ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 10 marzo 2018

P.A.M:pontifica accademia per la morte



MONS. PAGLIA, ALFIE EVANS E LA PREDILEZIONE DEL PAPA PER CHI HA UN “PASSATO”. COMPETENZA? BAH…

La sciagurata intervista dell’arcivescovo Vincenzo Paglia a Tempi in re Alfie Evans mi ha colpito. Non tanto per le tesi espresse – immaginabili peraltro da qualcuno che elogiava lo “spirito di Pannella”; non tanto perché il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita dovrebbe a priori essere diffidente, se le parole del Papa vengono usate per decretare una morte; non tanto perché, forse sbagliando, e se è così ne chiediamo venia, abbiamo annusato una vena di superficialità nell’intervista, quando altre persone come vedete su questo sito e su questo e su questo si sono espresse con ben altra prudenza e profondità – in fondo c’è sempre d mezzo una vita umana, no? -; non tanto perché un uomo forse non versatissimo in bioetica ma sicuramente molto navigato e astuto come Vincenzo Paglia avrebbe dovuto sapere (lo sapeva?) che la Corte Suprema sta decidendo sull’appello; e probabilmente c’è chi potrà, vorrà utilizzare le sue parole per decidere che i genitori non hanno diritto di cercare, magari inutilmente, qualcuno o qualcosa che possa dare una speranza a loro figlio.

No, le parole di Paglia mi hanno colpito perché sono venute quasi in contemporanea con le dichiarazioni di un cardinale cileno, Errazuriz Ossa sul recente viaggio in Cile, e sul caso Barros. Javier Errazuriz ha scritto una lettera a tutti i vescovi latino-americani, per spiegare che il viaggio di Francesco in Cile non era stato un flop, ma “altamente positivo”. Non ha assunto nessuna responsabilità per lo scandalo del prete abusatore Karadima, e del vescovo Barros, nominato vescovo di Osorno dal Pontefice a dispetto delle proteste e delle accuse degli abusati. E questo nonostante che l’ex arcivescovo di Santiago avesse trascurato il caso, e avesse affermato di non credere alle vittime. Errazuriz nella sua lettera ha accusato le vittime di cercare di approfittare della protesta, ha definito calunnie le accuse, e fatte con lo scopo di dare forza a una causa civile contro la diocesi di Santiago. “Errazuriz sta cercando di confondere le cose e di creare una distrazione per evitare le sue responsabilità nel cover-up e nella gestione scadente della Chiesa cilena che ha condotto al disastro in cui siamo. Il problema non è il denaro”, ha detto all’AP Juan Carlos Cruz, una delle vittime.
Che cosa c’entra con Paglia, chiederete voi? C’entra. Perché Errazuriz è uno dei grandi amici e consiglieri del Pontefice. Così come lo sono il cardinale Mahony, ex arcivescovo di Los Angeles, che ha dovuto abbandonare la carica a causa della sua pessima gestione dei casi di abusi; come lo è il cardinale di Malines-Bruxelles Danneels, travolto da un caso di copertura di un vescovo abusatore; come lo era il cardinale Murphy O’Connor, nei cui confronti c’era un’indagine, aperta su denuncia di laici, alla Congregazione per la Dottrina della Fede, per una cattiva gestione di casi di abusi; e del cui esito, e di come è stata chiusa, sarebbe interessante che parlasse l’ex prefetto della Congregazione, il cardinale Gerhard Mueller. Ora la cosa singolare è che tutte queste persone sono consiglieri e elettori – al tempo del Conclave – e vicinissimi al Pontefice. Che sembra avere una predilezione per le persone con un passato. E quando si parla di passato, si intende un passato non esattamente glorioso. Come mons. Ricca, nominato prelato dello IOR; o come mons. Paglia, arcivescovo di Terni; dove sarà ricordato, oltre che per l’affresco erotico, e un tantinello omo in cattedrale, con tanto di zucchetto in testa, per la situazione disastrosa lasciata lì, e da cui un rapido opportuno richiamo all’interno dei confini vaticani, a San Calisto l’ha liberato. E la lista potrebbe continuare. E non è certamente corta. Il Pontefice si vanta di avere una memoria ottima, e di averla sempre avuta. Di sicuro nella gestione del governo le persone con un passato presentano vantaggi, al minimo di gratitudine, verso un sovrano così magnanimo. Ma non sempre danno garanzie di essere adeguate all’incarico a cui sono state chiamate. Fedeltà cieca e competenza non sono sinonimi. Anzi.

