( di Cristina Siccardi) I santi sono santi, i miti sono miti. Due realtà ben distinte. I santi, sul modello di Gesù Cristo, vivono esercitando le virtù eroiche, teologali e cardinali, e muoiono in grazia di Dio. Tradizionalmente la Chiesa innalzava all’onore degli altari una persona dopo un serio processo, perché questa aveva offerto un’importante testimonianza di Fede e poteva così divenire modello per i credenti ed essere motivo di conversione per altri.
Le persone mitizzate, invece, polarizzando le aspirazioni di una comunità oppure di un’ideologia o di un’epoca, vengono elette a loro simbolo privilegiato. Chi mai potrà inginocchiarsi in chiesa per pregare davanti ad un altare dedicato ad un mito? È ciò che sta accadendo in questi tempi apostatici.
La scorsa settimana avevamo trattato la figura di Giorgio La Pira, dal 5 luglio scorso dichiarato venerabile da Papa Francesco: un politico del Novecento che si colloca all’interno di un cattolicesimo liberale, modernista, progressista, socialmente solidale (la solidarietà è tutt’altra cosa rispetto alla carità cristiana), avendo, come priorità, non il Regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, bensì il dialogo ad ogni costo con il mondo, il pacifismo globale e l’ecumenismo.
È chiaro che la Chiesa governata dall’attuale Pontefice oggi dà spazio privilegiato a questa tipologia di personalità, ne è riprova il recente incarico, ricevuto dal Postulatore generale dei Domenicani, Padre Gianni Festa, di occuparsi del processo di beatificazione di Aldo Moro, ora in fase iniziale.«Credo che la figura di Aldo Moro possa risplendere nel panorama della santità come il santo ‘politico’, o il santo della politica», ha dichiarato Padre Festa il 9 luglio u.s. durante un’intervista rilasciata a Tg2000 (telegiornale di Tv2000 della Conferenza Episcopale Italiana). «La causa della beatificazione di Aldo Moro», ha ancora detto, «è stata affidata recentemente all’Ordine dei Domenicani in quanto Aldo Moro era un laico domenicano, un terziario domenicano, come ci si esprimeva allora […] Non dimentichiamo poi che Aldo Moro e altri noti personaggi del dopoguerra, La Pira, Lazzati, Dossetti, Giordani, sono stati discepoli e figli spirituali di Paolo VI».
I nomi citati dal postulatore domenicano sono miti, secondo l’accezione poc’anzi esposta e non figure di santità. La santità non è seguire un’idea passata, contemporanea, in divenire, bensì vivere in se stessi Cristo, l’Eterno Figlio del Padre.
Aldo Moro nasce a Maglie (Lecce) il 23 settembre 1916 e muore a Roma, assassinato dalle Brigate Rosse, il 9 maggio 1978. Politico, accademico, giurista, è stato tra i fondatori della Democrazia Cristiana; suo rappresentante alla Costituente, ne divenne segretario nel 1959 e presidente nel 1976.
Fu più volte ministro; cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri, guidò governi di centro-sinistra (1963-1968), promuovendo nel periodo 1974-1976 la strategia delle “parallele convergenti”, in base alla quale intendeva giustificare il cosiddetto “compromesso storico”, vale a dire l’alleanza strategica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano: due partiti che si basavano su valori che non avevano nessun punto in comune (“parallele”), ma che, in nome della gestione del potere avrebbero potuto formare un Governo insieme (“convergenti”); quanto questo sia conciliabile con l’eternità del vero e dei principi professata dal cattolicesimo può giudicarlo chiunque!
Si laureò alla Facoltà di Giurisprudenza di Bari, sotto la guida del Professor Biagio Petrocelli, con una tesi su La capacità giuridica penale. Nel 1939 pubblicò la tesi e ottenne la docenza in filosofia del diritto e di politica coloniale alla stessa Università nel 1941; in seguito ebbe la cattedra di diritto penale.
Nel 1935 entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana di Bari e nel luglio 1939 venne scelto, su consiglio di Monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, che resterà sempre suo amico, Presidente dell’Associazione, e proprio in quel tempo entrò a far parte dei terziari di San Domenico.
Nel 1942 fu chiamato alle armi, prima come ufficiale di fanteria, poi come commissario nell’aeronautica. Nel 1943 fondò a Bari il periodico La Rassegna, che uscì fino al 1945 e nel luglio dello stesso anno prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli (documento programmatico stilato in Italia nel luglio 1943 da un gruppo di intellettuali della Democrazia Cristiana).
Nel settembre del 1942, Aldo Moro si incontrò clandestinamente, con altri esponenti del movimento cattolico, nella casa dell’imprenditore milanese Giorgio Enrico Falck. Erano presenti: Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Attilio Piccioni, Giovanni Gronchi, provenienti dal disciolto Partito Popolare Italiano di Don Sturzo; Giulio Andreotti dell’Azione Cattolica; Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti e Paolo Emilio Taviani della FUCI. Il 19 marzo 1943, il gruppo si riunì a Roma per discutere e approvare il documento, redatto da De Gasperi, Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, considerato l’atto di fondazione ufficiale del partito.
Fin dal principio, Moro mostrò la sua tendenza democratico-sociale, aderendo alla linea di Dossetti, nota come la “sinistra DC”. Nel 1945 prese la direzione della rivista Studium e fu eletto presidente del “Movimento laureati di azione cattolica”, fondato nel 1932 da Igino Righetti. Sempre nel 1945 sposò Eleonora Chiavarelli (1915–2010) ed ebbero quattro figli: Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni.
