Sì, certo: Bonhoeffer è un maestro del nichilismo. Il suo doppio errore consiste come quello di tutti quei teologi, anche cattolici, nel partire dall'assunto che Dio è morto e che per annunciare Cristo bisogna ripartire da zero
di Francesco Lamendola
Abbiamo sostenuto, ripetutamente, che Dietrich Bonhoeffer ha svolto un ruolo fortemente negativo nello sviluppo della teologia del XX secolo, e che continua a svolgerlo, sia pure indirettamente; che è stato uno dei maestri del nichilismo e che la sua concezione di un cristianesimo areligioso e amorale, di un cristianesimo senza religione, è stata fin troppo benevolmente recepita dalle frange più spinte del’ala riformista cattolica al Concilio Vaticano II, e che il suo ruolo storico è stato quello di fare da trait-d’union fra Martin Heidegger e Karl Rahner, di saldare, cioè, il nichilismo filosofico con il nichilismo teologico, chiudendo il cerchio del nichilismo novecentesco e creando le premesse perché questo divenisse l’abito mentale, esplicito o implicito di gran parte del pensiero della tarda modernità, fino ai giorni nostri e chi sa ancora per quanto tempo.
Naturalmente, abbiamo innanzitutto il dovere, come sempre in una discussione filosofica, di dare una definizione del concetto di cui stiamo parlando. Definiamo allora il nichilismo come: A) un atteggiamento del pensiero che rifiuta tutte le categorie e tutti i contenuti accettati dalla tradizione, specie in ambito conoscitivo e morale; B) un indirizzo di pensiero che rifiuta l’esistenza di una realtà oggettiva, definibile e riconoscibile, perché rifiuta il suo fondamento, l’essere; e quindi, C) una tendenza filosofica la quale, in maniera aperta o implicita, sostiene la nullità di ogni conoscere al di fuori dell’ambito più strettamente soggettivo, nonché la nullità dell’esistente, la totale mancanza di fini o scopi nel reale, l’assoluta inconoscibilità del senso ultimo delle cose, o dichiara la sua assenza, il tutto nella prospettiva di una consapevolezza “nuova”, di una capacità di guardare in faccia le cose che gli uomini della tradizione non hanno mai avuto. Da quest’ultimo aspetto deriva un atteggiamento psicologico piuttosto caratteristico di quasi tutti gli esponenti del pensiero nichilista, i quali, lungi dal considerarsi filosofi del crepuscolo, si sentono, generalmente, gli iniziatori di un mondo nuovo, coloro i quali tengono a battesimo una maniera del tutto nuova di porsi di fronte al reale e di fronte al fatto stesso del pensare. Nella presente riflessione, noi terremo presenti tutti e tre questi motivi presenti nel concetto di nichilismo, i quali ci appaiono non solo strettamente collegati, ma pressoché inseparabili. C'è poi un quarto livello di significato, che deriva dal terzo punto, ma richiede un discorso più specifico, e che affronteremo un po' più avanti.
