Al via il sinodo dei giovani, col rischio del sociologismo
Il Papa apre il sinodo sui giovani che si concluderà il 28 ottobre. 250 padri siniodali e 40 giovani osservatori. Papa Francesco chiede "sogni", "speranza" e "orizzonti allargati". Ma è già evidente la scarsa attenzione dei mass media e il rischio di appiattirsi su un discorso sociologico.
Con la messa di ieri mattina in piazza San Pietro si è aperto ufficialmente il sinodo sui giovani che si concluderà il prossimo 28 ottobre in Vaticano, dopo tre lunghe settimane di dibattiti che porteranno al documento conclusivo. Sono 250 i padri sinodali, più circa 40 giovani invitati come osservatori.
Quale sarà il risultato di questo cammino sinodale? Papa Francesco ieri pomeriggio nel suo discorso all’Aula del sinodo ha detto che ci si dovrà preoccupare «di far uscire da questo Sinodo non solo un documento – che generalmente viene letto da pochi e criticato da molti –, ma soprattutto propositi pastorali concreti». Non si può dar torto al Papa sul fatto che la chiesa produca testi a volte pieni di parole, ma poveri di efficacia, soprattutto perché disattesi o addirittura non letti nemmeno da chi dovrebbe farlo.
Nell’omelia di ieri mattina e nel discorso nell’Aula ieri pomeriggio, Francesco non è entrato in qualche argomento specifico, ma ha delineato l’orizzonte verso cui chiede di andare. È un orizzonte aperto, che risponde a uno dei caposaldi del papato di Bergoglio, quello di «generare processi» e non occupare spazi. Il richiamo al discorso di apertura del Concilio Vaticano II di Papa Giovanni XXIII, un discorso pieno di ottimismo e apertura, è diretto ed evidente anche laddove non è citato.
I «sogni» e la «speranza» sono i doni che il Papa ha chiesto per i padri sinodali, così da «allargare orizzonti, dilatare il cuore e trasformare quelle strutture che oggi ci paralizzano, ci separano e ci allontanano dai giovani». E ancora: «La speranza ci interpella, ci smuove e rompe il conformismo del “si è sempre fatto così”». I padri sinodali non devono lasciarsi «soffocare e schiacciare dai profeti di calamità e di sventura né dai nostri limiti, errori e peccati».
Nel pomeriggio Francesco ha citato le parole di Giovanni XXIII dell’11 ottobre 1962 e ha quindi chiesto di non lasciarsi «tentare dalle “profezie di sventura”, non spendere energie per “contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze”, tenere fisso lo sguardo sul bene che “spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine”, e non spaventarsi “davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa”».
È chiaro quale sia l’orizzonte indicato dal Papa ai padri sinodali, sui vari temi che saranno affrontati si abbia la forza di lasciarsi mettere in discussione e superare ostacoli dettati dal «sì è sempre fatto così». In una parola: osare. Cosa questo voglia significare nelle pieghe del testo di lavoro, l’Instrumentum laboris, potremo comprenderlo meglio nei prossimi giorni.
Per quanto riguarda il metodo, Papa Francesco è tornato su altri suoi punti fermi, già indicati anche nel doppio sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015. Ha chiesto di «parlare con coraggio e parresia», perché «una critica onesta e trasparente è costruttiva e aiuta, mentre non lo fanno le chiacchiere inutili, le dicerie, le illazioni oppure i pregiudizi». Quindi, ha aggiunto, «al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare». Infine, «il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento», che «non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede».
C’è bisogno, ha concluso Francesco, «di ritrovare le ragioni della nostra speranza e soprattutto di trasmetterle ai giovani, che di speranza sono assetati». Per questo «non c’è bisogno di sofisticate argomentazioni teologiche per mostrare il nostro dovere di aiutare il mondo contemporaneo a camminare verso il regno di Dio, senza false speranze e senza vedere soltanto rovine e guai».
Il Papa così ha aperto la strada. Vedremo come, e se, i padri sinodali sapranno osare partendo da un documento di lavoro già criticato da alcuni osservatori e perfino da un vescovo come monsignor Charles Chaput di Philadelphia, il quale avrebbe addirittura voluto che questo sinodo non si tenesse. Lo scandalo degli abusi, a suo dire, rende il tutto poco credibile.