Dopo la parentesi del Governo Tambroni (1960), appoggiato esternamente dall’MSI, Moro e Fanfani guidarono il Congresso nazionale della DC del 1962, che giunse ad approvare la collaborazione del partito con i socialisti, così, nel quarto Governo Fanfani di quell’anno, coabitarono DC-PSDI-PRI, con l’appoggio esterno del PSI.
Negli anni Settanta Moro sostenne la necessità di avviare governi di “solidarietà nazionale”, con una base parlamentare più ampia, comprendente anche il Partito comunista. Le polemiche non mancarono, a livello sia nazionale che internazionale (fortemente contrari erano sia gli Stai Uniti che l’Unione Sovietica): fu accusato, con ragione, di essere protagonista di un secondo “compromesso storico”, più eclatante di quello con Nenni, in quanto si voleva un’esperienza di collaborazione di Governo con il PCI di Enrico Berlinguer.
All’inizio del 1978, all’epoca Presidente della Democrazia Cristiana, Moro proponeva un Governo dove anche il PCI facesse parte della maggioranza, senza una presenza di ministri comunisti in una prima fase. Il 16 marzo, giorno della presentazione del nuovo Governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti, un commando delle Brigate Rosse assaltò la Fiat 130, che stava trasportando Aldo Moro alla Camera dei deputati, all’incrocio tra via Mario Fani e via Stresa. Furono uccisi i cinque uomini della scorta e sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana.
Dopo una prigionia, durata 55 giorni, nel covo di via Camillo Montalcini 8 a Roma, le Brigate Rosse assassinarono Moro in una Renault 4 rossa, poi ritrovata dalle forze armate in via Caetani il giorno dell’omicidio, il 9 maggio, via simbolica, perché adiacente sia a piazza del Gesù (dove si trovava la sede nazionale della DC), sia a via delle Botteghe Oscure (dove si trovava la sede nazionale del PCI).
Papa Paolo VI, il 13 maggio, officiò una solenne commemorazione funebre pubblica per la scomparsa del leader democristiano, a cui parteciparono molte personalità politiche d’Italia: la cerimonia venne celebrata senza la salma per volontà della famiglia Moro, che non vi partecipò, poiché riteneva che lo Stato non avesse fatto abbastanza o proprio nulla per salvare la vita del congiunto. Rifiutato il funerale di Stato e la cerimonia di Paolo VI, la famiglia volle le esequie a porte chiuse nella chiesa di San Tommaso di Torrita Tiberina, piccolo paese della provincia romana, dove è tuttora sepolto il politico.
È chiaro che per un certo mondo di sinistra, laico, cattolico-liberale, Aldo Moro è divenuto un eroe. Ma la santificazione laica, ovvero l’esaltazione di un eroe-mito per un gruppo di persone circoscritto, non può essere criterio di esame e di valutazione della santificazione all’interno della Chiesa universale.
Il pensiero filosofico politico di Aldo Moro, che parte dall’attuazione del ruolo laico del cristiano all’interno della prassi politico-democratica, si distanzia in maniera plastica dalla concezione del Regno Sociale di Cristo Nostro Signore.
Le sue fondamenta teologiche poggiano sul personalismo filosofico, applicato al vivere civile. Danilo Campanella considera quella di Moro una “teologia della politica”, dove il dialogo, il pluralismo, il relativismo venivano ad essere parte integrante dell’essere e dell’agire dell’uomo politico cristiano, chiamato, secondo Moro, a incarnare la democrazia (cfr. Danilo Campanella, Critica liberale, dicembre 2014, Democrazia partecipativa e democrazia tutorale, in n. 13, 1 dicembre 2014, ISSN 2284-4740, p. 21): il cristiano, nell’impianto teologico-politico moroteo, è tale solo in quanto partecipante alla vita politica.
Angelo Schillaci, nel suo studio, Persona ed esperienza giuridica nel pensiero di Aldo Moro (Aracne Editrice, Roma 2010), individua le radici della filosofia del diritto nel pensiero di Moro che rimandano ad autori del personalismo quali Emmanuel Mounier (1905-1950) e Jacques Maritain (1882-1973), riferimenti anche di Giorgio La Pira.
Ecco perché non ci stupisce affatto che Moro usi parole laiche e non dettate dalla fede, dalla speranza, dalla carità nelle sue lettere – come invece accade leggendo mirabili missive e memorie dal carcere di martiri e santi che hanno perdonato, e spesso ringraziato, delatori, aguzzini o persone che avrebbero potuto intercedere e non l’hanno fatto – indirizzate ai familiari e alla dirigenza della Democrazia Cristiana: a Benigno Zaccagnini, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Riccardo Misasi… oltre al socialista Bettino Craxi, il maggiore sostenitore della necessità di trattare per salvare il sequestrato.
Nelle lettere dalla “prigione del popolo” traspare un animo esacerbato e privo di uno sguardo soprannaturale e, soprattutto, un attaccamento alla vita terrena incompatibile con la santità, che è, essenzialmente, aspirazione al Paradiso ed all’amore di Dio; si possono confrontare, a contrario, le lettere dal carcere di san Tommaso Moro (1478-1535), scritte in attesa di subire il martirio.
Leggiamo, ad esempio, nella lettera del politico democristiano alla moglie, recapitata l’8 aprile 1978: «Nel risvolto del “Giorno” ho visto con dolore ripreso dal solito Zizola un riferimento dell’Osservatore Romano (Levi). In sostanza: no al ricatto. Con ciò la S. Sede, espressa da questo Sig. Levi, e modificando precedenti posizioni, smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, domani donne e bambini a cadere vittime per non consentire il ricatto. È una cosa orribile, indegna della S. Sede. […] Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? […] Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro». (Cristina Siccardi)
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