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mercoledì 19 dicembre 2018

Il nuovo messia

ERRORE O PECCATO ?


Neochiesa e naturalizzazione degli istinti: riducendo il peccato ad un semplice errore e banalizzando la Redenzione non si capisce che cosa sia venuto a fare il Cristo sulla terra e perché si sia dato la pena di morire in croce 
di Francesco Lamendola  

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Mano a mano che la società occidentale si è secolarizzata, mano a mano che il processo di laicizzazione è penetrato e si è diffuso perfino nel clero e fra i teologi cattolici, si è verificato uno slittamento semantico della parola "peccato" verso la parola "errore". Naturalmente sono due cose diverse e questi slittamento ha un solo significato: il tentativo di naturalizzare gli istinti cattivi e di liberalizzare il peccato, togliendogli la macchia di riprovazione morale che da sempre lo accompagna, almeno in tutti quei casi nei quali è possibile attenuare o minimizzare la sua gravità. Fateci caso: non si sentono più frequentemente espressioni che un tempo, fra i cattolici, erano comuni, come l'umanità peccatrice; perfino il concetto della Redenzione di Cristo viene sovente banalizzato,perché riducendo il peccato ad un semplice errore, non si capisce bene che cosa sia venuto a fare Cristo in terra e perché si sia dato la pena di morire sulla croce. 

La svalutazione del senso del peccato ha prodotto, quindi, la svalutazione implicita della Redenzione: in fin dei conti, la condizione morale dell'umanità non è poi così disastrosa da dover richiedere un estremo rimedio come l'Incarnazione di Cristo e la sua Passione, Morte e Resurrezione. Diamo allora una definizione, che dissipi ogni possibile ambiguità: il peccato è in primo luogo una offesa fatta a Dio, una trasgressione della sua legge e un rifiuto del suo amore e dell'ordine da lui stabilito; secondariamente, è un danno fatto a se stessi o ad altri, recato in piena consapevolezza e quindi con una volontà malvagia. Un errore, viceversa, può essere, sì, di danno a qualcuno, ma senza intenzione malvagia o senza piena consapevolezza. Un ragazzo dotato di talento artistico, che decide di iscriversi alla facoltà di matematica, commette certamente un errore, perché mortifica il suo talento e va incontro a delusioni e insuccessi: questo è un errore. Ma una ragazza che rimane incinta e rifiuta di assumersi la responsabilità della vita nascente, preferendo risolvere il suo problema andando ad abortire, non commette solo un errore, ma un peccato, e anche molto grave. Un errore può essere un peccato, ma può anche non esserlo; un peccato è certamente un errore, ma non è solo un errore, è una cosa assai più grave: è un disprezzare l'amore di Dio e un calpestare la sua santa volontà.

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 Non è vero che gli istinti sono tutti buoni; è vero invece che Freud ha messo in guardia contro il tentativo di reprimerli, perché ciò condurrebbe fatalmente alla nevrosi.

Abbiamo detto che la trasformazione del peccato in errore riflette una secolarizzazione della società e tradisce una naturalizzazione degli istinti. Se gli istinti vengono presentati come qualcosa di naturale, e perciò di innocente, è chiaro che il peccato finisce per svaporare, per dissolversi: dov'è il peccato, se il peccatore non ha fatto altro che assecondare i propri istinti? Non solo: proseguendo per questa strada, si arriva necessariamente al capovolgimento della morale: se gli istinti sono innocenti, se sono tutti buoni, allora il vero peccato è reprimerli, e il vero peccatore è colui che non permette loro di manifestarsi liberamente. Questo capovolgimento non è recente, anzi: appare già esplicitamente delineato nel Decameron. Per Boccaccio, il vero peccato consiste nel resistere al richiamo dell’amore; e poco importa che egli precisi, ma non sempre, che l’amore di cui si parla è qualcosa di onesto e finalizzato al matrimonio, come nella novella di Nastagio degli Onesti: il fatto è che per Boccaccio l’amore è un istinto naturale, e dunque buono in se stesso. Qui, a ben guardare, c’è un doppio errore: che gli istinti siano tutti buoni, e che l’amore sia un istinto, mentre l’amore è cosa diversa dall’istinto sessuale; eppure la concezione naturalistica dell’amore è arrivata fino a noi, e, se possibile, è stata ulteriormente rafforzata, fino ad assurgere allo status di un dogma. Sia maledetto chi vuol porre dei confini all’amore, dice una delle “donne dannate” di Baudelaire, nei Fiori del male: che c’entra la morale con l’amore? Oggi le cose sono giunte a un punto tale che tutto, in amore, sembra lecito, perché tutto sembra buono; se c’è l’amore, che cosa manca? Questo è il ritornello che gli stessi cattolici progressisti non si stancano di ripetere, ad esempio quando si parla di coppie omosessuali e di adozioni di bambini da parte di tali coppie. Non è forse l’amore la sola cosa che conta veramente? Ma, come già faceva Boccaccio, non ci si prende la briga di distinguere fra eros e amore, fra passione erotica e sentimento amoroso.