Dicevamo che Bonhoeffer rientra, di diritto, fra i maggiori esponenti del nichilismo ed è uno di quelli che più hanno influenzato il complessivo orientamento nichilista della filosofia (e della teologia) dell’ultimo secolo. Ci proponiamo di mostrare che non si tratta affatto d’una esagerazione, di un giudizio affrettato e perciò ingiusto; e, per farlo, partiamo da ciò che scrive Federico Vercellone nella sua monografia Introduzione al nichilismo (Bari, Laterza, 2001, pp. 163-166):
Le opere di Bonhoeffer, e fra queste in particolare “resistenza e resa”, segnano una svolta decisiva nella vicenda della secolarizzazione; essa viene accolta in termini così radicali da condurre a conseguenze che hanno a che fare da vicino con il nichilismo. È infatti il mondo nel quale la religiosità è giunta al suo compiuto declino quello che viene affrontato e discusso nelle lettere dell’epoca della prigionia; ci troviamo dunque in un luogo dove il Dio della religione tradizionale non ha più autorità, e dove l’incontro con il divino si fa più faticoso ma anche più degno dell’uomo. Agli occhi di Bonhoeffer – come dimostra il suo intero cammino speculativo – la questione è indissolubilmente storica e teologica insieme. Infatti, la secolarizzazione non costituisce soltanto una difficoltà per la religione, un problema da dirimere nella sua estrema rischiosità. Esso è anche il luogo in cui il fondamento si dà nell’oggi. La fede, il messaggio, cristiano, vive, da questo punto di vista, nella prospettiva della decisione (un tema pervasivo nel panorama filosofico tedesco di quegli anni). Si tratta, in quest’ottica, di andar oltre la religiosità tradizionale, e cioè di andare oltre la nozione di Dio come ipostasi teologica, come “in sé”. La decisione della fede – come si rivela già in uno dei primi testi di Bonhoeffer, “Sanctorum Communio” – coincide con l’entrare a far parte della comunità che si realizza in Cristo. È proprio questa centralità di Cristo a costituire quello che si potrebbe definire il filo rosso della riflessione di Bonhoeffer – è un filo rosso che conduce al di là del Dio religioso – come ci rivelano soprattutto le lettere di “Resistenza e resa” che costituiscono l’ultimo e coraggioso esito di questo itinerario di pensiero. Qui si profila una presa di posizione che accoglie pienamente il paradosso della “kénosis”. Il Cristo che si è fatto uomo e che per l’uomo muore, indica la peculiarità della condizione umana, di QUESTA condizione umana, e, con ciò, la peculiarità storica della fede. Una fede che viene a coincidere non con il distacco al mondo, ma con l’amore per la vita. Si tratta di mettere da parte quegli elementi di “ressentiment” insiti nel cristianesimo e nel Dio metafisici, di mettere da parte la religiosità consolatoria denunciata da Nietzsche e riproposta in forma surrogatoria nel mondo secolarizzato dalla psicanalisi e dall’esistenzialismo. È necessario, per Bonhoeffer, “tenere il passo di Dio”, non volerlo oltrepassare, e accogliere quindi la contingenza in quanto tale. Abbiamo così’ a che fare con una posizione che non svalorizza il mondo, non lo pone da parte come una sorta di “alter ego” rispetto a Dio; quello che potrebbe definirsi come il bonhoefferiano “dire di sì” alla vita conduce piuttosto ad accettarla anche nel suo volto pieno e gioioso.
Non finiremo mai di stupirci nel vedere come gli intellettuali moderni siano bravi ad arrampicarsi sugli specchi per sostenere l’insostenibile, cioè che i campioni del nichilismo sono, in realtà, degli innamorati della vita. Da Leopardi con la sua “protesta” (giusta l’interpretazione di Walter Binni) in avanti, è sempre la stessa musica. In realtà, non si può dire che siano molto originali: Vercellone, per esempio, non si fa scrupolo di mettere su due versanti contrapposti il distacco dal mondo e l’amore per la vita, suggerendo che chi ama la vita, come Bonhoeffer, non può approvare il distacco dal mondo. Spiacenti, ma chi ragiona così, oltre a essere in ritardo di qualche secolo, non ha capito niente del Vangelo. Il