MARCO TOSATTI


Un cardinale per la vita di Alfie. E il papa? Non pervenuto

                                                Alfie
Dopo il caso del piccolo Charlie Gard, ecco ora quello di Alfie Evans, di 22 mesi, colpito da una rarissima malattia inguaribile, che una sentenza dell'alta corte di giustizia di Londra del 20 febbraio ha autorizzato a far morire anticipatamente, sospendendo ventilazione e nutrizione.
Come per Charlie, anche per Alfie i suoi genitori, Tom Evans e Kate James, cattolici, resistono con tutte le forze a che questa sentenza sia eseguita. E a loro sostegno si è levata una marea di preghiere e di appelli, molti dei quali indirizzati anche personalmente a papa Francesco.
C'è infatti un doppio elemento dirompente, in questa vicenda.
Il primo è che il giudice londinese Anthony Hayden ha incluso nella sentenza, a sua giustificazione, un passo del messaggio sul fine vita che papa Francesco ha inviato il 7 novembre 2017 a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della pontificia accademia per la vita.
Il secondo è che né da Francesco, né da qualsiasi altra autorità vaticana è uscita la minima parola di dissociazione dall'utilizzo strumentale di quel messaggio del papa a giustificazione della sentenza che condanna a morte il piccolo Alfie.
Non solo. Intervistato e messo alle strette il 9 marzo da "Tempi", monsignor Paglia ha dato ragione al giudice londinese in tutto, anche nell'uso che ha fatto delle parole di papa Francesco:
> Alfie Evans. Per monsignor Paglia si tratta di "sospendere una situazione di accanimento terapeutico"
E come non bastasse, nell'intervista Paglia ha assolto anche la legge sul fine vita recentemente approvata in Italia, appellandosi – contro i giudizi più severi emessi dal presidente della conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti – a due "auctoritates" a lui care che invece l'hanno giudicata positivamente: il consiglio direttivo dell’Unione giuristi cattolici italiani, con presidente il professor Francesco D'Agostino, e il gruppo di studio sulla bioetica della rivista dei gesuiti di Milano "Aggiornamenti Sociali", animato da padre Carlo Casalone, già provinciale d'Italia della Compagnia di Gesù, e da Maurizio Chiodi, il teologo moralista divenuto noto per la sua rilettura di "Humanae vitae" favorevole all'uso dei contraccettivi.

