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venerdì 5 ottobre 2018

In colpa "per il fatto di esistere" ?

LA COLPA DI ESSERE "NORMALI"



Si deve pagare la colpa di essere normali? Vi è un’offensiva senza precedenti, con una regia occulta contro l’universo largamente maggioritario delle persone normali: lo scopo è farle sentire in colpa "per il fatto di esistere" 
di Francesco Lamendola  

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Le minoranze aggressive, interne ed esterne alla nostra società, hanno lanciato un’offensiva senza precedenti - in realtà, ispirate e manovrate dall’alto, mediante una regia occulta – contro l’universo delle persone normali, in effetti largamente maggioritario, ma sottoposto a un fuoco di fila di pressioni, di ricatti e di veti incrociati, allo scopo di farle sentire in colpa per il fatto di esistere, e di esistere così come sono, e in tal modo strappar loro quote crescenti di sovranità e di etica sociale. In altre parole, le minoranze aggressive e politicizzate vogliono riscrivere sia il nomos, sia l’ethos, e ci stanno riuscendo perfettamente, servendosi principalmente dello strumento del ricatto morale. Se una persona viene indotta a vergognarsi di esistere, di essere sfacciatamente “fortunata” a godere di vantaggi rispetto ad altre persone, vantaggi che vengono presentati assurdamente come dei privilegi, allora si può ottenere qualsiasi concessione, qualsiasi capitolazione da lei. Se si provoca in lei un senso di colpa per il fatto di avere due gambe e due braccia, nei confronti di quelli che non le hanno, o ne hanno una sola; per il fatto di avere la vista o l’udito, mentre c’è chi non ha l’uno né l’altro; o per il fatto di possedere una casa e un lavoro, mentre il suo vicino non li ha (senza andar tanto per il sottile a sviscerare se quel vicino, per caso, non ha mai avuto voglia di lavorare, ma preferisce vivere a scrocco della società), allora il gioco è fatto: quella persona sarà indotta ad accondiscendere a qualsiasi richiesta atta a risarcire l’altro per l’ingiusta situazione di vantaggio di cui gode. 

È un meccanismo psicologico simile a quello generato dal debito pubblico, ovviamente se questo viene presentato in un certo modo, cioè come una colpa individuale e collettiva: se si riesce a convincere un popolo intero che deve sentirsi in colpa perché, fino ad ora, si è preso il lusso di vivere al si sopra dei suoi mezzi, si otterrà che quel popolo si sottometta a tutte le scelte politiche del suo governo per ripagare quel debito a chi attualmente lo finanzia: e quanto più sarà forte il senso di colpa che si riesce a instillare nella gente, tanto meno quella gente si prenderà lo sfizio di andare a vedere attraverso quali meccanismi, precisamente, il suo governo sta agendo per ripagare il debito. Per esempio, la gente non farà caso se le aste, con le quali vengono messi in vendita i buoni e i titoli dello Stato, sono fatte in modo che l’operazione risulti vantaggiosa per lo Stato, cioè per i cittadini-debitori, oppure per le banche italiane e straniere, il che è tutto un altro discorso. E così, di fatto, le banche aumentano la loro ricchezza speculando sull’acquisto dei buoni e dei titoli di Stato, la cui vendita vien fatta con modalità che le avvantaggiano, ma penalizzano i cittadini; e quanto più quello Stato è indebitato, tanto più ci speculano sopra: vale a dire che più si ha debito, più si devono pagare interessi sul debito, secondo la logica perversa per cui la finanzia alimenta se stessa e i poveri trasferiscono i loro stipendi, le loro pensioni e i loro risparmi ai ricchi, che si arricchiscono sempre di più.

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Miss Italia sarà senza una gamba? È contraddittorio usare a proprio vantaggio una situazione di difformità dalla norma, e al tempo stesso negare che una difformità esista?