vero cristiano è, nello stesso tempo, distaccato dal mondo e innamorato della vita: ma bisogna vedere cosa s’intende per “vita”. Se si intende l’edonismo, allora è vero che il cristiano non ama la vita; se s’intende la vita vera, cioè la vita eterna, di cui la vita terrena è solo il preambolo e la preparazione, allora è falsissimo. Ma è chiaro dove una tale contrapposizione vuole arrivare: a dichiarare i Vangeli, e specialmente il quarto Vangelo - ove più esplicita è la condanna del “mondo” - come un frutto del ressentiment: pur di dare ragione a Nietzsche, e, indirettamente, a Bonhoefer, Vercellone preferisce dare torto a san Giovanni e a tutta la tradizione spirituale, ascetica e mistica del cristianesimo, vale a dire a quanto di più bello ha prodotto la fede cristiana nell’arco di duemila anni, compresi san Francesco e Meister Eckhart. E quali contorsioni per arrivare a sostenere che il “vero” cristianesimo è quello di Bonhoeffer, erede di Nietzsche (e di Heidegger), cioè del nichilismo e dell’esistenzialismo: due fra le correnti più anticristiane che il pensiero europeo abbia prodotto nel corso del Novecento. E che pena veder parlare con tanta leggerezza e con tanta supponenza del “Dio metafisico”, come se Dio non fosse, per definizione, l’Essere, e quindi l’ente primo della metafisica, benché questo Dio si sia incarnato e fatto uomo, senza però cessare di essere Dio e senza nulla perdere della sua divinità. E poi, dove sta scritto che “tenere il passo di Dio” equivale ad accettare come un dato di fatto irreversibile la secolarizzazione? E chi lo sa, poi, quale è il passo di Dio? Il passo della storia è il passo di Dio? Se così fosse, la storia sarebbe Dio e Dio sarebbe la storia: ma questo va bene per Hegel, non si accorda, però, per nulla, con il Vangelo di Gesù Cristo, il quale è entrato, sì, nella storia, ma per dominarla, non per subirla. Vogliamo fare di Dio il patrono di tutte le bestialità e di tutte le infedeltà dell’uomo moderno? Infine: perché parlare del volto pieno e gioioso della vita, e tacere il suo volto buio e tormentoso? Perché far finta che la morte non esista? Perché dare a intendere che si possa “dire di sì” alla vita, senza fare i conti con il grande esame di coscienza della morte, né con la sofferenza e la malattia? Questo cristianesimo “nietzschiano” ci sembra alquanto improbabile. E la croce? Niente, nemmeno una parola. Pare che il cristianesimo sia solo la religione del “sì alla vita”. Ma un cristianesimo senza la croce è come un cristianesimo senza Gesù Cristo: una contraddizione in termini, una impossibilità logica.Questo è inseguire il moderno per la smania di essere sempre all’avanguardia: svalutare duemila anni di storia per dar ragione agli ultimi quaranta, cinquant’anni; in altre parole, svalutare Aristotele, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino per dar ragione a Heidegger, a Karl Rahner con la sua “svolta antropologica”, al Concilio e al neomodernismo rinato con esso e oggi trionfante.
Il Cristo di oggi, quello della "neochiesa" di Bergoglio (a cui si vuole sostituire) è solo una proiezione dei nostri desideri e delle nostre aspettative: infatti, non c’è più la croce, di essa nemmeno l’ombra.
Il punto di partenza della riflessione di Bonhoeffer, dunque, è che il processo della secolarizzazione è giunto così avanti, da rendere impossibile pensare la religione nei termini nei quali veniva pensata prima di essa. Questo è il tipico abito mentale delle avanguardie radicali e rivoluzionarie: la società è talmente cambiata che nulla potrà mai essere come prima; tanto vale cavalcare la tigre e, prendendo atto di questo cambiamento, cercare nuove strade per dire ciò che si vuole dire. La secolarizzazione, quindi, non viene analizzata nei suoi sviluppi storici e tanto meno nella sua essenza speculativa: è presa in carico come la "verità effettuale della cosa", direbbe Machiavelli, vale a dire come un dato definitivo e irreversibile, che sarebbe "irrealistico" non accettare pienamente, con tutte le sue conseguenze.
