Se la verità non ha più importanza, che cosa ne ha? Oggi affermare che la verità esiste presenta inconvenienti: implica la fatica di cercarla (e riconoscerla) e presuppone la scelta di mettersi contro l’intera cultura dominante
di Francesco Lamendola
Lo abbiamo già detto, a noi è toccato in sorte di vivere al tempo della post-verità: quando si può dire impunemente tutto e il contrario di tutto, tanto il risultato è lo stesso ed è sempre a somma zero. Quel che conta, oggi, non è dire la verità, ma dire qualcosa che resti impresso, qualcosa che faccia colpo, qualcosa che sia fruibile e spendibile come un prodotto pre-confezionato, usa-e-getta, a disposizione del cittadino-consumatore del terzo millennio. Al cittadino-consumatore non importa affatto sapere qual è la verità, e perfino se c’è la verità; a lui basta avere la propria verità, perché gli è stato insegnato, fin da quando succhiava il latte materno, che ciascuno ha diritto alla sua verità, e chi siamo noi per giudicare gli altri? Quindi, se uno vuol dire che una torta è una merda, e una merda è una torta, chi siamo noi per affermare che costui si sbaglia, che costui mente, che costui non dice le cose come stanno? Noi non siamo nessuno. Nessuno, infatti, può dire di aver la verità in tasca: sarebbe un atto d’insopportabile presunzione; un atto degno di un fascista, di un razzista, di un populista (che è, oggi, l’offesa peggiore delle tre).
Il guaio è che ci stiamo abituando; che molti di noi si sono già abituati. Si sono abituati a vivere in un mondo senza verità, dove la verità non ha più alcuna importanza. Non si chiedono più se una cosa sia vera o falsa, ma semplicemente se sia utile o no, se serva ai loro interessi oppure no. In fondo, è l’estremo approdo, ma perfettamente logico e naturale, della mentalità utilitarista e pragmatista: di quel pragmatismo filosofico che ha celebrato i suoi trionfi nell’Inghilterra del XVIII secolo, e, di lì, si è diffuso in tutto il mondo, convertendo tutti i popoli alla sua logica strumentale. E se vogliamo risalire ancora più indietro, possiamo risalire al relativismo, il cui padre spirituale è stato un altro inglese, Guglielmo di Ockham, un frate francescano vissuto fra il XIII e il XIV secolo, padre del nominalismo e, a ben guardare, di tutto l’indirizzo relativista della cultura moderna. Come si vede, la modernità muove i primi passi all’ombra della cultura tardo medievale, fra l’età di Dante e quella di Petrarca.
Se tutte le verità si equivalgono, e dunque se non c’è la verità, allora ciò che è mostruoso vale quanto ciò che è armonioso; ciò che è orrido, quanto ciò che è meraviglioso; ciò che è ingiusto, quanto ciò che è giusto; ciò che è stupido, quanto ciò che è intelligente.
Ma perché dovrebbe essere un guaio vivere in un mondo che ha relativizzato la verità? In primo luogo, osserviamo che questa è una novità assoluta nella storia del pensiero e in quella della morale. Fino a oggi, anzi, fino a ieri, tutti i popoli e tutte le generazioni hanno ritenuto che la verità sia un bene primario, che sia la condizione per la costruzione di un mondo ordinato e di ordinate relazioni sociali; e che senza di esso l’esistenza umana perderebbe di significato e scivolerebbe nel caos. Esageravano? Siamo più intelligenti noi, noi moderni, o post-moderni, noi che abbiamo eretto un tempio alla post-verità, e che in quel tempio offriamo i nostri quotidiani sacrifici? Oppure avevano capito più cose loro, erano più nel giusto loro, e siamo noi che abbiamo deviato dalla retta via, e ci stiamo smarrendo nella foresta dell’errore? Sia ben chiaro che questa non è una disputa puramente teorica: ne va della nostra dignità, della nostra libertà e della nostra stessa sopravvivenza. Se è vero che non si può vivere in un mondo che abbia voltato le spalle alla verità, allora si tratta di capire se vogliamo continuare a vivere da uomini, o se preferiamo vivere da bruti. Noi siamo dell’opinione che avessero ragione i nostri avi e che un mondo senza verità sia un mondo invivibile, una foresta popolata di mostri. Se tutte le verità si equivalgono, e dunque se non c’è la verità, allora ciò che è mostruoso vale quanto ciò che è armonioso; ciò che è orrido, quanto ciò che è meraviglioso; ciò che è ingiusto, quanto ciò che è giusto; ciò che è stupido, quanto ciò che è intelligente. Se rinunciamo all’idea che la verità esiste, e che noi, almeno fino a un certo punto, possiamo attingere alla sua sorgente, allora non ci resta che sprofondare come rane nel pantano, e gracidare stupidamente per tutto il resto della nostra misera esistenza. Un gracidio in più o in meno non farà alcuna differenza: e gracidare la Divina commedia, o la Summa teologica, o la Toccata e fuga in re minore, sarà la stessa cosa che gracidare, o grugnire, o ragliare, qualsiasi sciocchezza, volgarità o blasfemia ci venga il capriccio d’infliggere al prossimo.