Ora, tornando al nostro discorso, se sia l’ethos che il nomos stabiliscono che le persone normali sono permanentemente debitrici di qualcosa verso le altre, chiamiamole svantaggiate, è chiaro che il fatto stesso della normalità diventa una colpa, e che non esiste risarcimento che risulti proporzionato, vita natural durante – e forse nemmeno dopo, a sentire le omelie di certi preti di sinistra e gli sproloqui di certi teologi progressisti, carichi di rancore nei confronti dei “privilegiati” che hanno fatto la bella vita in questo mondo, e che dovranno espiare la loro colpa di privilegiati anche nell’altro. Noi sappiamo da dove viene questo rancore: è quello di matrice comunista e  sessantottina, che un tempo si rivolgeva contro i “padroni”, contro i “capitalisti”, mentre ora, curiosamente  i padroni e i capitalisti non ci sono più, anzi, i Benetton e i Soros son diventati i compagni di strada, i Calenda e di De Benedetti sono diventati i membri più influenti dei partiti di sinistra, ma in compenso tutto quel rancore non è stato esorcizzato, semplicemente è stato re-indirizzato contro un nuovo nemico: i populisti, i sovranisti, i “fascisti”, e, naturalmente, conto i più orribili di tutti, i “razzisti”, cioè quei poveri pensionati che non arrivano alla fine del mese, quei disoccupati che non hanno speranza di trovare un lavoro, e che, mentre si arrabattano con immensa fatica per arrivare alla fine del mese, devono vedersela con un esercito di spacciatori marocchini, di prostitute nigeriane, di rapinatori albanesi e di stupratori di varia provenienza, né sono sicuri, tornando a casa dalla spesa, di non trovare l’appartamento occupato da una famiglia di rom, giudice consenziente e forze dell’ordine impotenti, perché, poverini, quelli hanno dei bambini, e non si possono mica gettar le creature sulla strada, perdio, non siamo dei selvaggi e neanche dei cuori di pietra, una coscienza ce l’abbiamo, e spezzare il pane e stringersi a tavola per aggiungere un posto a favore di chi è bisognoso, è un elementare principio di giustizia. Un principio talmente forte da far perdere di vista i veri bisognosi, quelli che avevamo da sempre sotto gli occhi, perché erano i nostri vicini di casa: ma vuoi mettere con i disperati” che sono “fuggiti” da “guerra e fame”, come recita incessantemente il mantra dei nostri giornalisti, e hanno rischiato la vita sui barconi? Quelli sì, che sono dei veri bisognosi; dunque, è giusto avere per loro un occhio di riguardo. Anche se, per fare quel viaggio, hanno pagato qualcosa come quattro, sei, o anche ottomila dollari: il che attesta come non fossero poi così poveri e neppure tanto disperati…

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Sappiamo da dove viene questo "rancore ideologico": è quello di matrice comunista e  sessantottina, che un tempo si rivolgeva contro i “padroni”, contro i “capitalisti”, mentre ora, curiosamente  i padroni e i capitalisti non ci sono più, anzi, i Benetton e i Soros son diventati i compagni di strada, i Calenda e di De Benedetti sono diventati i membri più influenti dei partiti di sinistra, ma in compenso tutto quel rancore non è stato esorcizzato, semplicemente è stato re-indirizzato contro un nuovo nemico: i populisti, i sovranisti, i “fascisti”, e, naturalmente, conto i più orribili di tutti, i “razzisti”.

