Risuscitare pietas e caritas medievale per ricostruire la civiltà. Se vogliamo sperare di sopravvivere all'auto-distruzione della modernità, dobbiamo resuscitare qualcosa di equivalente. L’uomo non può fare da solo e senza Dio
di Francesco Lamendola
Gli antichi lo sapevano, il lettore dell’Eneide lo sa bene, lo sapevano i nostri nonni quando ci insegnavano la devozione, il rispetto e la gratitudine verso Dio, verso la Patria e verso la Famiglia. Ma poi è arrivata la modernità; è partita da lontano, strisciando come una serpe, e infine è esplosa nel 1968, seminando macerie che tuttora ingombrano la nostra via: e una montagna di disprezzo si è abbattuta sulla triade Dio, Patria e Famiglia. Più in generale, il sentimento della pietas è stato ridicolizzato e praticamente distrutto; ora lo dobbiamo resuscitare, se vogliamo sopravvivere. Di fatto, non esiste civiltà senza la pietas: smarrire quest’ultima equivale a precipitare nella barbarie. Infatti, quella in cui viviamo non è una civiltà, ma una barbarie costituita.
Ecco una buona definizione del concetto latino di pietas (in: N. Flocchini-P. Guidotti Bacci, Percorsi scelti. Antologia di autori latini per il biennio, Milano, Bompiani, 2003, p 364):
Il sostantivo “pietas” è uno di quelli che continuamente ci ricordano come ogni traduzione sia sempre limitata, parziale inadeguata: comunque lo si traduca, andrà perduto buona parte del suo significato, a meno di non renderlo con una lunghissima perifrasi.
I Romani indicavamo con “pietas” la scrupolosa osservanza degli obblighi sostanziali e formali verso coloro ai quali si doveva riconoscenza e gratitudine:
- è innanzitutto sentimento di venerazione per gli dei e osservanza delle pratiche religiose;
- è accettazione degli obblighi del buon cittadino che ama in primo luogo la patria e quindi se stesso e gli altri;
- è infine scrupoloso adempimento dei doveri che ci legano ai genitori, ai parenti, agli amici e, in definitiva, all’umanità intera.
La “pietas” è dunque una virtù non individuale, ma sociale, in quanto propone un ideale di uomo che per realizzarsi deve sentirsi armonicamente inserito entro una fitta trama di rapporti, strutturati secondo una precisa gerarchia di valori (Dio, Patria, Genitori, Famiglia).
In italiano forse non esiste una parola che racchiuda in sé il medesimo complesso significato: di qui le difficoltà del traduttore costretto a scegliere, a seconda del contesto, uno soltanto dei valori che il vocabolo latino possiede. Il termine viene così reso talvolta con “religiosità”, talora con “rispetto” o con “amore”. Men che meno rende la ricchezza del vocabolo latino la parola italiana “pietà”, che pure da esso deriva ma che definisce soltanto uno degli ambiti della “pietas” e cioè il sentimento della “compassione” suscitato in noi dalle altrui sofferenze, sentimento che in latino era reso con “misericordia”.
D’altra parte, la pietas è un sentimento che non può essere resuscitato così com’era originariamente, per la semplice ragione che era l’espressione di una civiltà ben precisa, quella dei romani, e trova la sua perfetta espressione poetica nell’episodio della fuga di Enea da Troia in fiamme: il pius eroe si preoccupa, a prezzo di gravi pericoli, di portare in salvo il vecchio genitore Anchise, il figlioletto Ascanio, la moglie Creusa (che si perderà nella confusione) e le statuette degli dei Penati. Non esiste l’equivalente della pietas nella civiltà moderna, perché il rapporto dell’uomo con la divinità, con la patria e con la famiglia è profondamente cambiato, così come sono cambiate, in se stesse, le ultime due istituzioni, mentre è cambiata l’idea stessa del divino; o, per dir meglio, è stata praticamente abbandonata. Quando finì la civiltà greco-romana, nacque la civiltà cristiana e la pietas venne integrata, e in definitiva sostituita, da un nuovo sentimento, più ampio e comprensivo, più affettuoso e più attento anche alla dimensione del bene dovuto a se stessi (ama il prossimo come te stesso, raccomanda Cristo; mentre nella pietas vi è un certo stoicismo che fa passare i bisogni dell’io in secondo piano, almeno secondo la nostra mentalità): la caritas. Integrata e arricchita dallacaritas, la pietas non è scomparsa, ma si è trasformata: la rivoluzione cristiana consiste innanzitutto in una concezione più familiare e più paterna di Dio, che spinge il suo amore per gli uomini sino a farsi uomo e a soffrire e morire per essi, e insegna loro, così, la fratellanza universale, nel segno della sua paternità. Dio diventa Abba, Padre: questa è la grande novità; e gli uomini, di conseguenza, diventano tutti fratelli gli uni per gli altri: agli occhi di Dio non c’è più greco né giudeo, libero né