Il tempo delle parole e il tempo dei fatti
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All’incontro erano presenti il cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale Usa, e il cardinale Sean O’Malley di Boston, che è anche presidente della Pontificia commissione per la protezione dei minori.
“Non vediamo l’ora di continuare attivamente il nostro discernimento insieme, identificando i prossimi passi più efficaci”, si legge nella dichiarazione, ma non si fa cenno alla richiesta di visita apostolica avanzata giorni fa dai vescovi americani.
Il clima deve essere stato molto cordiale , almeno a giudicare dalla foto diffusa dal Vaticano, nella quale i presenti appaiono tutti sorridenti e divertiti (forse sarebbe stato meglio scegliere un’altra foto, data la drammaticità del tema al centro dell’incontro).
Il papa ha convocato tutti i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo, più di cento prelati, per un vertice che si terrà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Il provvedimento è di portata eccezionale, così come eccezionalmente grave è la crisi in corso.
Con la sua decisione Francesco intende evitare di ripetere gli errori commessi nel caso del Cile, dove la vicenda degli abusi è stata affidata per lungo tempo alla gestione, rivelatasi fallimentare, della Chiesa locale, salvo poi intervenire di persona, ma in ritardo e non senza contraddizioni.
La svolta che Francesco vuole imprimere è netta: passare da una situazione in cui il papa appare parte del problema a una in cui la sua leadership sia forte e autorevole.
Bergoglio si sta giocando molto: in ballo ci sono il suo carisma e la sua credibilità. Non è detto però che la formula del confronto assembleare con i capi delle Conferenze episcopali possa garantire i risultati auspicati. Il rischio è che alla fine si produca più o meno il solito documento, ma le parole ormai non bastano più. Inoltre febbraio sembra un po’ lontano. Certamente i vertici degli episcopati di ogni parte del mondo non si possono convocare a Roma da un giorno all’altro, ma forse una data più ravvicinata avrebbe dato un segnale più efficace.
E da qui a febbraio? Tutto resterà come prima? Nessuna risposta sul caso McCarrick? Nessuna risposta a i vescovi che, dopo il rapporto del gran giurì della Pennsylvania, hanno detto che il tempo delle parole è finito e occorrono interventi concreti, portando a galla tutto il marciume e svelando tutte le coperture e le connessioni?
La scelta di febbraio può essere dovuta anche alla necessità di dare il tempo alle Conferenze episcopali di attrezzarsi con politiche adeguate, ma allora i cinque mesi che ci separano dal vertice appaiono pochi.
Quanto alla durata dell’incontro, che dire? Davvero è pensabile che in tre giorni oltre cento prelati provenienti da situazioni tanto diverse possano confrontarsi seriamente e concludere qualcosa che non sia il solito documento pieno di buone intenzioni?
Dopo il memoriale Viganò nulla può essere più come prima. Lì ci sono accuse alle quali occorre dare risposte. La manovra iniziale, centrata sul tentativo di screditare l’ex nunzio, non sembra aver dato i risultati sperati. Quando il vescovo di Grand Rapids, David Walkowiak, dice che la testimonianza dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò deve essere investigata a fondo e attende risposte non fa che esprimere un’idea diffusa tra molti pastori.
In questo complesso quadro, il tassello rappresentato dal caso del cardinale Donald Wuerl di Washington suscita altre domande. Da più parti sono state chieste le sue dimissioni e una scuola cattolica americana ha addirittura tolto il suo nome da quello dell’istituto. Wuerl ha annunciato che presto si recherà a Roma per chiedere a Papa Francesco di accettare le sue dimissioni per raggiunti limiti di età. Il fatto è che i settantacinque anni li ha compiuti tre anni fa e allora la sua richiesta di dimissioni, inviata in Vaticano come da norma, non è masi stata accettata. Perché?
Aldo Maria Valli
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