Latino: una lingua mille risorse
Riportiamo da La Nuova Bussola Quotidiana: Sentenze e modi di dire sono approdati dall’antichità a noi, conservando intatti il loro fascino e la forza comunicativa di un tempo. Comunemente utilizziamo espressioni latine senza magari neanche pensare al fatto che siano latine. Vediamole.
Sentenze e modi di dire sono approdati dall’antichità a noi, conservando intatti il loro fascino e la forza comunicativa di un tempo. Comunemente utilizziamo espressioni latine senza magari neanche pensare al fatto che siano latine.
Il termine «alibi» è utilizzato per indicare il luogo in cui ci troviamo al momento che viene commesso un delitto: in latino la fusione di «alius» e «ibi» produce «altrove», un altro luogo in cui mi trovo. Potrebbe accadere che in un romanzo giallo un assassino si sia creato un alibi ad hoc ovvero «a proposito» (o anche «per questo»).
Noi possiamo parlare in modo esplicito e chiaro, potremmo anche dire «expressis verbis». «Apertis verbis» scrive Cicerone in una lettera delle Ad familiares intendendo dire «a chiare lettere», senza ambiguità.
«Apportati i dovuti cambiamenti» si può dire con l’espressione «mutatis mutandis»: abbiamo instaurato il confronto tra due realtà simili, che presentano differenze del tutto marginali. «La condizione nella quale ci si trova a vivere» coincide con lo «status quo». «Sic stantibus rebus» significa, invece, «stando così le cose».
Quando si porgono gli auguri possiamo dire «ad maiora», ovvero «verso traguardi migliori» e se brindiamo ci avvaliamo di «prosit» ovvero «che possa giovare», un congiuntivo esortativo che ora si è cristallizzato in una forma utilizzata non solo in italiano, ma anche in inglese. Lo stesso verbo latino «prosum» è usato nell’espressione «cui prodest» ovvero «a chi giova? ».
Quando qualcuno perora una causa per il proprio interesse assomiglia a Cicerone che nel 57 a. C., tornato dall’esilio comminatogli diciotto mesi prima, pronuncia un’orazione per la restituzione dell’area confiscatagli da Clodio intitolata Cicero pro domo sua, espressione divenuta proverbiale di chi fa l’avvocato di se stesso. Se la decisione nostra è ormai irrevocabile, si può dire che «il dado è tratto», ovvero «alea iacta est», frase che Svetonio attribuisce a Cesare nella Vita di Cesare quando ormai il comandante, vittorioso sulle Gallie, ha varcato il Rubicone in armi, entrando così nel «pomerium», quella terra attorno a Roma all’interno della quale nessun romano poteva addentrarsi senza l’autorizzazione speciale del Senato.
Dal mondo del teatro antico e, in particolare, della commedia proviene l’espressione «deus ex machina», espressione derivante a sua volta dal greco antico. In alcune opere i casi erano così intricati e irrisolvibili che solo l’intervento di un dio calato dal cielo su un’apparecchiatura permetteva di risolvere la situazione. Così accade ad esempio nell’Anfitrione di Plauto, in cui Giove assume le fattezze di Anfitrione, marito di Alcmena, per approfittare dell’avvenenza della donna e viene aiutato da Mercurio che si tramuta in Sosia, servo di Anfitrione. Quando arriva a casa il padrone, la moglie afferma di essere già stata con lui l’intera notte precedente. Sorgono molti equivoci in base ai quali la donna è accusata di infedeltà e il rapporto tra i due coniugi rischia di incrinarsi in maniera indelebile. Solo l’intervento finale di Giove che scende dal cielo permette di spiegare la situazione e di sciogliere un caso divenuto ormai intricatissimo.
Dalle Odi di Orazio proviene una delle più fortunate espressioni proverbiali: «carpe diem». Il poeta si rivolge all’amica Leuconoe invitandola a non cercare di conoscere l’avvenire, a non aspettarsi il proprio compimento e la felicità dal futuro. «Tempus fugit»rapidamente. Per questo è opportuno vivere il momento, il meno possibile affidando la nostra speranza di compimento dal futuro. «Carpe diem, quam minimum credula postero». Quell’espressione «carpe diem» non invita in alcun modo allo sballo e al becero divertimento, ma suggerisce di sminuzzare, cogliere anche la più piccola foglia, vivere anche l’istante apparentemente più insignificante. Vivere l’intensità del momento.
