In realtà, il mestiere di cui si dice che sarebbe “sempre meglio che lavorare” è quello del giornalista. Non è più così vero come una volta, ma qualche fondato motivo la vox populi se lo porta pur sempre nella pancia. Lo devo onestamente ammettere dopo lunghi anni trascorsi sul marciapiede della professione, tessera dell’Ordine numero 49940, elenco professionisti, rilasciata il 20 febbraio 1991 in seguito a regolare praticantato prescritto dalla legge e ad altrettanto regolare abusivato prescritto dalla consuetudine. Nessuno è perfetto.
Eppure, riconosciuto il mortificante fondamento metafisico del giornalismo e la sua incresciosa applicazione nel reale, non scambierei comunque il mio mestiere con quello dei teologi, che battono marciapiedi ben più vecchi e più logori di quelli calcati dalla tessera numero 1 dell’Ordine. So bene che persino in teologia esistono “encomiabili casi singoli”, quasi virginali per castità, moralità, rettitudine, scienza e dottrina, e concedo volentieri a chiunque la facoltà di riconoscervisi. Ma le formulette paraculeggianti che salvano l’eccezione inceppano il discorso, lo ingaglioffano e alla fine lo intristiscono, dunque le evito. Se sotto la scure ci casca un’intera categoria, pazienza, succede sempre anche alla mia. Dio riconoscerà i suoi.
Eccoci di nuovo al punto di partenza. Se fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, e lo confermo, fare il teologo lo è ancora di più. Se non altro, il giornalista risponde alle regole di un Ordine istituito con legge dello stato, al codice civile, al codice penale, alla sua coscienza, se ce l’ha, e a Dio, se ci crede. Il teologo, in ordine inverso, risponde a Dio, se ci crede, alla coscienza, se ce l’ha, e se ne fotte del codice penale, del codice civile e delle regole di un ordine istituito con legge dello stato. Questo a voler essere generosi, perché, viste le falle aperte nella barca di Pietro, di teologi che teologhino secondo coscienza e credano in Dio ce ne devono essere pochini. Ma, come si diceva, Dio riconoscerà i suoi.
Per noi anime in pena, nel senso che scontiamo i nostri peccati già sulla terra sotto le forche del magistero ordinario, di quello straordinario e di tutto il teologame che ne discende, è più difficile. Più difficile riconoscere i veri teologi, intendo.
Una volta, quando il cristianesimo era una cosa seria, andava in altro modo. La teologia era, molto semplicemente, un “parlare di Dio” per conoscenza diretta. Ce n’erano pochi, allora, di teologi. Non so quanti Padri della Chiesa, per esempio, osassero attribuire a se stessi un simile titolo, forse nessuno. L’ultimo vero teologo era considerato San Giovanni Evangelista. Per trovarne un altro, si è dovuto attendere più di trecento anni Gregorio Nazianzeno. In seguito, l’oriente cristiano, parsimonioso in materia, ci ha messo altri sei secoli per conferire all’abate Simeone il titolo di Nuovo Teologo.
Insomma, c’è stato un tempo in cui i maestri nella fede si ritenevano semplici scrittori spirituali, ruminatori delle Scritture, cultori delle cose di Dio, ma soprattutto peccatori contriti fino alle lacrime. Non ardivano teologare e si preoccupavano solo di insegnare, dopo averle sperimentate sul proprio corpo, sulla propria anima e sul proprio spirito, quali fossero le condizioni per incontrare il Signore giungendo più vicino possibile alla sua luce, se necessario anche con il martirio. Profumavano di Cristo invece che puzzare di pecora, e doveva essere un bel sentire.
Oggi, che da tempo il cristianesimo non è più una cosa seria, i teologi non parlano più di Dio, neanche per sentito dire. Ne hanno fatto un golem a propria immagine e somiglianza, l’hanno smontato in una miriade di pezzi e ognuno si balocca con quello di sua competenza. Qualche vecchio barbogio si occupa ancora di teologia fondamentale, di teologia dogmatica, di teologia morale o di teologia sacramentaria, che comunque denotano già una certa tendenza alla frammentazione del sapere sacro. È pur vero che nella testa in un uomo solo non può entrarci tutto Dio, ma spesso i teologi hanno dimenticato di avere un cuore che sarebbe ben più capiente del loro cervello. Transeat, anche se fino a un certo punto.