Prevediamo già l’inevitabile obiezione dei signori buonisti e dei sostenitori dei diritti civili a senso unico: chi ci crediamo di essere, per dare agli uni la patente di “normali” e agli altri, implicitamente, quella di “anormali”? Essi contestano l’idea stessa di normalità; la normalità, dicono, è un’astrazione: in effetti, ciascuno è portatore di una sua specificità, di una sua identità, unica e irripetibile, quindi è assurdo voler stabilire che cosa sia la norma. Questa obiezione, che sembra, a prima vista, pressoché inoppugnabile, e che è letteralmente la base del politicamente corretto, oggi imperante e imperversante, merita una risposta articolata. Per prima cosa, si tratta di mostrare l’ipocrisia da cui essa nasce; per seconda, di mostrare la sua inconsistenza, sia teorica che pratica.Primo punto: l’ipocrisia. Noi diciamo che è ipocrita qualcuno che predica una certa cosa, ma lo fa in cattiva coscienza, cioè avendo di mira ben altro da ciò che dice, e che non esita a fare tutto il contrario di ciò che pretende dagli altri. Ebbene: costoro affermano che la normalità non esiste, perché siamo tutti diversi, e quindi tutti uguali nell’esercizio dei diritti, i quali poi consisterebbero nell’esplicazione di tali diversità. Ma se siamo tutti diversi, allora lo sono anche i cosiddetti “normali”: anch’essi, singolarmente presi, meritano il rispetto di ciò che sono, tanto quanto gli altri. Loro, invece, i fautori delle minoranze aggressive e politicizzate, rivendicando la loro “diversità”, pretendono un trattamento di favore; però, nello stesso tempo, negano che la diversità sia qualcosa di anormale, negano di avere qualcosa di realmente “diverso”: rivendicano, insomma, di essere tanto “normali” quanto qualsiasi altro. Prendiamo il disegno di legge Scalfarotto, titolo breve: contrasto all’omofobia e alla transfobia. Esso prevede che una persona omosessuale o transessuale, se si sente offesa o discriminata per la sua condizione, può rivalersi sporgendo querela e chiedendo un indennizzo alla controparte. Cioè, da un lato queste persone non accettano di essere considerate “diverse”, dall’altro, però, pretendono che la legge prenda le loro difese in ogni caso, accettando per buona una loro “sensazione” di essere state offese o discriminate. Ora, è ipocrita rivendicare di essere come tutti gli altri, e poi chiedere un trattamento speciale davanti alla legge. Stesso discorso per il femminismo: le femministe rivendicano l’assoluta uguaglianza della donna e dell’uomo davanti alla legge; però vogliono anche le “quote rosa” in parlamento, perché pretendono di avere una percentuale di donne assicurata nel governo del Paese. Tuttavia se si sentono di valere quanto qualsiasi maschio, non si capisce perché dovrebbero pretendere un tale trattamento di favore. Se vogliono essere agevolate, allora non ritengono di valere quanto un maschio, perché in tal caso accetterebbero di confrontarsi ad armi pari. E adesso passiamo alla seconda parte della nostra contro-deduzione: mostrare l’inconsistenza delle rivendicazioni di genere, o di etnia, o di censo, o perfino di handicap. Tali rivendicazioni sono in se stesse contraddittorie e velleitarie: per esempio, è contraddittorio negare che le razze esistano, e che sia lecito dare giudizi in merito, e poi infliggere alla maggioranza degli abitanti di una data società un trattamento discriminatorio. È discriminatorio, per esempio, pretendere che i genitori italiani di un bambino che frequenta l’asilo presentino l’ISEE per aver accesso alla tariffa agevolata nel servizio della mensa scolastica, e dispensarne i genitori stranieri (i quali, magari, hanno un patrimonio superiore a quello apparente, perché, nel loro Paese di provenienza, possiedono un patrimonio del tutto sconosciuto al fisco italiano). Ed è non solo discriminatorio, ma si configura come un vero e proprio razzismo all’incontrario, come un auto-razzismo, il fatto che, se un sindaco vuol ripristinare una situazione di equità e di legalità, e chieda anche a quei genitori stranieri il certificato relativo al loro reddito, i giornali progressisti e le televisioni progressiste – cioè il 99% dell’informazione – sollevino la questione come se un sindaco razzista e senza cuore volesse lasciare affamati i bambini stranieri, mentre i bambini italiani mangiano a sazietà sotto il loro naso. E se una ragazza con la gamba di plastica vuole concorrere alle finali di Miss Italia, ella pretende di essere giudicata bella quanto le altre, bella nel senso in cui si giudica “bella” una partecipante ai concorsi di bellezza; non le dispiace, però, guadagnare voti da parte di una giuria o di un pubblico i quali si commuovono davanti alla sua disgrazia, ma guai a dirlo! No: lei è “normale”, come chiunque altra; e se arriva in finale, appunto, eliminando altre ragazze che hanno la sua stessa bellezza, e hanno anche entrambe le gambe, lei pretende che ciò sia avvenuto indipendentemente dal fatto che ha una gamba di plastica.È contraddittorio usare a proprio vantaggio una situazione di difformità dalla norma, e al tempo stesso negare che una difformità esista. Allo stesso modo, i genitori di un ragazzino caratteriale e violento, che picchia i compagni a scuola, e perfino le maestre, esercitano il diritto di far frequentare la scuola pubblica al loro figlio, e se ne infischiano se ciò erode quel diritto ai suoi venti compagni di classe, sottoposti a maltrattamenti e terrore quotidiano. Conosciamo personalmente situazioni in cui dei genitori siffatti vanno a protestare dal dirigente scolastico, alzando la voce, perché la sventurata maestra di turno, che ha dovuto recarsi al pronto soccorso per farsi dare dei punti dopo essere stata presa a morsi, non è stata sufficientemente attenta e sensibile verso il loro pargoletto: alzano la voce e non si sognano di chiedere scusa per il male che lui infligge agli altri. Di una situazione di svantaggio e di anormalità, che merita rispetto, essi si fanno forti per tenere sotto ricatto tutti gli altri, e per pretendere un trattamento di favore, senza neanche ammettere che esso è tale. Non parliamo poi di risultati scolastici, di compiti, di verifiche didattiche, di studio e d’impegno, perché, con simili premesse, guai anche solo ad accennare che anche quel bambino, nei limiti delle sue possibilità, è tenuto a fare il suo dovere di studente, come tutti gli altri. Insomma: lui è come tutti gli altri, e anche più di tutti gli altri, quanto all’esercizio di diritti sempre più dispotici; ma è diverso quando si tratta di rispettare doveri e di assumere responsabilità, lui o chi per lui, cioè i suoi genitori. Due pesi e due misure, che queste minoranze aggressive esercitano nei confronti della società: vogliono avere una posizione di vantaggio che le risarcisca di una supposta ingiustizia originaria, ma non ammettono che una diversità esista, liquidando il discorso sulla diversità col dire che siamo tutti diversi.