Sempre nelle Odi di Orazio troviamo l’espressione aurea mediocritas. La mediocritas è la capacità di tenersi lontani da ogni eccesso, mentre aurea sottolinea l’eccellenza. Quindi, proprio nella saggezza dell’essenzialità, della sobrietà e delle piccole cose risiede la felicità. Bisogna, quindi, seguire il precetto della misura, dell’equilibrio come scrive ancora Orazio nelle Satire: est modus in rebus ovvero «c’è una misura in tutte le cose», concetto espresso in filosofia con la celebre espressione «In medio stat virtus» (la virtù sta nel mezzo).
Ancora dalla letteratura latina e, in particolare, da una satira di Giovenale proviene il proverbio «mens sana in corpore sano».
Se è a tutti chiara l’origine latina di «errata corrige (correggi le cose sbagliate), «ex aequo» (a pari merito), «lapsus» (in forma letterale scivolone, caduta), «do ut des» (io ti do affinché tu mi dia), «ipse dixit» (un’autorità in un campo), «repetita iuvant» (le cose ripetute giovano), potrebbe invece sfuggire il tratto latino di tanti altri termini. Eccone alcuni esempi. Il lavandino è anche il «lavabo», futuro semplice latino del verbo lavare (ovvero «io laverò»). Il termine indicava un tempo la bacinella dove il sacerdote lavava le mani prima di celebrare la messa. Anche «placebo» (futuro semplice «io piacerò») indica un finto farmaco che permette di dimostrare l’efficacia del vero farmaco.
In realtà, utilizziamo centinaia di espressioni latine tutti i giorni: «lupus in fabula, «alter ego», «ad libitum», «ex cathedra», «ex professo», «auditorium» (luogo per ascoltare), «agenda» (cose che devono essere fatte), etc. «Etc» deriva da «et cetera» ovvero «e altre cose».
Alcuni modi di dire latini si sono trasferiti in una forma italianizzata. Ad esempio «è un problema di lana caprina» viene dal latino «de lana caprina». In un’epistola di Orazio leggiamo l’espressione «disputare della lana caprina» con il significato di «perdere del tempo». Con il passare dei secoli il detto ha cambiato il suo significato fino ad indicare una «questione irrisolvibile». Anche il modo di dire «è rimandato alle calende greche» deriva dalla frase latina «Ad Kalendas graecas». Nel calendario romano le Calende sono il primo giorno del mese, quello in cui il debitore deve pagare gli interessi al debitore. Nel calendario greco, invece, non esistono le Calende. Quindi, rimandare alle Calende greche vuol dire rinviare ad una data inesistente, ovvero non aver alcuna intenzione di assolvere il debito o, più in generale, di compiere quanto è stato richiesto. Ecco un ultimo esempio di proverbio latino diffusosi in una forma italianizzata: «la fortuna aiuta gli audaci» coincide con l’espressione latina «audentes fortuna iuvat».
La potenza di una parola
I Latini pensavano che il termine «nomen» derivasse etimologicamente da «omen», cioè che la parola indicasse in sé il destino dell’oggetto o della persona, le sue caratteristiche specifiche. «Nomina sunt consequentia rerum», ovvero «i nomi sono conseguenza della realtà delle cose». Per questa ragione è fondamentale comprendere l’etimo primo di un termine, proprio per cogliere il fine, il destino, la prospettiva di compimento.
La parola possiede una capacità incredibile di rievocare immagini, fatti, emozioni. Pensiamo che il termine «parola» deriva da «parabola», che a sua volta proviene da un verbo greco che significa «mettere a confronto, paragonare». La parabola è, infatti, un genere letterario che consiste nel racconto di un fatto o di una storia per comunicare un concetto più complesso. La parola è, quindi, in sé e per sé già un racconto, una storia, la rievocazione di un’avventura, di una vicenda umana, che nasconde in sé l’affermazione di un significato e di un senso.