Sì, certo: Bonhoeffer è un maestro del nichilismo
di Francesco Lamendola
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Simbolo della forza dell’apologetica in uno dei periodi più critici per la Chiesa
San Roberto Bellarmino è un po’ il simbolo di ciò che possa fare l’apologetica, cioè la difesa argomentata della fede cattolica, durante uno dei tanti periodi critici della Chiesa. Periodo di crisi, il Rinascimento, ma tutt’altro che buio. In quei quasi ottant’anni – che corrispondono alla vita del Bellarmino – e che vanno dal 1542 al 1621 accaddero diverse cose notevoli, che avrebbero rappresentato l’inizio di quell’ampia rivoluzione altrimenti indicata con il termine di modernità. Tra il XVI e il XVII secolo morì Lutero, morì Calvino e Galilei riuscì a dimostrare qualcosa d’importante, che avrebbe potuto essere un guado tra passato e futuro, ma che invece si tramutò in rottura.
Molti gli attori su questo strano palcoscenico, in cui molto fu frainteso, spesso al di là delle intenzioni: da una parte gli scismatici, che confusero riforma e sovversione; dall’altra i pastori e i santi della Chiesa, che tentarono di arginare i danni causati dall’eresia e dallo scandalo protestante; in mezzo i nuovi filosofi e gli scienziati, che non seppero umanamente portare il peso di enormi intuizioni. A lato – troppo a lato – umanisti e chiusi aristotelici, i quali non trovarono né il modo, né la freschezza di far fruttare il patrimonio di pensiero che avevano ereditato da greci e romani.
Molti gli attori su questo strano palcoscenico, in cui molto fu frainteso, spesso al di là delle intenzioni: da una parte gli scismatici, che confusero riforma e sovversione; dall’altra i pastori e i santi della Chiesa, che tentarono di arginare i danni causati dall’eresia e dallo scandalo protestante; in mezzo i nuovi filosofi e gli scienziati, che non seppero umanamente portare il peso di enormi intuizioni. A lato – troppo a lato – umanisti e chiusi aristotelici, i quali non trovarono né il modo, né la freschezza di far fruttare il patrimonio di pensiero che avevano ereditato da greci e romani.
Il gesuita militante
Benedetto XVI, nell’Udienza del 23 febbraio 2011, ci parla della vocazione peculiare del Bellarmino, non solo orientata allo studio e all’insegnamento della teologia, ma nettamente disposta alla sua difesa, almeno da quando gli fu affidata la cattedra romana di “Apologetica” nel decennio 1576-1586. A questo proposito dice Joseph Ratzinger: «Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante. L’azione del Bellarmino s’inserì in questo contesto». Da quest’esperienza il teologo trasse le sue Controversiae, che ebbero innumerevoli edizioni e segnarono l’apogeo della sua speculazione sistematica sulla dottrina della fede.
Alla competenza teologica non poterono non seguire importanti cariche e, perciò, «il Papa Clemente VIII lo nominò teologo pontificio, consultore del Sant’Uffizio e rettore del Collegio dei Penitenzieri della Basilica di san Pietro». È importante osservare che Bellarmino non si limitò ad esporre la verità, ma l’abbracciò e l’applicò nella propria vita. Questo fece di lui un santo e un precettore di altri santi, come quel San Luigi Gonzaga che incontrò e diresse al Collegio Romano.
Molti altri incarichi impegnarono il teologo sino alla fine dei suoi giorni: fu cardinale, predicatore, visitatore apostolico, inquisitore, diplomatico. Ma forse, innanzi tutto, fu visceralmente gesuita, sullo stile di Sant’Ignazio di Loyola, da quando diciottenne entrò nella Compagnia di Gesù. E lo stile ignaziano è, prima di ogni considerazione, impregnato di zelo militante e di amore fervoroso per il vero. La militanza per la verità, tra l’altro, lo portò a comporre il De ascensione mentis in Deum (Elevazione della mente a Dio), guarda caso «composto sullo schema dell’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura», che parte dalle creature e giunge a Dio (alla verità) a posteriori. Anche San Tommaso, pure mediante la proposta delle cinque vie per giungere a Dio, aveva compreso l’importanza decisiva della speculazione a posteriori. S’intravvede qui la preclusione, secoli prima, della dottrina di Kant, convinto che l’unico percorso scientifico alla verità potesse avvenire solo a priori.