Abituarsi a vivere in un mondo senza verità, o, il che è la stessa cosa, dove tutte le verità si equivalgono, anche le più opposte, implica un progressivo ottundimento della coscienza, della sensibilità, del rispetto di se stessi; significa abituarsi a qualsiasi cosa, a mandar giù qualsiasi frode, e anche abituarsi a rifilarla agli altri. Per molte persone, senza dubbio la stragrande maggioranza, questo non rappresenta un problema, semmai il contrario: una semplificazione. La vita moderna è complicata, faticosa, stressante; perciò si sente il bisogno di sbarazzarsi di qualcosa, per potersi concentrare su ciò che è più importante. L’essenziale, per tali persone, è il vestito, o il taglio dei capelli, o l’ultima puntata del Grande Fratello, a parte il lavoro e le altre necessità e i doveri della vita sociale, affrontati più o meno di malavoglia; pertanto, ciò che si può sacrificare è la facoltà del pensiero, l’esercizio di una libertà consapevole. Per costoro, libertà è scegliere un canale televisivo fra cento canali, senza chiedersi se vi è realmente una differenza fra di essi; oppure scegliere una marca di piselli surgelati o di carne in gelatina invece di un’altra, senza chiedersi cosa ci mettano dentro le multinazionali del settore alimentare. Per tali persone, non dover fare i conti con la questione della verità è un fatto positivo, una vera e propria benedizione: in ultima analisi, è scrollarsi di dosso una grossa seccatura. Dopotutto, se la libertà esiste, essa implica una responsabilità: quella di riconoscerla; e, se non la si riconosce, è probabile che ne deriveranno dei sensi di colpa, magari a livello subcosciente. Pertanto, meglio decidere, una volta per tutte, che la verità non esiste, e profittare dell’occasione per sentirsi delle persone migliori, purché si faccia passare quella affermazione per un esercizio di umiltà: chi sono io per dire cos’è la verità? E poco importa che un certo Gesù Cristo abbia detto, pochi minuti prima di essere crocifisso (Gv 18, 37): Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce; e che un certo Ponzio Pilato gli abbia replicato, senza aspettare la risposta: Che cos’è la verità?
In nome della democrazia abbiamo eretto un tempio alla post-verità, ovvero alla "Grande menzogna", ma la democrazia tende fatalmente a trasformarsi nel totalitarismo dei mediocri, dei vili e degli opportunisti; di tutti quelli che sarebbero disposti a testimoniare "che una mela è una banana, o un ananas!".
Il fatto è che la verità esiste: ha la sgradevole caratteristica di esistere, anche a dispetto di quanti la negano. La verità - scegliamo, fra tutte, la classica definizione scolastica - è l’accordo fra la cosa e il giudizio. Che una mela sia una mela, ecco la verità, come direbbe san Tommaso d’Aquino. Certo, noi possiamo anche dire che nessuno è in grado di giudicare con certezza che una mela è una mela; ma il fatto che non si trovi più, in una società come la nostra, qualcuno che sia disposto ad affermare la verità, non significa che la verità non esiste. La verità esiste anche se non c’è nessuno che la affermi. La mela è una mela, e basta guardarla, per vedere e capire che è una mela. Se, poi, nessuno lo vuole fare; se nessuno vuole compromettersi, e affermare che il giudizio: questa è una mela, è un giudizio veritiero, questo non è più un problema gnoseologico, di conoscenza, bensì un problema morale, di coraggio. Non c’è nessuno che abbia il coraggio della verità. Naturalmente, la strategia dei paurosi, quando sono in tanti, è quella di camuffare con nobili ragioni la loro vigliaccheria. Allora, invece di dire: Sì, è scomodo riconoscere e affermare la verità, essi preferiscono dire:Non si sa cosa sia la verità; chi dice di saperlo è un bugiardo; noi, che riconosciamo di non saperlo, siamo persone mature, riflessive e soprattutto rispettose della complessità del reale. Noi non giudichiamo nessuno, quindi non vogliamo imporre la nostra verità agli altri. In questo modo, prendono due piccioni con una fava: si alleggeriscono della fatica e della responsabilità di cercare e affermare la verità, e si danno da se stessi la patente di persone moderne, rispettose del pluralismo, tolleranti, aliene da ogni dogmatismo. Da ciò si capisce come sia conveniente, oggi, dire che la verità non esiste: ci si trova in buona compagnia, anzi: si ha il sostegno di tutta la cultura dominante.
Al contrario, affermare che la verità esiste presenta ben due inconvenienti: primo, implica la fatica di cercarla e riconoscerla; secondo, presuppone la scelta di mettersi contro l’intera cultura dominante, cioè di esporsi alle critiche virulente di tutti gli altri, e, probabilmente, di finire alla berlina. La verità, in altre parole, è diventata un parente povero; tutti si vergogna di lei, nessuno è disposto a riconoscerla in pubblico. Quel che pensano in privato, poi, è un altro paio di maniche. Guai, però, a dire tutto questo a voce alta: si può pensarlo, ma è proibito dirlo in pubblico; guai ad alzare il velo dell’ipocrisia. Tutti sanno che una mela è una mela e che continua ad essere una mela, e che se non si fa avanti nessuno a dichiararlo; così come tutti sanno che il re è in mutande, e che non indossa affatto un bellissimo vestito, perché non indossa proprio niente: però, come nella fiaba di Andersen, non solo non bisogna assolutamente dirlo, ma bisogna, anzi, lodare fino alle stelle la bellezza di quel vestito inesistente, e battere le mani calorosamente al passaggio del re, facendo finta che non sia in mutande, ma che sia la persona più elegante e maestosa di questo mondo. Allo stesso modo, tutti sanno che, se la società ha deciso di negare che sia lecito affermare l’esistenza del vero, è per comodità e vigliaccheria e non per una forma di rispetto dell’altro; lo sanno, ma si farebbero ammazzare piuttosto che confessarlo, perché così stabilisce e ordina la dittatura del politicamente corretto.
Affermare che la verità esiste presenta ben due inconvenienti: primo, implica la fatica di cercarla e riconoscerla; secondo, presuppone la scelta di mettersi contro l’intera cultura dominante, cioè di esporsi alle critiche virulente di tutti gli altri, e, probabilmente, di finire alla berlina.
Se la verità non ha più importanza, che cosa ne ha?
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