Sul fronte opposto, invece, una sola voce – e marginale – si è levata finora ai livelli alti della Chiesa di Roma contro la sentenza di Londra e il suo uso strumentale delle parole del papa.
È quella del cardinale novantenne Elio Sgreccia, bioeticista di fama internazionale, già presidente dal 2005 al 2008 della pontificia accademia per la vita e oggi suo membro solo "ad honorem", non certo allineato al nuovo corso dell'accademia stessa, da quando papa Francesco l'ha messa nelle mani di monsignor Paglia e ne ha rifatto l'organico.
L'8 marzo il cardinale Sgreccia ha pubblicato sul suo blog "Il dono della vita" un commento della vicenda del piccolo Alfie scritto da don Roberto Colombo, docente di biochimica alla facoltà romana di medicina e chirurgia dell'Università Cattolica:
> Il bambino Alfie Evans e le autentiche cure palliative
Il commento di don Colombo è antitetico a quello di Paglia e denuncia la scorrettezza dell'utilizzo delle parole di papa Francesco fatto dal giudice di Londra a sostegno della sua sentenza.
E il cardinale non solo lo ospita, ma scrive in testa al commento stesso: "Pubblico e sottoscrivo". Con tanto di firma: "+ Elio Card. Sgreccia".
Ecco riprodotto qui di seguito l'ultimo dei quattro punti del commento.
*
[…] 4. Sorprende il fatto che nel verdetto della corte di giustizia londinese venga citato per esteso, a sostegno della motivazione della sentenza, un ampio brano del messaggio di papa Francesco del 7 novembre scorso, ad introduzione del quale il giudice afferma – parafrasando alcune espressioni del Santo Padre, di cui elogia il "supplemento di saggezza" – che "non adottare o sospendere misure sproporzionate può evitare un trattamento eccessivamente scrupoloso [over-zealous]".
In cosa esattamente consisterebbe, nel caso di Alfie, il "trattamento eccessivamente scrupoloso" non viene precisato dal magistrato. A ben vedere, però, in nessuna delle parole del papa da lui citate (e in nessun passo del messaggio o di altri testi di papa Francesco e del magistero cattolico precedente) tale riconosciuto "supplemento di saggezza" considera come uno scrupolo deprecabile il continuare a fornire al malato inguaribile il supporto fisiologico che gli consente di vivere.
Al contrario, un simile sostegno vitale non terapeutico – "nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria" (Congregazione per la dottrina della fede, "Risposta a quesiti della conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali", 2007) – non può mai venire lecitamente interrotto. Farlo significherebbe anticipare intenzionalmente con un atto omissivo la morte del paziente, pur inevitabile nel tempo, e questo non rientra negli scopi delle cure palliative né in altro compito della medicina. Peraltro, sono gli stessi medici che hanno esaminato Alfie e i referti delle indagini diagnostiche strumentali eseguite su di lui a constatare uno "stato semi-vegetativo", condizione clinica che lo avvicina – per alcuni aspetti e pur con le differenze del caso pediatrico – a quella oggetto del discernimento operato dalla congregazione per la dottrina della fede nella risposta ai vescovi degli Stati Uniti, che riguarda i pazienti in stato vegetativo.
Se è vero, come ricorda una parte del messaggio del papa non citata dal giudice britannico, che dobbiamo "sempre prenderci cura" del malato "senza accanirci inutilmente contro la sua morte", nello stesso paragrafo il Santo Padre ci ricorda il dovere morale di curarlo "senza abbreviare noi stessi la sua vita". Perché "l’imperativo categorico" – sono sempre le sue parole, anch’esse non riportate nella sentenza – "è quello di non abbandonare mai il malato", di non scartare alcuna vita umana condannandola ad una morte anticipata perché giudicata (con che diritto?) non degna di essere vissuta.
Come ha ricordato nel luglio dello scorso anno, su questo stesso sito, il cardinale Elio Sgreccia a proposito di quella "sorta di 'accanimento tanatologico' nei confronti del piccolo Charlie" che stava volgendo al suo drammatico epilogo, "inquieta la leggerezza con cui si accetta il paradigma della qualità della vita, ovvero quel modello culturale che inclina a riconoscere la non dignità di alcune esistenze umane, completamente identificate e confuse con la patologia di cui sono portatrici o con le sofferenze che ad essa si accompagnano.
Giammai un malato può essere ridotto alla sua patologia, giacché ogni essere umano non cessa, un solo istante e ad onta della sua condizione di malattia e/o di sofferenza, di essere un universo incommensurabile di senso che merita in ogni istante l’attenzione china di chi vuole incondizionatamente il suo bene e non si rassegna a considerare la sua come un’esistenza di serie B per il solo fatto di versare nel bisogno, nella necessità, nella sofferenza. Un’esistenza alla quale si farebbe un favore cancellandola definitivamente".
Se una sentenza intende giustificare un ulteriore passo verso la “cultura dello scarto e della morte” non lo faccia usando strumentalmente alcune parole del papa, il cui significato, nel testo stesso e nel contesto del magistero della Chiesa, si muove nella direzione opposta, quella della “cultura dell’accoglienza e della vita”, di ogni vita umana che ha origine da Dio e da Lui solo è fatta giungere al termine dell’esistenza terrena.
*
Per maggiori dettagli sulla questione, con tutti i suoi riflessi in Vaticano e in Italia, è illuminante questo articolo di Assuntina Morresi su "Tempi" del 9 marzo:
> Cari cattolici, dobbiamo rassegnarci ad avere anche noi i nostri Alfie?
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/03/10/un-cardinale-per-la-vita-di-alfie-e-il-papa-non-pervenuto/ 

Via libera di monsignor Paglia all'uccisione di Alfie

In una surreale intervista, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita legittima le decisioni di medici e giudici inglesi che hanno deciso di staccare il respiratore che tiene in vita il piccolo Alfie Evans. E incredibilmente concorda nella strumentalizzazione delle parole del Papa che il giudice ha usato per giustificare la sua decisione ai due genitori cattolici.


