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giovedì 8 novembre 2018

Terrorismo Pastorale

No, Monsignor Romero non è un martire della fede



Canonizzato da Francesco insieme a Paolo VI, Mons. Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, vescovo di San Salvador e gesuita come lui, in nessun caso può essere considerato un martire della fede, per la buona e semplice ragione che non è stato ucciso a causa della sua fede cattolica, ma malgrado essa. Non venne ucciso dai comunisti perché era cattolico, ma venne ucciso da un cattolico che lo considerava comunista (a torto o a ragione, poco importa, spetterà alla storia e soprattutto a Dio giudicarne.


Il sito cattolico Terrorismo Pastorale fornisce degli elementi per questo dossier, giudichi il lettore:

« Oggi si canonizza facilmente e le secolari regole vengono cancellate a favore dell’emozione e del contesto storico. La teologia della liberazione ha i suoi martiri.
Mentre scrivo, ho davanti agli occhi una carpetta che contiene novanta cartoncini con le foto dei “martiri”, editi dalle Edizioni Paoline del Brasile nel 1984.
Il 24 marzo 1980, Mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, venne assassinato al momento dell’Offertorio della Messa, che celebrava nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza della capitale. La cappella era facilmente accessibile perché aveva una porta che dà sulla strada.
Siamo in piena guerra civile. Uccisioni ed assassinii si succedono. Questa guerra è alimentata dai diversi movimenti di guerriglia che trovano appoggio diretto in Nicaragua, a Cuba e in Messico. I partigiani della teologia della liberazione sono agenti attivi della guerriglia, religiosi compresi. Noi abbiamo raccontato una parte di queste azioni in “Terrorismo Pastorale”.
Mons. Oscar Romero era un conciliatore nato, dopo essere stato un uomo di carattere contro l’ascesa della chiesa rivoluzionaria. Quando venne assassinato, la Chiesa del Salvador era controllato dai gesuiti dell’UCA (Università del Centro America). I nomi celebri sono noti: Ignacio EllaCuria et Jon Sobrino. Essi furono i pilastri della guerriglia grazie alla loro influenza ideologica e alle loro relazioni universali. Gli agenti della guerriglia si possono incontrare nel seminario San Jose, alla Montaña. I governi salvadoregni ricevevano aiuti militari e altro dagli Stati Uniti. Questi non volevano che si stabilisse un secondo Nicaragua. I militari americani si comportavano come nei paesi occupati. La guerriglia era aiutata da un gran numero di operatori umanitari cattolici e no. Il denaro e la logistica venivano dal Nicaragua. La guerriglia ai trascinava senza giungere a qualche conclusione: i massacri continuavano e le sparizioni venivano attribuiti agli “squadroni della morte”. Il popolo salvadoregno non si schierò con la guerriglia. I contadini non lasciarono in massa i loro villaggi. Questa stagnazione era malvista da Cuba e dai Sandinisti. A quel tempo, nonostante l’assenza di prove, l’assassinio venne attribuito al Presidente d’Aubuisson.» 
(Qui il sito commette un errore, poiché il marchese Roberto d’Aubuisson non è mai stato Presidente del Salvador, avendo perso le elezioni contro Jose Napoleon Duarte)

Esiste un’altra ipotesi sulla morte del prelato: egli sarebbe stato giustiziato dai gesuiti marxisti, quegli stessi che vennero liquidati dalla polizia, in una situazione simile a quella del Nicaragua del 1979 in cui i Sandinisti di Ortega (giunto democraticamente al potere, ma sempre molto repressivo) giunsero al potere dopo la morte, avvenuta il 10 giugno 1978, di Pedro Chamorro, direttore de La Prensa, giornale di opposizione di destra al dittatore Somoza (la vedova di Chamorro sarà Presidente di destra del Nicaragua). Chamorro era molto apprezzato nella sua battaglia quotidiana ed era molto conosciuto. L’opinione pubblica accusò subito Anastasio Somoza Debayle, che scappò in Paraguay, dove venne assassinato alcuni anni dopo. Il partito sandinista giunse al potere in Nicaragua aiutato dai Cubani e dai Sovietici. Il popolo ignaro si schierò dalla parte dei Sandinisti poiché Chamorro era stato assassinato. Un po’ come nella guerra di Spagna, dove gli anarchici si erano rivoltati dopo l’assassinio di Jose Calvo Sotelo.
Ma ridiamo la parola al sito citato:

«Mons. Romero si difende come può davanti all’ascesa della rivoluzione armata della teologia della liberazione. Ma non ha molto peso. Due anni prima della sua morte, la UCA pubblica un libro intitolato: Iglesia de los Pobres y Organizaciones Populares (Chiesa dei Poveri e Organizzazioni Popolari). Quest’opera molto curiosa è significativa. La prima parte dà la parola a Mons. Romero, che difende la posizione cattolica con delle concessioni alla teologia della liberazione e un richiamo ai princípi dell’impegno della Chiesa e dei laici per la giustizia sociale contro la povertà, pronunciandosi contro la violenza da qualunque parte venisse. La seconda parte, firmata dai gesuiti rivoluzionari Ignacio Ellacuria, Jon Sobrino et Thomas Campos, è una confutazione in piena regola della lettera ai fedeli di Mons. Romero. Il titolo di uno dei capitoli dovrebbe richiamare l’attenzione degli storici: Riflessioni e problemi della Chiesa che nasce dal Popolo. E’ chiaro che i gesuiti e la guerriglia, dove si trovano dei preti di cui uno belga, non intendono farsi scappare di mano la vittoria. Povero Mons. Romero! Tuttavia, egli aveva affermato che compiva degli sforzi per creare e sviluppare delle “Comunità ecclesiali di Base” – CeB -, precisando (si veda p. 23) cosa dovessero essere… cosa che non potevano essere nel contesto gesuitico salvadoregno. Egli senza dubbio non sapeva che chiamando le CeB a celebrare l’Eucarestia… queste celebravano con le stesse parole di un’altra Pasqua: quella di Mosè che libera gli Ebrei dalla schiavitù! E questa liberazione veniva annunciata profeticamente nell’Eucarestia, senza che ve fosse l’obbligo, come dichiara l’opuscolo: “L’Eucarestia nelle comunità ecclesiali di base”, ad uso dei fedeli.
Un mese prima della sua morte, Mons. Romero ricevette il titolo di Dottore Honoris Causa dall’Università Cattolica di Lovanio, uno dei centri europei per la formazione di preti della teologia della liberazione.»

Quindi, martire Mons. Romero? Dei gesuiti liberazionisti salvadoregni? Questo non ne fa un martire della fede!
Nel Salvador, la guerriglia non riusciva ad estendersi e senza sostegno popolare era votata al fallimento fin dall’inizio. Procedendo come in Nicaragua essa poteva sperare di riuscire. L’assassinio di Mons. Romero costituiva una leva potente. Salvo che i Salvadoregni non si sollevarono e non credettero nella colpevolezza dell’esercito. Mons. Romero era stato perfino avvisato dalla sicurezza militare che la sua vita era minacciata. Al tempo stesso, la polizia sorvegliava dei potenziali terroristi, che furono immediatamente neutralizzati pochi minuti dopo l’assassinio. 50.000 Salvadoregni assistettero alla sua sepoltura. In quella occasione, questi fedeli vennero mitragliati da gruppi di terroristi: vi furono 27 morti. Non bisogna dimenticare l’affare del centro di tortura comunista posto nei locali appartenei alla diocesi di San Salvador.

Ricapitolando, si può benissimo sostenere l’ipotesi che Mons. Romero avesse scoperto tutto questo e l’abbia pagato con la vita. Non sarebbe la prima volta che i comunisti liquidino uno di loro o uno dei loro utili idioti, giudicati troppo fastidiosi; per loro non bisogna mai lasciare uccidere uno che serve la loro causa; salvo che alla causa non sia più utile la sua morte che la sua vita.

di Hristo XIEP


Pubblicato sul sito Medias Press Info

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