Transeat perché, ai nostri giorni, sta accadendo ben di peggio e i neoteologi, che non sono “nuovi teologi”, oltre al cuore hanno dimenticato pure di avere un cervello. I migliori ricordano di averne solo un frammento, giusto quello in cui entra di misura il pezzettino di golem di loro competenza. Unicuique suum, e ce n’è per tutti i gusti. Ora, per esempio, va di moda Teologia del migrante, che comprende la teologia del barcone, la Teologia dello scafista, la Teologia delle correnti marine e va collocarsi sotto la Teologia della misericordia, che è la Madre di Tutte le Teologie. C’è la Teologia del creato, da cui discendono la Teologia della rumenta differenziata, la Teologia del car sharing e, recentemente, la Teologia del microrganismo, utile quest’ultima soprattutto per farsi un’idea sulle dimensioni dell’encefalo degli specialisti che vi si applicano. C’è la Teologia femminista e, naturalmente, quella omosessuale. E poi la Teologia dei mezzi di comunicazione, che soddisfa il cattolico neocitrullo invaghito del like, roba da indurre più alla tenerezza che al reazionario calcio nel culo. Tirate le somme, c’è una Teologia per tutto e c’è una Teologia per tutti, come su Amazon.
Infinito in potenza, il catalogo è infinito anche in atto, cosicché ogni neoteologo tiene tra le mani il suo frammento di golem e se lo lavora per benino. Lo depura del velo di mistero perché altrimenti non può applicarvi le sue idee chiare e distinte. Lo libera da qualsiasi rimando metafisico perché, pur essendo ormai solo un granello di polvere, potrebbe chiedere inaspettatamente ragione di se stesso. Lo purifica da ogni implicazione morale perché non deve essere sporcato dal rapporto claustrofobico con le vetuste leggi di Dio. Alla fine, si trova al cospetto di pura materia inerte su cui può operare come e quando vuole grazie alla tecnica appresa in seminario, analizzata nelle sedute con la suora psicanalista e raffinata a Bose. È convinto di essere divenuto finalmente un teologo e, invece, è solo un tecnologo: e la teologia è divenuta tecnologia.
Ma il tecnologo risponde direttamente al tecnocrate e se il tecnocrate gli ordina di lavorare il laboratorio, per esempio, sul “Padre Nostro” il tecnologo lavora sul “Padre Nostro” proprio come desidera il suo padrone. Che problema c’è? Il “Padre Nostro” è solo un agglomerato di granelli di materia inerte. Poi lavorerà sul “Credo”, ma intanto ha già lavorato sulla “messa nuovissima”, sempre secondo il volere del suo padrone e del Padrone del suo padrone.
Anche a voler accreditare a questi tecnologi del sacro la buona fede, ma solo quella perché la fede buona non l’hanno, non si può non notare il danno provocato dalla loro iperspecializzazione. Nella furia di concentrasi su in singolo organo della chiesa, su una singola parte di tale organo, su una singola funzione di tale parte di tale organo, hanno prodotto lo stesso tragico effetto ottenuto dalla scienza medica di ultima generazione. Quando si va in ospedale, bisogna girare almeno una decina di reparti per avere tutti i pezzi di una diagnosi e, al momento di metterli insieme, non se ne trova mai uno che combaci con l’altro. Provate a ricostruire la vostra immagine con queste tesserine da puzzle e vedrete che mostriciattolo ne esce. Intanto, il corpo del mostriciattolo, magari, muore. Ma il danno prodotto dai tecnologi della medicina non è niente perché i tecnologi della teologia hanno fatto ben di più trasformato in un mostriciattolo la chiesa, che sarebbe il Corpo Mistico di Cristo, lo hanno popolato di membri morti alla Grazia e, nella sua parte umana, condannato a morte.
I pagani, come prevedeva Re Alfred nella Ballata del cavallo bianco di Chetserton, sono tornati: “Essi non verranno su navi da guerra,/ non devasteranno col, fuoco,/ ma i libri saranno il loro unico cibo,/ e con le mani impugneranno l’inchiostro. (…) Sì, questo sarà il loro segno:/ il segno del fuoco che si spegne,/ e l’Uomo trasformato in uno sciocco,/ che non sa chi è il suo signore./ Anche se arriveranno con carta e penna/ e avranno l’aspetto serio e pulito dei chierici,/ da questo segno li riconoscerete,/ dalla rovina e dal buio che portano”.
E gli fa eco il Cristo crocifisso sull’altare maggiore di Guareschi: “Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri”.
Con tutte le colpe della mia categoria, dalle quali non intendo esimermi, penso che il vecchio Gilbert e il vecchio Giovannino, che pure ne facevano parte e ne conoscevano tutti i tarli, avessero nel mirino altri bersagli quando descrivevano l’impiego mortifero di carta, inchiostro e parole.
C’è di peggio che scrivere per i giornali, anche se la battuta impietosamente simpatica sul fatto che sia sempre meglio che lavorare continua ad avere il suo perché. A voler essere di bocca buona ci sta persino quella che recita: “Non dite a mia mamma che faccio il giornalista, è convinta che suoni il piano in un bordello di New Orleans”. Però, alla mamma, non dite neppure che fate il teologo. E, a ogni Natale, ricordatevi di farle spedire una cartolina con i vostri saluti dalla Louisiana.
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