Canonizzato nel 1930 da Pio XI, Bellarmino fu, dallo stesso, proclamato Dottore della Chiesa nel 1931.
Alla competenza teologica non poterono non seguire importanti cariche e, perciò, «il Papa Clemente VIII lo nominò teologo pontificio, consultore del Sant’Uffizio e rettore del Collegio dei Penitenzieri della Basilica di san Pietro». È importante osservare che Bellarmino non si limitò ad esporre la verità, ma l’abbracciò e l’applicò nella propria vita. Questo fece di lui un santo e un precettore di altri santi, come quel San Luigi Gonzaga che incontrò e diresse al Collegio Romano.
Molti altri incarichi impegnarono il teologo sino alla fine dei suoi giorni: fu cardinale, predicatore, visitatore apostolico, inquisitore, diplomatico. Ma forse, innanzi tutto, fu visceralmente gesuita, sullo stile di Sant’Ignazio di Loyola, da quando diciottenne entrò nella Compagnia di Gesù. E lo stile ignaziano è, prima di ogni considerazione, impregnato di zelo militante e di amore fervoroso per il vero. La militanza per la verità, tra l’altro, lo portò a comporre il De ascensione mentis in Deum (Elevazione della mente a Dio), guarda caso «composto sullo schema dell’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura», che parte dalle creature e giunge a Dio (alla verità) a posteriori. Anche San Tommaso, pure mediante la proposta delle cinque vie per giungere a Dio, aveva compreso l’importanza decisiva della speculazione a posteriori. S’intravvede qui la preclusione, secoli prima, della dottrina di Kant, convinto che l’unico percorso scientifico alla verità potesse avvenire solo a priori.
Canonizzato nel 1930 da Pio XI, Bellarmino fu, dallo stesso, proclamato Dottore della Chiesa nel 1931.
Galileo, suo malgrado, “tentò l’essenza”
Non c’è miglior modo di celebrare un autore se non di liberare il suo pensiero e di provare a metterlo a frutto, se non altro per evitare di fossilizzarne le dottrine. Le sentenze di un grande autore non servono per essere ripetute a pappagallo o imbalsamate, così come avvenne spesso nella vicenda storica del neo-aristotelismo rinascimentale o del neo-tomismo novecentesco. Il grande autore è un punto di partenza, non un punto d’approdo. Quanto a Bellarmino, gli toccò in sorte l’incontro-scontro con il genio di Galileo Galilei e vale ora la pena di approfondire un aspetto, relativo alla vicenda, finora ritenuto secondario.
È sorprendente – se non del tutto illogico – che la polemica tra Galileo e l’autorità religiosa del suo tempo si sia cristallizzata sul tema, tutto sommato secondario, della teoria eliocentrica copernicana condivisa dallo scienziato pisano. Il caso coinvolse un Galileo già anziano e condannato quando Bellarmino era già morto. Il contendere, semmai, avrebbe dovuto innescarsi molto prima e su tutt’altra materia: da quando, precisamente, un Galileo giovane ebbe a priori l’intuizione tremenda ed epocale attorno alla sostanza delle cose. Galileo dimostrò a posteriori questa sua intuizione – mediante l’esperimento e al modo che sarebbe piaciuto a Tommaso, Bonaventura e Bellarmino – secondo cui la quantità, il numero, l’ordine o la misura non sono accidenti, ma sono parte inseparabile della sostanza, dell’essenza delle cose. Dopo un millennio e mezzo, cioè, Aristotele veniva corretto da uno scienziato pisano, che spostava la quantità dall’elenco degli accidenti e la inseriva direttamente nell’essenza.