Alfie Evans, di 21 mesi, è affetto da una grave patologia neurodegenerativa di probabile origine genetica (clicca qui). Ad Alfie manca poco da vivere, non tanto perché la sua patologia ormai abbia svuotato quasi completamente la clessidra del tempo che gli rimane da vivere, ma perché, come nel caso di Charlie Gard, l’Alta Corte di Londra ha deciso che il piccolo vada ucciso staccandogli il respiratore che lo tiene in vita. Il giudice Hayden ha così voluto chiudere la vicenda: «Sono convinto che il continuo sostegno di un respiratore non sia più nell’interesse di Alfie». I genitori si sono opposti, ma finora senza successo.

Sulla vicenda del piccolo paziente inglese Tempi.it intervista mons. Vicenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV). Per mons. Paglia non si tratta di eutanasia, ossia di omicidio, bensì di rifiuto di accanimento terapeutico: «Parlare di ‘soppressione’ non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di una opzione con cui non si intende "procurare la morte: si accetta di non poterla impedire" (CCC 2278)».
Dunque per il presidente della PAV permettere ad un paziente di continuare a vivere in una condizione di disabilità è accanimento terapeutico. Ma le cose non stanno così. La decisione dei medici e giudici infatti è una decisione eutanasica.

A dare la prova di ciò è proprio il documento Iura et bona della Congregazione per la Dottrina della Fede citato dallo stesso Paglia nell’intervista, documento che fornisce la seguente definizione di eutanasia: «Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» (II). Questa definizione si applica alla perfezione al caso di Alfie: si vuole procurare la sua morte staccandogli il respiratore al fine di evitare a lui la sofferenza (psicologica?) di vivere in quello stato. Si tratta di un omicidio per fini pietistici. Così il Catechismo della Chiesa cattolica: «Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte». Definizione che pare pensata apposta per il caso di Alfie.
Di contro mantenere in vita una persona in uno stato di disabilità non è accanimento terapeutico, come sostiene Paglia, ma atto doveroso di cura. A dircelo in modo limpido è proprio il Catechismo della Chiesa cattolica  due numeri precedenti al numero citato da Paglia: «Le persone ammalate o handicappate devono essere sostenute perché possano condurre un'esistenza per quanto possibile normale» (2276). Gli handicappati come Alfie devono essere sostenuti, non uccisi.
L’accanimento terapeutico si realizza quando c’è una sproporzione tra mezzi applicati e risultati sperati (CCC 2278). Si tratta in definitiva di trattamenti inutili e futili. Ora il respiratore che tiene in vita Alfie non è un trattamento sproporzionato agli obiettivi, ma assolutamente proporzionato al suo fine proprio, ossia ossigenarlo e quindi mantenerlo in vita. Non è il respiratore la causa delle sue pessime condizioni di salute, bensì la sua patologia. Ma dato che, per riprendere le parole di Paglia, si è appurata «l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova» allora si è presa la decisione di ucciderlo.
Si vuole far morire il piccolo perché non può migliorare, perché non ci sono terapie risolutive. La decisione dei medici dunque si incardina sul principio della qualità della vita e non sul rispetto della dignità della persona, anche di quella disabile. Quindi non è pertinente la citazione che Paglia fa del n. 2278 del Catechismo «non si intende procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», perché qui si procura la morte staccando il respiratore potendo benissimo impedirla, ossia procrastinarla per quello che è umanamente possibile innanzitutto non interrompendo la ventilazione assistita. Ciò che dice dunque mons. Paglia è l’esatto contrario di ciò che dice il Magistero.
Poi mons. Paglia cita un discorso di Pio XII del 1957 «Ai membri dell'Istituto Italiano di Genetica ‘Gregorio Mendel’ sulla rianimazione e respirazione artificiale» (clicca qui) ed afferma che «già Pio XII nel 1957 sosteneva che ci sono casi in cui è legittimo sospendere la ventilazione assistita». In realtà in questo documento il pontefice tratta, tra gli altri argomenti, della cessazione della ventilazione meccanica all’interno delle manovre di rianimazione, cessazione ritenuta moralmente lecita quando configura un trattamento sproporzionato. Ma la ventilazione assistita a cui è sottoposto Alfie è assolutamente proporzionale ai fini propri, secondo i principi espressi proprio da Pio XII. Quindi il richiamo non è pertinente. E’ invece pertinente al caso di Alfie il seguente passaggio del documento di Pio XII appena citato: «La ragione naturale e la morale cristiana dicono che l'uomo (e chiunque sia incaricato di prendersi cura dei suoi simili) ha il diritto e il dovere, in caso di malattia grave, di prendere le misure necessarie per preservare la vita e la salute».