Una cosa appare già evidente, l’attenzione dei mass media generalisti è piuttosto bassa se non per rilevare appunto che il sinodo si tiene in un momento di grande difficoltà per la chiesa. Le parole sui giovani del sinodo rischiano di appiattirsi su un discorso di carattere sostanzialmente sociologico, come ha rilevato lo stesso Chaput citando le critiche di un teologo all’Instrumentum laboris. C’è, ha rilevato il vescovo di Philadelpia, «un’attenzione pervasiva su elementi socio-culturali, con l’esclusione di questioni religiose e morali più profonde».
Lorenzo Bertocchi
http://www.lanuovabq.it/it/al-via-il-sinodo-dei-giovani-col-rischio-del-sociologismo
Sinodo con rissa
Il cardinale Baldisseri polemizza con il vescovo di Filadelfia Chaput. “Il clima non è buono, diciamo”
Io che in sala stampa vaticana non ci posso andare mi sono visto il video e poi mi sono fatto raccontare quel che è accaduto lunedì, con il nervoso cardinale Lorenzo Baldisseri, pianista di discreto livello che gli amici (in sua presenza) paragonano a Mozart per farlo contento,chiamato a rintuzzare le polemiche di autorevoli padri sinodali sul modus operandi con il quale si svolgerà per l’appunto il Sinodo. “Ce l’aveva con l’americano Chaput, vescovo di Filadelfia schieratissimo a destra e non proprio in sintonia col Papa”, mi dice un cardinale italiano mentre attraversa il sagrato per andare a pranzo.
E’ normale, gli domando, che un cardinale si metta a far polemica con un vescovo davanti ai giornalisti? “Sa, c’è tensione. Il clima non è buono. C’è questo Sinodo che durerà un mese, con un ordine del giorno che pare un vocabolario tanti sono i temi che dovremo affrontare. Nessuno sa dove s’andrà a parare. L’altra settimana un vescovo mi diceva: ‘Stai a vedere che si parlerà del celibato’. E io gli ho risposto: ‘E perché si dovrebbe parlare del celibato in un Sinodo sui giovani?’. Lui mi ha risposto che dentro la parolina ‘vocazione’ ci si può far rientrare tutto, e ha ragione. Non lo so, tanto avremo tempo per capirlo. C’è un poco di confusione”. E che ci sia confusione lo dimostra anche il pastorale con cui il Papa ha presieduto la messa ieri mattina in piazza: più che una croce sembrava un pezzo di ramo secco che si trova tra le sterpaglie in via della Magliana. Richiamo il vescovo e gli mando la foto del pastorale: “Vuole che non l’abbiamo notato? Direi che era strano. Non mi faccia aggiungere altro”.
Addio amati vizi
Le cattive abitudini sono diventate mainstream e il mondo della moda è molto più noioso
"Rendere chic il vizio è stato un errore tremendo da un punto di vista morale". Ad affermarlo non è stato Papa Francesco, ma Joni Mitchell, in un’intervista del 2008, dimostrando di avere a cuore il destino delle generazioni di ragazzi occidentali cresciuti all’ombra dei vizi delle celebrità senza mai averne uno che fosse realmente personale.
Quella che può sembrare un’osservazione un po’ bigotta, in realtà rivela agli occhi del lettore più attento degli elementi di incontrovertibile verità, soprattutto se pensiamo agli effetti che questa assimilazione del vizio (e, più in generale, dell’idea dell’artista maledetto) ha avuto sulle industrie dello spettacolo e della moda. Quello che un tempo era pubblicamente proibito e goduto in privato, oggi è sbandierato come selling point o trampolino di lancio per una sfavillante carriera. Le stesse gloriose cattive abitudini per cui un tempo ti menavano per strada, sono tristemente ridotte a esche pubblicitarie per un pubblico prepuberale.