È sorprendente che nessuno ebbe una percezione chiara di ciò. Non Bellarmino, non gli aristotelici e nemmeno lo stesso Galileo, che ritenne un’«impresa impossibile» il «tentar l’essenza», ovvero speculare sul mondo al modo degli aristotelici, i quali si accontentavano di alcuni giudizi letti sui libri, invece di accedere alla realtà mediante l’esperimento sui fenomeni. Paradossalmente, quindi, Galileo fu anti-essenzialista e convinto fenomenologo, dopo essersi pronunciato genialmente, consapevole o meno, proprio sull’essenza.
È sorprendente – se non del tutto illogico – che la polemica tra Galileo e l’autorità religiosa del suo tempo si sia cristallizzata sul tema, tutto sommato secondario, della teoria eliocentrica copernicana condivisa dallo scienziato pisano. Il caso coinvolse un Galileo già anziano e condannato quando Bellarmino era già morto. Il contendere, semmai, avrebbe dovuto innescarsi molto prima e su tutt’altra materia: da quando, precisamente, un Galileo giovane ebbe a priori l’intuizione tremenda ed epocale attorno alla sostanza delle cose. Galileo dimostrò a posteriori questa sua intuizione – mediante l’esperimento e al modo che sarebbe piaciuto a Tommaso, Bonaventura e Bellarmino – secondo cui la quantità, il numero, l’ordine o la misura non sono accidenti, ma sono parte inseparabile della sostanza, dell’essenza delle cose. Dopo un millennio e mezzo, cioè, Aristotele veniva corretto da uno scienziato pisano, che spostava la quantità dall’elenco degli accidenti e la inseriva direttamente nell’essenza.
È sorprendente che nessuno ebbe una percezione chiara di ciò. Non Bellarmino, non gli aristotelici e nemmeno lo stesso Galileo, che ritenne un’«impresa impossibile» il «tentar l’essenza», ovvero speculare sul mondo al modo degli aristotelici, i quali si accontentavano di alcuni giudizi letti sui libri, invece di accedere alla realtà mediante l’esperimento sui fenomeni. Paradossalmente, quindi, Galileo fu anti-essenzialista e convinto fenomenologo, dopo essersi pronunciato genialmente, consapevole o meno, proprio sull’essenza.
L’Eucaristia sembra sconfessare la scienza
Cosa c’entra Bellarmino e la teologia in tutto questo? In che misura il gesuita e Galileo furono al servizio della verità? Ci fu qualcuno, in effetti, a cui non sfuggì la singolare relazione che Galileo poneva tra sostanza e accidenti. Si tratta del gesuita, matematico e architetto Orazio Grassi che, in un suo resoconto, scrive: Galileo «erra dicendo che non è possibile separare concettualmente dalle sostanze corporee gli accidenti che le modificano, come la quantità». Secondo il Grassi, «la quantità non soltanto si distingue realmente dalla sua sostanza, ma esiste anche separata da esse». Prova ne sarebbe l’Eucaristia: durante la transustanziazione l’intera sostanza del pane è sostituita dalla sostanza divina, ma restano gli accidenti del pane e del vino, che comprendono appunto il peso e la misura.
Grassi trae l’autorità di questi suoi giudizi direttamente dai canoni del Concilio di Trento e dalla dottrina di Roberto Bellarmino. Nel De sacramento Eucharistiae, Bellarmino conferma la transustanziazione. E spiega che quando Gesù dice «questo è il mio corpo», l’aggettivo dimostrativo «questo» designa proprio la sostanza. Il Dottore, però, specifiche che le specie eucaristiche che permangono – il bianco e tondo dell’ostia consacrata – non fanno parte della sostanza, ma «designano la quantità» che rimane. Sembrerebbe dunque che in nessun modo la quantità possa far parte della sostanza, nonostante Galileo e nonostante la chimica dei secoli successivi, che dimostra in modo efficacissimo l’intima struttura matematica delle cose. Come dunque risolvere la questione?