Mons. Paglia inoltre si avventura anche sul terreno giuridico. All’obiezione sollevata dal giornalista Valerio Pece attinente al fatto che i giudici inglesi avrebbero strumentalizzato le parole del Papa citandole in sentenza, Paglia di contro articola una riflessione dal sapore vagamente teocratico che assolve l’operato dei magistrati inglesi: «Il giudice, considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del 2017». Ma i magistrati – proprio secondo il portato dottrinale cattolico – sono chiamati a giudicare in base a leggi civili, certamente ispirate alle legge naturale che è patrimonio anche della Chiesa cattolica, non in base al Catechismo. L’operazione che ha fatto il giudice è quindi furba ed iniqua: usare strumentalmente alcuni documenti della Chiesa per far dire ad essi cose prendendo a pretesto il fatto che i due genitori sono cattolici. A rigore ed assecondando il plauso che il presidente della Pav rivolge a questo espediente giurisprudenziale di carattere teologale, dovremmo chiedere ai giudici che emettono verdetti relativi a cause che coinvolgono cittadini islamici di applicare il Corano e la sharia. Cuius religio, eius ius.
Infine Paglia si pronuncia sulla recente legge sulle Dat. Gli viene ricordato dall’intervistatore il giudizio temerario, perché positivo, sulla legge espresso dal Gruppo di studio sulla bioetica dei Gesuiti e pubblicato su Aggiornamenti sociali, legge che secondo questo Gruppo conterrebbe «numerosi elementi positivi e rappresenta un punto di mediazione sufficientemente equilibrato da poter essere condiviso». Paglia non critica questa valutazione, bensì rilancia e cita un giudizio espresso dal Consiglio direttivo dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: «La pretesa di dare alla legge una lettura eutanasica è arbitraria e contraria allo spirito della stessa». Quindi per Paglia la legge sulle Dat non legittima l’eutanasia. Il giudizio è infondato come abbiamo spiegato da queste colonne più volte (vedi qui, qui, qui, qui e qui).
Da ultimo il presidente della Pav  pare sposare sia la dialettica hegeliana che l’etica fenomenologica: «Su temi che richiedono conoscenze specifiche e riguardano la vita sia della persona, sia della società, le idee maturano nel dialogo e nel confronto, anche all’interno della comunità ecclesiale. La diversità di opinioni nella Chiesa costituisce una ricchezza. […] Le leggi di uno Stato rappresentano una mediazione tra posizioni differenti». Vero è, come afferma Paglia, che oggi le idee non di rado maturano nel dialogo, ma non per questo tutte le idee maturate nel dialogo sono da accettare. Parimenti le diversità di opinioni sono una ricchezza se sono tutte vere e si distinguono solo per le modalità di vivere il bene. In modo analogo è inconfutabile il fatto che le leggi spesso oggi rappresentino una mediazione, ma tale mediazione non è sempre accettabile, ad esempio quando la legge vuole applicare il compromesso su principi non negoziabili. In breve pare che per Paglia il momento descrittivo coincida con quello prescrittivo, ossia che è bene che sulla vita decidano il confronto e il dialogo, dentro e fuori dal Parlamento, perché ormai è così che si fa. Ma il dialogo e il confronto non sono le fonti della moralità indicate dal Magistero (cfr. CCC 1750 ss; Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, n. 78).
http://www.lanuovabq.it/it/via-libera-di-monsignor-paglia-alluccisione-di-alfie

- NON PUO' PIÙ RESTARE A CAPO DELLA PAV, di Riccardo Cascioli
  • EUTANASIA BAMBINI

Dopo Charlie, ucciso Isaiah. Aspettando Alfie



Dopo Charlie Gard ieri è toccato al piccolo Isaiah Haastrup essere messo a morte da un ospedale londinese. Ma ha respirato da solo per ben otto ore dopo il distacco del ventilatore. Ormai è chiaro: si uccidono i pazienti che non possono guarire.

