C’è un gran fremito nel mondo cattolico attorno alla cosiddetta Opzione Benedetto, lanciata dal libro omonimo di Rod Dreher, autore statunitense da qualche giorno in tournée italiana. C’è un gran rincorrere di citazioni, che vanno da Ratzinger 1969 con il richiamo alle “piccole comunità creative” sino al filosofo scozzese Alasdair McIntyre, che nel 1981 citò espressamente la scelta (opzione) di San Benedetto nel saggio Dopo la virtù (After virtue).
Per fare un po’ di chiarezza, considerando l’agitazione emotiva, la febbrile attesa di questi tempi, la frenesia della prassi spesso mutuata da un cripto-marxismo sotteso a una subalternità culturale, credo sia opportuno ritornare alla riflessione sulla natura di quel famoso saggio del filosofo scozzese. Come accade sovente, il cattolico impara degli slogan o delle frasi efficaci a memoria senza preoccuparsi di studiare a fondo l’autore. Ciò si è evidenziato con Chesterton: ricordiamo, per esempio, le famose “spade sguainate per dimostrare che due più due fa quattro e che le foglie sono verdi d’estate” estrapolate dal saggio Eretici senza alcuna considerazione dottrinale sulla verità e l’eresia cui facevano riferimento; o, ancora, “il mondo è pieno di verità impazzite”, anziché “Virtù”, come lo scrittore inglese aveva descritto in Ortodossia. Alle citazioni, anche riportate in modo erroneo, non sono mancate le storpiature di senso, il cercare di trascinare l’autore in un campo “ecclesiologicamente o politicamente corretto”, com’è capitato a Giovannino Guareschi e al suo grandioso “Mondo piccolo”, messo a confronto senza pudore con le “robe minime” di Jannacci.
Anche quest’ultima operazione di sdoganare Dreher e l’Opzione Benedetto senza il corretto riferimento al concetto originale elaborato da McIntyre ha il sapore del trinariciutismo, di chi cerca di rincorrere il consenso, magari proponendosi come reale alternativa alla crisi fuori e dentro la Chiesa, versando però, come descriveva Guareschi, il cervello all’ammasso. Cerchiamo quindi di fare alcune considerazioni oggettive sull’opera del pensatore scozzese.
Innanzitutto, come recita il sottotitolo della sua opera (“A study in moral theory”), si tratta di un saggio di teoria morale. Lo scrittore e docente ancora vivente, classe 1929, originario di Glasgow, intendeva far riflettere, come ha scritto un quarto di secolo dopo la pubblicazione del saggio, sul significato della perdita dell’unità delle virtù (dianoetiche ed etiche): “I cosiddetti principi morali erano originariamente inseriti in un contesto di credenze pratiche e di modalità consolidate di pensare, sentire e agire, che li rendevano comprensibili; tale contesto, ove i giudizi morali trovavano il loro senso in riferimento a criteri impersonali giustificati da una concezione condivisa del bene umano, è andato perduto”.
Ricordiamo che McIntyre, quando scrisse Dopo la virtù, come ha espressamente riferito, era già un pensatore aristotelico, ma non ancora tomista: “Sono diventato tomista dopo aver scritto quel saggio, in parte perché mi sono convinto che l’Aquinate era per certi versi più aristotelico di Aristotele: non soltanto era un eccellente interprete dei testi del filosofo greco, ma era stato in grado di estendere e approfondire le ricerche metafisiche e morali del proprio maestro”.
Credo che si possa cogliere, già da queste brevi considerazioni, la profondità di pensiero del grande filosofo scozzese. Sentire, come mi è capitato di udire, da uno dei propugnatori dell’Opzione Benedetto nella versione spumeggiante e attualizzata di Dreher, che McIntyre sia un po’ geloso o addirittura invidioso del successo di Rod, mi è sembrato talmente risibile e culturalmente fuorviante, da veder naufragare sin dall’inizio di questa operazione la zattera (per usare un simbolo della filosofia classica) dei superstiti e presunti animatori della rinascita cristiana.
Questi ultimi vorrebbero veicolare l’idea che solo le buone prassi di piccole comunità costituirebbero il modello odierno di quello che fu la straordinaria opera di San Benedetto; aggiungo un’ulteriore riflessione di McIntyre: “Pratiche, tradizioni, e tutto il resto possono funzionare, come di fatto funzionano, solamente in quanto gli uomini hanno un fine verso il quale muovono in ragione della loro natura specifica”. Il filosofo scozzese faceva riferimento alla dottrina del bene, rinvenibile nella quinta Quaestio della prima parte della Summa Theologica. L’onestà intellettuale di McIntyre, oltre ad aver riconosciuto nello sviluppo del suo pensiero il contributo illuminante di San Tommaso d’Aquino, ha dovuto subire numerose accuse, come da lui stesso elencato: “Sono stato accusato di nostalgia per un passato che avrei idealizzato: questo perché la mia comprensione della tradizione delle virtù muove dall’interno della polis greca e perché ho indicato nell’Europa del Medioevo l’ambiente nel quale quella tradizione è potuta maturare”.
