suo intervento, aveva tra l’altro sostenuto che l’elenco era stato redatto dai giacobiti e inserito poi nel Concilio. Il vescovo alla fine s’arrese e manifestò la sua sottomissione con un’espressione nuova e tutta personale: “Oboediam”,. Accettava la Tradizione accanto alla Scrittura, ma non intendeva che fosse dato lo stesso valore alle due fonti della rivelazione; per lui la Scrittura era impareggiabile.
Il Concilio, fedele allo scopo che s’era proposto, di proclamare cioè la fede della Chiesa evitando gli argomenti di contestazione tra i cattolici, per la formulazione del canone decise di parlare solo di tradizioni scritte e di tradizioni non scritte. Il 5 aprile si decise d’affermare semplicemente l’esistenza di tradizioni apostoliche conglobandole in un medesimo decreto insieme al canone dei libri sacri: questi e quelle bisognava accogliere “pari pietatis affectu ac reverentia”. Il Nacchianti s’oppose con forza , dichiarando empio il fatto che le Scritture e le tradizioni fossero poste allo stesso livello di venerazione. Commenta lo Jedin: “Sembra quasi di sentir parlare Lutero nell’insistenza con cui questo vescovo italiano esorta a non mettere nel medesimo piano della Scrittura le tradizioni tanto gravose per il popolo italiano”. Nel grande tumulto levatosi contro di lui in aula conciliare, si udì ancora la voce del cardinale Del Monte che conquistò il Nacchianti ed ebbe da lui la risposta insolita ma riverente: “Oboediam”.»
Eppure non si sa quanto il Nacchianti fosse in buona fede, visto che poi, nella sua diocesi di Chioggia, lanciò una campagna contro certe forme devozionali popolari – reliquie, immagini sacre – che apparve ai suoi fedeli così aspra, da indurre uno di essi a rivolgersi al Sant’Uffizio (si trattava di un certo Ercolano da Chioggia): processo da cui il vescovo uscì assolto, così come era uscito assolto dal procedimento aperto contro di lui al tempo dell’inquisitore Massarelli.
La protestantizzazione del cattolicesimo inizia già nel Concilio di Trento: il caso Nacchianti
di Francesco Lamendola Articolo d'Archivio Già pubblicato il 28 Aprile 2015
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