I genitori di Isaiah
Il canovaccio è ormai rodato ed è sempre il medesimo. Nasce un bambino affetto da una grave disabilità, i medici decidono di staccare i supporti vitali, i genitori si oppongono e percorrono tutte le vie legali praticabili e alla fine il piccolo viene ucciso. Né più né meno che una sentenza di morte a danno di un innocente, la cui unica colpa è quella di non essere nato sano. Un aborto post-natale imposto ai genitori per mano di medici e giudici.
La trama di questa tragedia si è svolta ancora una volta a Londra. Come a Charlie Gard, anche al piccolo Isaiah Haastrup, nato nel febbraio del 2017, è stato applicato un protocollo eutanasico che ha previsto la morte per il tramite dell’interruzione della ventilazione assistita. Ma a differenza di Charlie, quando i medici due giorni fa lo hanno staccato dalla macchina che lo aiutava a respirare Isaiah inaspettatamente ha continuato a respirare per quasi otto ore consecutive in modo autonomo, come ha dichiarato il padre sulla sua pagina Facebook,  e poi, ormai sfiancato, è morto. Ogni respiro è stato un atto d’accusa verso quei medici e giudici asfittici nei loro giudizi di morte. Isaiah ha avuto un parto drammatico che ha comportato un danno cerebrale rilevante a seguito di una prolungata anossia al cervello. Ma c’è appunto chi è affetto da anossia dell’intelletto, patologia assai più grave.
Come i genitori di Charlie e del piccolo Alfie, anch’esso nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione della sentenza capitale, anche papà e mamma di Isaiah hanno percorso a perdifiato tutte le vie legali possibili per salvare il figlio dagli intenti omicidi dei medici del King’s College di Londra: tre corti d’appello, la Corte Suprema ed infine la Corte europea dei diritti dell’uomo. Niente da fare. I giudici inglesi avevano decretato che era “futile” vivere così, confondendo drammaticamente e dolosamente la futilità degli interventi – non certo quelli che tenevano in vita il bambino – con la futilità della vita, mai predicabile.
La Corte di Strasburgo il 6 marzo scorso aveva dichiarato inammissibile il ricorso perché uccidere il bambino non avrebbe configurato una violazione dei diritti e delle libertà fondamentali. Ci domandiamo a questo punto cosa può rappresentare una violazione dei diritti fondamentali. La Corte di Strasburgo è ormai diventata la Corte europea dei diritti dell’uomo sano e funzionale. Gli altri li soffochiamo.
Sul numero di febbraio di Acta Paediatrica si dà notizia che in Olanda si possono interrompere le terapie ai bambini per bassa qualità della vita prospettata. A rigore questo protocollo eutanasico dovrebbe essere applicato a tutti, dato che tutti noi prima di morire, in genere, vedremo degradarsi la qualità della nostra vita.
A Charlie, a Isaiah, ad Alfie è stata o verrà interrotta la ventilazione assistita non perché questo mezzo di sostentamento vitale configuri accanimento terapeutico, ma perché non si vuole mantenere in vita un paziente affetto da gravi disabilità. Ti uccido perché non puoi migliorare. E’ la pura esistenza in vita di malati inguaribili a configurare accanimento, perché vivere da malati è accanirsi a vivere.
Va da sé che oggi è capitato ad Isaiah, contro il suo volere e quello dei genitori, domani tutti noi potremmo essere candidati alla morte imposta per il nostro miglior interesse, noi che saremo sprofondati nel buio del coma, noi malati di Alzheimer, noi affetti da demenza senile, noi pazienti oncologici con inesistenti prospettive di recupero, noi paralizzati a letto ma lucidi a seguito di un incidente stradale, noi senza un arto o persino ciechi, tutti condannati a morte perché incapaci di guarire.
http://www.lanuovabq.it/it/dopo-charlie-ucciso-isaiah-aspettando-alfie 
 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.