Felici come una Pasqua si diceva una volta. Oggi la Pasqua è apolide e vacanziera: pasqua di viaggio. L’Italia di un tempo è finita oggi siamo tutti più o meno "americani" cioè uomini nuovi alla conquista del pianeta uniformato
di Marcello Veneziani
Felici come una Pasqua, si diceva una volta. Perché in effetti Pasqua è sempre stata un’esplosione di vita naturale e soprannaturale, civile ed alimentare. Esplode la vita da un Sepolcro, con la Resurrezione di Cristo, ma esplode la vita anche da un inverno e i vestiti si annunciano leggeri, come i modi di vivere; la natura fiorisce e il mare annuisce, mentre nei paesi riesplode lo struscio, da quello sacro, perché le processioni pasquali inaugurano la stagione delle feste di strada, a quello profano perché il passeggio torna al centro della vita di provincia e non solo. E a casa trionfano ciambelle e scarcelle, cartellate, benedetti e tielle, per dirla col lessico paesano. È un quadro pasquale fuori dal tempo, che riposa nei fondali della memoria di chi ha superato la soglia dell’anzianità o di chi si è attardato nei paesi che più lentamente hanno dismesso le loro tradizioni. La Pasqua presente è apolide e vacanziera, pasqua di viaggio o di vita ordinaria; si è logorato il significato speciale di Pasqua. Anche se talvolta risale dentro di noi questa nostalgia della Pasqua d’infanzia, una specie di desiderio di tornare alla nostra originaria Isola di Pasqua.
È quel che mi è accaduto tornando in Puglia alla casa d’origine. Ho ritrovato sul lettone matrimoniale di mia madre e mio padre, il Gesù benedicente che si sporge sul letto, col cuore che Gli esplode nel petto. È un’Icona che mi ha accompagnato sin dalla prima infanzia, figura vivente perché fuoruscendo dal quadro, in rilievo, dava l’impressione, soprattutto a un bambino, di essere vivo e vigile. Quante volte lo fissavo, lo spiavo, per coglierlo d’improvviso e scoprirlo muovere gli occhi, la testa, le mani. A volte mi mettevo le mani davanti agli occhi ma lasciavo una piccola fessura tra le dita per sorprendere un suo segno di vita. O addirittura volevo veder cadere una goccia di sangue dal suo cuore estroflesso. Era bello quel Gesù, un viso dolce e splendente, lo confermo con gli occhi di oggi. Un Gesù raggiante, gioviale, perché mia madre non amava le immagini dolenti di Cristo in croce, temeva esporre crocifissi. Amava la luce, il sole che sorge e l’uomo che risorge, temeva che il dolore chiamasse il dolore, che la morte chiamasse la morte. Era un residuo superstizioso ma lei amava Gesù risorto, giovane e bello, che propizia la gioia e la nascita.
Ma poi uscendo di casa non vedi nulla che annunci la Pasqua e il suo dolente preambolo. Non c’è più pathos nell’incontro tra Cristo e la Madonna in piazza al Calvario; migliaia di persone assiepate, bambini sulle spalle dei genitori, spinte, battute e cellulari squittanti, assoluta anestesia del dolore e della fede… La stessa cosa accade coi Sepolcri, un pellegrinaggio di chiesa in chiesa tra migliaia di persone, con assoluta noncuranza dell’evento, come in uno struscio cittadino con un alibi religioso vago e vagante, un’obbligo rituale di socialità, un diversivo rispetto allo shopping. Una gita in casa propria, andante allegro.
Che strano, mi ripetevo. Ricordo da bambino cos’era la settimana santa, non s’andava al cinema il giovedì e venerdì santo perché il film significava divertimento e invece questi erano giorni di lutto; e si vedevano donne vestite di nero piangere al passaggio di Cristo e della Madonna. Il dolore si leggeva nei volti di tanti nel pellegrinaggio dei Sepolcri e se un filo di gioia si intravedeva sotto l’aspetto dolente, era solo il presagio della Pasqua ventura, la certezza risorgente del Lieto Fine. Che ne è della Pasqua antica di cui ho gloriosi ricordi, sicuramente condivisi da molti di voi? Che ne è della civettuola pasquetta, lunedì dell’angelo o con altri soprannomi locali (al mio paese è il lunedì del pantano)?
È stupido fingere che il mondo non sia cambiato e che la stessa partecipazione possa ancora accompagnare i riti pasquali, le processioni e la passione di Cristo. L’atmosfera è fredda e svagata, quasi turistica, c’è qualcosa di stanco e di inautentico nelle cerimonie pasquali. Fiction. Forse c’è la stessa partecipazione quantitativa di pubblico, ma infinitamente più flebile è la partecipazione emotiva, religiosa, comunitaria. È una variante dello zapping televisivo, uno show dal vivo, in diretta, quasi una prosecuzione di quei programmi tv che ti fanno vedere l’Italia, il folclore e le tradizioni, un che di artificioso, di finto-tipico e di pseudo-etnico, un evento promosso dalla pro-loco. Dall’altra parte, mi pare altrettanto stupido ripetere che ormai il tempo è cambiato; l’Italia di un tempo è finita e oggi siamo tutti più o meno americani, cioè uomini nuovi alla conquista del pianeta uniformato. Forse la verità sta oltre questi due luoghi comuni: cerchiamo in modi nuovi, in forme nuove, le pasque che abbiamo perduto.