McIntyre ha insistito parecchio sulla comprensione della “tradizione delle virtù” come “tradizione aristotelica-tomista” in quanto, attenzione, “tradizione di ricerca”: “Le tradizioni di ricerca si contraddistinguono perché ritengono che il nucleo delle loro tesi sia vero e le loro argomentazioni di fondo siano corrette”. Il filosofo scozzese ha quindi inteso comprendere la situazione di grave disordine etico contemporanea attraverso la luce della filosofia della tradizione aristotelico-tomista: “Io sono rimasto dell’idea che si possa comprendere la genesi e la situazione di stallo della modernità morale soltanto a partire dal punto di vista di una tradizione differente, di cui Aristotele ha raccolto e analizzato credenze e presupposti, elaborandoli teoricamente nella sua ben nota teoria classica”.
Arriviamo quindi, date queste, seppur brevi, necessarie premesse, all’ultima frase del saggio Dopo la virtù, sovente citata: “Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso”. Cosa realmente attendeva Alasdair McIntyre? Ecco cosa scriveva in merito: “La grandezza di Benedetto sta nell’aver reso possibile l’istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale e culturale. Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro ricaduta istituzionale, grazie a quanti in modi diversi hanno seguito la sua regola, erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Quando scrissi quella frase conclusiva, era mia intenzione di suggerire che la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata”.
“Dopo la virtù” non è altro, secondo McIntyre, che l’esito di un processo storico secolaristico, ossia di espulsione di Dio e della regalità di Cristo dalla vita dell’uomo, che ha portato dalla comprensione dell’unità delle virtù alla rottura di quest’unità, fino all’isolamento e al naturale depotenziamento della singola virtù. Anche Chesterton, in Ortodossia, come abbiamo precedentemente richiamato, ha fatto vedere la drammaticità di questo esito: “Il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite che vagano scisse fra loro ed allora si coltiva la verità senza la carità o la carità senza la verità”. Il sensazionale romanzo dell’ortodossia in Chesterton non era contrapposto o subordinato a quella che viene oggi chiamata ortoprassi; anzi, le dottrine e i dogmi sostenevano l’agire morale: “Le dottrine devono essere definite entro limiti rigorosi, anche perché l’uomo possa godere delle generali libertà umane…Taluni hanno preso l’abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono. Non c’è, invece, niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza, e l’esser saggi è più drammatico che l’esser pazzi”.
Entrambi, Chesterton e McIntyre, pur partendo da ragionamenti e credi diversi erano arrivati, dal punto di vista etico, alla medesima conclusione: l’impossibilità di sostenere una singola virtù così svilita e depotenziata, poiché scissa, separata dalle altre. McIntyre aveva presentato questo quadro scomposto attraverso un’ipotesi inquietante che vedeva nella modernità: “Abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica, della morale”. Chesterton inquadrava questo sconvolgimento etico in un orizzonte dottrinale e metafisico: “È facile esser pazzi, è facile essere eretici: è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa; è sempre facile essere modernisti… nella mia visione il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate e l’augusta verità oscilla ma resta in piedi”.
Se McIntyre ha evocato un possibile altro Benedetto, Chesterton ha richiamato il dovere della Chiesa a essere fedele a se stessa. Coloro che oggigiorno pretendono la responsabilità dei laici, dimenticando gli obblighi della Chiesa, dovrebbero ricordarsi un’altra frase di Chesterton poco citata: “La Chiesa deve avere tutte le cure affinché il mondo possa essere senza cura”. Il richiamo all’opzione Benedetto dovrebbe sollecitare infatti maggior cura all’ortodossia, alla dottrina, al dogma e soprattutto non contrapporli o subordinarli all’ortoprassi. Questo collasso del pensiero, questa incapacità di definire le dottrine producono una cattiva prassi e una perdita anche della capacità di comprensione, come ammoniva McIntyre: “Siamo giunti a un punto in cui non ci rendiamo più conto della catastrofe che abbiamo subito”.
Non possiamo, infine, prescindere dal pensiero di McIntyre nel ragionare attorno alle possibilità di un’opzione Benedetto, né possiamo tralasciare Chesterton nel richiamare i compiti dei laici e i doveri della vera Chiesa.
– di Fabio Trevisan
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