Grassi trae l’autorità di questi suoi giudizi direttamente dai canoni del Concilio di Trento e dalla dottrina di Roberto Bellarmino. Nel De sacramento Eucharistiae, Bellarmino conferma la transustanziazione. E spiega che quando Gesù dice «questo è il mio corpo», l’aggettivo dimostrativo «questo» designa proprio la sostanza. Il Dottore, però, specifiche che le specie eucaristiche che permangono – il bianco e tondo dell’ostia consacrata – non fanno parte della sostanza, ma «designano la quantità» che rimane. Sembrerebbe dunque che in nessun modo la quantità possa far parte della sostanza, nonostante Galileo e nonostante la chimica dei secoli successivi, che dimostra in modo efficacissimo l’intima struttura matematica delle cose. Come dunque risolvere la questione?
La sostanza è unione di quattro ragioni
La via d’uscita la offre lo stesso Bellarmino, nel già menzionato De ascensione mentis in Deum. È Aristotele stesso a dire che ogni effetto è il risultato di quattro cause. Tutto ciò che veramente importa – afferma Bellarmino all’inizio dell’opera – è non cercare nulla se non «quattro comuni cagioni: chi sia l’Autore di me; di che materia m’habbia fatto; qual forma dato; et a qual fine creato». Se dunque ogni ente creato è l’effetto di una quadruplice causa creatrice, la sostanza non può non dipendere dalla materia (causa materiale), dalla forma (causa formale), dal creatore (causa efficiente) e dal perché quell’ente è fatto così (causa finale). Galileo ha ragione quando sostiene l’importanza del linguaggio matematico con il quale è stato scritto il cosmo, ma ha torto quando ritiene che tale linguaggio esaurisca la spiegazione del reale.
Allo stesso modo, Bellarmino con ragione difende la verità sull’Eucaristia e dice che le specie eucaristiche – geometriche e pesanti – non sono che accidenti. Non tiene conto però che sono accidenti perché è crollata la sostanza del pane, che è unione di numero, forma, potenza e significato. Sono allora quattro le ragioni della sostanza, che sottendono alla quadruplice domanda di Bellarmino: Quanto? Come? Chi? Perché? Se così non fosse l’uomo, che conosce primariamente per mezzo dei sensi, non avrebbe un accesso reale e diretto all’ente e alla sua sostanza, ma si arresterebbe alla conoscenza del fenomeno (materia e forma), ossia del fantasma delle cose. È, invece, più prossimo al tomismo il ritenere che l’uomo abbia accesso diretto alla verità della sostanza, in modo sensibile attraverso il fenomeno e in modo intelligibile attraverso la potenza e il significato, irraggiungibili dal senso, ma superiori al numero quanto l’anima è superiore al corpo.
Allo stesso modo, Bellarmino con ragione difende la verità sull’Eucaristia e dice che le specie eucaristiche – geometriche e pesanti – non sono che accidenti. Non tiene conto però che sono accidenti perché è crollata la sostanza del pane, che è unione di numero, forma, potenza e significato. Sono allora quattro le ragioni della sostanza, che sottendono alla quadruplice domanda di Bellarmino: Quanto? Come? Chi? Perché? Se così non fosse l’uomo, che conosce primariamente per mezzo dei sensi, non avrebbe un accesso reale e diretto all’ente e alla sua sostanza, ma si arresterebbe alla conoscenza del fenomeno (materia e forma), ossia del fantasma delle cose. È, invece, più prossimo al tomismo il ritenere che l’uomo abbia accesso diretto alla verità della sostanza, in modo sensibile attraverso il fenomeno e in modo intelligibile attraverso la potenza e il significato, irraggiungibili dal senso, ma superiori al numero quanto l’anima è superiore al corpo.
di Silvio Brachetta.
Fonte: Vita Nuova Trieste
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