I Latini pensavano che il termine «nomen» derivasse etimologicamente da «omen», cioè che la parola indicasse in sé il destino dell’oggetto o della persona, le sue caratteristiche specifiche. «Nomina sunt consequentia rerum», ovvero «i nomi sono conseguenza della realtà delle cose». Per questa ragione è fondamentale comprendere l’etimo primo di un termine, proprio per cogliere il fine, il destino, la prospettiva di compimento.
Ma come è possibile capire il senso di una parola, appropriarsi del significato profondo di un termine o magari comprendere che il senso vero di un’espressione è radicalmente diverso da quello che fino a quel momento si era pensato?
La conoscenza del Latino illumina il linguaggio e le parole. La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione umana, della cultura di un popolo.
Pensiamo al vocabolo «cultura». Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino «colo», che è alla base della parola «cultura», sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro. La parola «cultura» coinvolge non solo la sfera della materialità (l’aspetto fisico, concreto, pragmatico dell’uomo), ma anche la componente religiosa, include la questione dell’uomo e del suo rapporto con il destino, ovvero le grandi domande dell’uomo.
Potremmo anche affermare che il fenomeno culturale si traduce in una capacità di giudizio sul presente e sulla realtà e approda ad una speranza sul futuro radicata nel presente. Un’incursione nella cultura e nell’arte mondiali farebbe emergere fin da subito il loro carattere religioso e metafisico.
Senza il latino è impossibile arrivare a comprendere pienamente che una cultura relativistica non è davvero cultura, perché manca di un radicamento in un terreno e non permette, quindi, alla pianta di crescere.
Ecco altri esempi che ci permettono di capire come il latino illumini il linguaggio e, nel contempo, illumini anche la vita.
Rimaniamo ancora nell’ambito dello studio, della cultura e della scuola. In uno dei primi articoli ragionavamo sul fatto che la parola «studio» (dal termine latino studium) documenta la passione, lo zelo, l’applicazione, mentre il termine «interesse» (dal verbo latino intersum, ovvero «sono in mezzo», «partecipo» che nella forma impersonale interest significa «interessa») indica che la mia persona partecipa, c’entra con l’attività che sta svolgendo. L’etimo della parola «interesse» sfata allora uno dei luoghi comuni della scuola e dello studio, cioè il fatto che l’interesse nasca prima dello studio (fatto talvolta vero).
E ora vediamo due termini come «vacanza» e «scuola» che sono da sempre sentiti come contrapposti non solo dai giovani, ma anche dagli adulti. «Vacanza» deriva da un verbo latino (vaco) che significa «sono libero da qualcosa per dedicarmi a qualcosa d’altro». «Scuola» deriva dal latino «schola» che, a sua volta, deriva da un termine greco che in antichità voleva dire «tempo libero» e, che, poi, ha indicato «il luogo in cui si trascorre il tempo libero». Solo più tardi è diventato il luogo in cui si dibattevano questioni filosofiche e culturali o si leggevano testi. Il tempo della vacanza è allora per eccellenza il momento in cui l’adulto e il giovane sono liberi dalle solite occupazioni per dedicarsi ad altro, magari a quelle passioni e a quegli interessi a cui non ci si può dedicare con troppa cura durante l’anno. Le vacanze sono l’occasione per affermare e seguire quanto di bello uno ha incontrato o viceversa per essere provocati dal fatto che non si è ancora incontrato o riconosciuto qualcosa di grande nella vita e allora questa constatazione può diventare provocazione del fatto che vada cercato. In pratica, da come si utilizza il proprio tempo libero spesso si comprende che cosa ci interessa e ci sta davvero a cuore. La vacanza implica, quindi, una scelta.
Anche il verbo «leggere» comporta una scelta. Il verbo latino «legere» significa raccogliere, scegliere, eleggere. Il verbo ha in sé il valore di selezionare, amare, prendere qualcosa in mezzo ad altro. La lettura inizia, quindi, nella scelta che avviene tra i banchi di scuola o nelle librerie. Non tutto ciò che leggiamo forma ed educa, cioè non tutti i libri aiutano a crescere. Alcuni romanzi o saggi possono essere profondamente diseducativi.
Giovanni Fighera
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