E così la pasquetta si traveste di agriturismo, la resurrezione del corpo passa alla palestra o alla beauty farm, la voglia di tradizione e di origini si proietta nella ricerca dei luoghi incontaminati o dei borghi antichi, il gusto dei sapori di una volta si camuffa di passione per il cibo etnico, gli interminabili banchetti pasquali si traducono in slow food, e mille varianti spirituali, zodiacali, rituali compensano la perdita di senso religioso.
Mutano le forme, non i bisogni profondi. Restiamo animali ludici, simbolici, religiosi ma lo dissimuliamo. Qualcuno ricorderà che dopo la rivoluzione francese le processioni e i riti cristiani furono sostituiti fin nel calendario da riti nuovi, nomi nuovi, consacrazioni di astratte divinità. Poi quella febbre passò e al posto della Dea Ragione tornò la Madonna e dall’Albero della Libertà si tornò a San Gennaro.
Forse c’è un cartello invisibile appeso al portone della cattedrale: sono momentaneamente assente, lasciate un segno e sarete richiamati al più presto… Firmato con una Croce, ma non d’analfabeta.
I tornanti di Pasqua
di Marcello Veneziani Il Tempo
Fonte:http://www.marcelloveneziani.com/articoli/i-tornanti-di-pasqua/ del 30/03/18 pubblicato il 05 Aprile 2018
Il Santissimo? Appendiamolo a un drone
e mostrano una simpatica chiesa brasiliana, São Geraldo Magela, arcidiocesi di Sorocaba, dove l’ostensorio fa il suo trionfale ingresso trasportato appunto da un drone.
Il volo non appare del tutto sicuro, tanto è vero che una giovane signora, senza nascondere la sua preoccupazione, insegue l’oggetto volante lungo la navata e a un certo punto lo afferra, così da permettergli di dirigersi meglio verso il prete, che lo aspetta davanti all’altare. Poi il drone, sempre con l’ostensorio appeso, svolazza per un po’ e infine scende tra le mani della suddetta signora, la quale consegna l’ostensorio al celebrante e questi, dopo averlo mostrato all’assemblea, lo colloca finalmente sull’altare.
E vi prego di notare il comportamento dei fedeli, che da quando il drone entra in chiesa non fanno che applaudire, gridare e fischiare, pieni di ammirazione per la fantastica trovata, come se fossero allo stadio.
Ora devo dire che il drone mi mancava. In chiesa ho visto un po’ di tutto: preti ballerini e preti clown, preti chitarristi e preti cantautori; vescovi ciclisti (all’interno della cattedrale) e vescovi canterini; chiese usate per pranzi e per mostre, per sfilate di moda e porchettate; ho visto anche un cervo imbalsamato posto ai piedi dell’altare e un gesuita indiano danzante (nel presbiterio) in abiti indù. Ho visto perfino un celebrante, durante un matrimonio, invitare lo sposo a offrire ai presenti uno spritz, come se l’altare fosse il bancone del bar e la messa un’happy hour. Il drone però mi mancava.
Ma, in fondo, perché stupirsi? Il cammino di desacralizzazione è incominciato tanti anni fa, si è nutrito di molteplici abusi e oggi finalmente possiamo goderci i risultati. E lo spettacolo.
Tuttavia il fatto che in quest’ultimo caso brasiliano sia stato coinvolto direttamente il Santissimo Sacramento mi provoca un brivido ulteriore. Mi chiedo: come può saltare in mente una simile idea? E come fa un sacerdote ad accettarla? E il vescovo?
La corsa al «famolo strano» è ovviamente figlia della televisione, grande incubatore di stranezze e nefandezze che per il fatto stesso di essere mostrate trovano la loro legittimazione e innescano un devastante processo di emulazione. E poteva la chiesa essere esente dai cascami di tale subcultura? Certo che no.
Del resto, da quando il celebrante, armato di microfono, si è trasformato in telecronista e conduttore, protagonista assoluto della scena assieme ai fedeli trasformati in pubblico, tutto è possibile.
In mezzo a questo degrado, tuttavia, il Santissimo Sacramento sembrava ancora al riparo dalle profanazioni, per lo meno da quelle più becere. Certo, gli oltraggi ci sono. Ma, in generale, davanti al Santissimo, bene o male, si fa ancora silenzio. Bene o male, ancora ci si inginocchia. Bene o male, l’adorazione resta uno spazio e un tempo sacro, nel quale al centro non c’è l’uomo, ma c’è Lui. Ecco perché il Santissimo aviotrasportato tramite drone mi lascia sgomento. È come se fosse caduta l’ultima barriera.
E ora? In attesa che qualcuno perfezioni il tutto (per esempio, perché non prevedere un apposito paracadute, così che il Santissimo possa atterrare sull’altare?), non resta che riflettere sullo spontaneismo dominante nella liturgia, figlio del mito dell’animazione liturgica, a sua volta originato da una teologia che al centro non mette più Dio, ma l’uomo.
Dunque, miei amati fratelli, «famolo strano», anzi sempre più strano! E che tutti i salmi finiscano in spettacolo!
Aldo Maria Valli
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