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Bebe Vio e Alex Zanardi "testimonials" di un meccanismo psicologico volto a instaurare un senso di colpa?

Sì, siamo tutti diversi, ma c’è chi è diverso nella norma e chi è diverso fuori della norma. La norma non è la stessa cosa dell’uguaglianza: la norma è ciò che risulta compatibile con la sopravvivenza, la sicurezza e il bene dell’intera società. Chi esce dalla norma, per un motivo o per l’altro, merita rispetto e anche aiuto, a condizione che lui, o chi risponde per lui, si sottoponga alla sua parte di doveri e di rispetto delle regole: le regole scaturiscono dalla norma, tanto è vero che si chiamano “normativa”.  La norma stabilisce i limiti della compatibilità: ciò che è fuori della norma può essere incompatibile con la società, oppure può essere compatibile, ma solo adottando talune strategie che attenuino le situazioni di contrasto e di tensione. Un islamico fondamentalista, trapiantato in Italia, non può pretendere che sua moglie se ne vada per la strada indossando il burqa, che la rende non identificabile, perché ciò va contro la legge, oltre che contro il costume del Paese ospitante. Le minoranze hanno diritto al rispetto delle loro specificità e quindi della loro diversità, ma sempre entro dei limiti: quelli fissati dalla normativa, cioè dalla legge in primo luogo, dall’usanza in secondo luogo. Chi si adatta a questa compresenza di diritti e doveri, può integrarsi; chi non l’accetta, non vuole integrarsi e ciò lo dovrebbe escludere automaticamente. La presenza di persone che pretendono l’esercizio di diritti, ma negano l’osservanza dei relativi doveri, genera uno squilibrio sempre più grave, che finirà per condurre la società all’implosione. Una società si regge sul fatto che diritti e doveri, norma e diversità, maggioranza e minoranze, raggiungano un equilibrio sulla base di un patto normativo sia teorico, la legge, sia pratico, il costume. Altrimenti, si sfascia…

Si deve pagare la colpa di essere normali?

di Francesco Lamendola

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