La dimostrazione più evidente di questa deriva sono i rapper più giovani, che hanno svuotato di ogni senso il vizio facendone un’ostentazione gridata, ripetitiva e – in fin dei conti – mostruosamente noiosa. Prendiamo il caso di Lil Xan, rapper ventiduenne americano il cui entusiasmo (recentemente rinnegato) per lo Xanax ha abbandonato l’innocente freschezza della farmacomania per trasformarsi in un endorsement a una casa farmaceutica, con tanto di tatuaggio dedicato sulla fronte. Più che un artista maledetto, Lil Xan è la versione musicale di un’auto della Nascar. Un’auto che, stando alle sue ultime dichiarazioni, vorrebbe rivedere i termini della sua partnership col suo sponsor principale.
Di quanto fosse stupido e controproducente lo sfoggio del vizio se ne era accorto anche il punk statunitense Johnny Thunders che, negli anni Settanta, rideva dei suoi omologhi inglesi dai guardaroba troppo appariscenti. Quando questi poveri fessi dalle creste rosa sbarcavano a New York, infatti, finivano sempre schiantati di mazzate in qualche vicolo buio: se vuoi procurarti della droga senza ritrovarti in una pozza del tuo sangue, è meglio puntare su un look minimale. E le discrete mise del mio adorato Johnny sono l’esempio da seguire.
L’aver ridotto il vizio a un banalissimo gimmick commerciale ha avuto degli effetti disastrosi soprattutto sul mondo della moda. Non è certo un segreto il fatto che al giorno d’oggi il gotha del fashion non è più un club riservato a vecchie frocie contorte, ma una spa in cui a farla da padroni sono dei maschi etero che bevono estratti di zenzero e seguono delle rigorose diete proteiche: Virgil Abloh per Louis Vuitton, Pierpaolo Piccioli per Valentino o il mio adorato Christophe Lemaire con il suo marchio personale sono solo i primi tre esempi che mi saltano in mente, ma la lista potrebbe continuare a lungo. Sono loro a intuire e plasmare le innovazioni più affascinanti e a farsene interpreti. Per fortuna.
L’establishment della moda internazionale, infatti, ha ormai sfrattato i veri viziosi che l’hanno reso grande per far spazio a una politica fondata sulla creazione di simulacri di vizio, pupazzi senza storia che vengono ricoperti di accessori che richiamano l’idea del vizio senza mai metterla realmente in pratica. E’ una tendenza che lo stilista Claude Montana – con la sua solita preveggenza – aveva già annusato negli anni Ottanta, quando i maschi eterosessuali erano ancora rigorosamente banditi dal mondo del fashion. A suo parere, la moda avrebbe presto perso centralità e avrebbe ceduto il posto alla cultura dell’accessorio firmato. Niente più profonde riflessioni su tagli e tessuti, ma solo interminabili riunioni durante le quali decidere su quante insulse borsette e orridi cappellini è possibile stampare un marchio di prestigio, in modo da rendere l’eleganza (o, meglio, il suo riflesso sbiadito) accessibile a tutte le tasche.
Che un uomo difficile come Montana, omosessuale dichiarato ma sposato per pura convenienza con la sua musa e modella Wallis Franken (suicidatasi dopo tre anni di matrimonio), sia inviso all’establishment non è una sorpresa, ma questa sanitizzazione dell’immaginario collettivo va ben oltre. Il sistema, ormai, ha fatto piazza pulita anche delle dive farmacomani che hanno costruito il mito di Hollywood e quello di Broadway. Oggi il mondo non ha più spazio per stelle sfolgoranti come Liz Taylor, Liza Minnelli o sua madre Judy Garland: che un’attrice salti una settimana di riprese perché è rinchiusa a far bisboccia nella suite di un albergo a cinque stelle è semplicemente impensabile.
Anche le dee sono costrette a regimi alimentari e comportamentali che un tempo si pretendevano solo dagli atleti e dai carcerati e, per una Liz Taylor che cade nel dimenticatoio, c’è già una Gwyneth Paltrow pronta a prendere indegnamente il suo posto. Peccato che ai sontuosi cocktail di farmaci di Liz, la stitica Gwyneth possa controbattere solo con tanto yoga, dei gran clisteri e una dieta da 300 calorie al giorno.
Direi che, nel cambio, abbiamo tutti perso qualcosa.
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