schiavo, maschio né femmina, dice san Paolo, perché sono tutti suoi figli. Dunque, mentre la pietas ha a che fare con la città-stato del mondo greco e poi romano (perché Roma, non dimentichiamolo, nasce come polis e poi diventa impero), la caritas si estende a tutta la famiglia umana, perché il requisito che si richiede per farne parte non è l’appartenenza a una compagine specifica, ma il riconoscimento di Gesù Cristo come Figlio di Dio e l’accoglienza della sua Buona Novella. La transizione dall’una all’altra, dall’esclusivismo all’universalismo, è stata resa possibile dal fatto che il cristianesimo ha trovato il suo terreno di coltura non nella chiusa società giudaica, dove era nato, e neppure nelle comunità giudaiche della Diaspora, ma proprio nei centri vitali dell’Impero Romano e quindi si è in qualche misura adattato a una situazione nuova, peraltro esplicitamente prefigurata da Gesù Cristo nel suo invito agli Apostoli affinché andassero in tutto il mondo a battezzare e predicare il Vangelo. Le dimensioni “universali” dell’Impero Romano favorirono questa tendenza, che era presente, ma ancora allo stato embrionale, nel cristianesimo delle origini, così come la favorì, paradossalmente, il sostanziale rifiuto da parte degli ebrei. Se il giudaismo, trasformandosi, avesse riconosciuto in Gesù il Messia tanto atteso, e sia pure dopo la sua morte, forse il cristianesimo non avrebbe raggiunto quella estensione psicologica e teologica universale che, invece, lo ha caratterizzato sin dall’inizio, non appena ebbe attecchito nelle città greche dell’Asia Minore, nella Grecia stessa e, infine, a Roma e in Italia. In quel contesto storico esistevano le condizioni, anche sociali e culturali, perché il cristianesimo divenisse davvero la religione universaleche oggi conosciamo; condizioni che non vi sarebbero state se Roma non avesse unificato il bacino del Mediterraneo e inglobato una buona metà dell’Europa prima che esso cominciasse ad espandersi. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, infatti, non solo l’espansione del cristianesimo conobbe una battuta d’arresto, ma la sua sopravvivenza fu perfino messa in forse in alcune province poco romanizzate, come la Britannia (la quale, di fatto, dovette essere evangelizzata una seconda volta). La penetrazione nei territori che non avevano mai fatto parte stabilmente dell’Impero, oltre il Reno e il Danubio, fu lenta e faticosa; oltre l’Elba e ancora più in là, oltre l’Oder e la Vistola, fu ancora più lenta e difficile: nel 1300 la resistenza dei Lituani, attaccati al loro paganesimo quanto e più dei Germani, era ancora assai forte, mentre in Russia prosperava il khanato islamico dell’Orda d’oro.
Nel corso del Medioevo il cristianesimo finì per estendersi a gran parte dell’Europa, mentre il sorgere e l’aggravarsi della minaccia islamica ebbe la funzione di pungolarlo e di costringerlo a tenersi sempre in guardia, sia militarmente che spiritualmente, perché il destino della Siria, dell’Egitto, dell’Asia Minore e, infine, della stesa Bisanzio, aveva insegnato ai cristiani che dovevano prepararsi a soccombere, qualora non fossero stati capaci di difendersi. E chi non ha capito questo, non può capire nulla delle Crociate, che furono realmente, a dispetto di quel che dice la vulgata progressista, delle guerre difensive, quelle che oggi si direbbero, in linguaggio tecnico militare, delle campagne “di alleggerimento” o di “contenimento”. Una volta che il cristianesimo coincise, più o meno, con l’Europa, e una volta che esso sviluppò la consapevolezza che, per sopravvivere, doveva anche essere pronto a lottare, lacaritas assunse l’abito mentale del crociato e del paladino, e si manifestò, idealmente, nei romanzi e nei poemi epico-cavallereschi di matrice feudale (dei quali l’Orlando innamorato, l’Orlando furioso e la stessa Geusalemme liberata sono solo l’imitazione tardiva, superficiale e irriverente, poiché in essi non c’è quasi nulla dell’epos, né dell’ethos originari). Gli ordini monastico-cavallereschi sintetizzano pienamente la fusione dei valori aristocratici e feudali, nonché guerreschi, con quelli religiosi, e più precisante ascetici e mistici: una sintesi che oggi ci risulta totalmente incomprensibile, perché quanto di più lontano immaginabile dalla forma mentis moderna, che vi coglie solo la contraddizione fra il pacifismo evangelico e la violenza guerriera. Tale incomprensione, però, è un problema tutto nostro, o, per essere più precisi, è originata dalla tipica ipocrisia della civiltà moderna, fondata sul totalitarismo democratico e buonista.
Risuscitare la pietas per ricostruire la civiltà
di Francesco Lamendola
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