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 La neochiesa progressista di Bergoglio e la "naturalizzazione degli istinti": riducendo il peccato ad un semplice errore e banalizzando la "Redenzione", non si capisce che cosa sia venuto a fare il Cristo sulla terra e perché si sia dato la pena di morire in croce.

Inoltre non è vero che gli istinti sono tutti buoni; è vero che Freud ha messo in guardia contro il tentativo di reprimerli, perché ciò condurrebbe fatalmente alla nevrosi. Ha anche detto, però, che fra la nevrosi e la barbarie, il male minore è pur sempre la nevrosi: cedere a tutti gli impulsi equivarrebbe a precipitare l’umanità nell’abisso del disordine più distruttivo. Ma i moderni freudiani non hanno dato retta al maestro a questo proposito, e si sono spinti ben oltre, fino a capovolgere il ragionamento: meglio la barbarie che la nevrosi, perché la repressione, e la nevrosi che ne è il frutto, è il male assoluto. La società repressiva, infatti, è la società che i contemporanei odiano, la società che vorrebbero bruciare, sulla quale vorrebbero sputare tutto il loro disprezzo: peccato che non si possano levarsi nemmeno questa soddisfazione postuma, perché la società repressiva non esiste più, almeno in Occidente. Al suo posto, si è affermata la società permissiva: la società educata, o piuttosto diseducata, all’insegna del proibito proibire, con i genitori e gli insegnanti letteralmente terrorizzati dall’idea di dire un “no” al bambini o al ragazzo, perché quel “no” potrebbe traumatizzarlo e causargli chissà quali terribili scompensi e conflitti psicologici, se non scatenare una nevrosi vera e propria.

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 Misteri della neochiesa che fanno riflettere: i legami palesi fra questo neoclero corrotto e le istanze progressiste d’una certa chiesa che, anche a casa nostra incredibilmente, . . . adora Marco Pannella e la signora Bonino!

Si osservi la parentela fra Sade e Bernardin de Saint Pierre, fra il volto brutale e il volto zuccheroso dell’antropologia illuminista (e anche di quella preromantica). Per Sade si dovrebbe instaurare una nuova società con una nuova religione: la religione degli istinti soddisfatti, del piacere raggiunto calpestando ogni pudore e ogni legge morale; per i cultori del mito del “buon selvaggio”, l’uomo primitivo è naturalmente buono perché innocente, ed è innocente perché in lui gli istinti prevalgono sulla ragione e sulla volontà. Sono due facce della stessa medaglia: il marchese de Sade, in fondo, si sente nel giusto, o perlomeno nel suo diritto, a calpestare la morale in nome del proprio piacere, così come il buon selvaggio è “innocente” nei suoi istinti, e quindi nei suoi amori. Il selvaggio è già felice così com’è, perché vive allo stato di natura; il sadico parigino lotta per riconquistare la felicità perduta, che gli è stata sottratta dalla società civilizzata. La sua violenza, in ultima analisi, è diretta a spezzare le catene di un lungo servaggio e di una lunga repressione, quindi è più che giustificata; non  stupida e nemmeno inutile. Infatti: c’è un metodo negli eroi di Sade, c’è una rigorosa consequenzialità nel modo in cui perseguono il male (altrui), sostenendo che è un bene, perché a loro fa bene riconquistare la perduta libertà degli istinti. E la prova che l’ordine dell’universo è dalla loro parte, e non dalla parte delle persone virtuose, si trova nel destino di Justine, l’infelice ragazza che soffre le peggiori miserie per aver difeso la propria virtù; mentre la malvagia Juliette, sua sorella, che ha assecondato tutti i propri vizi, trionfa sul piano sociale e finisce per diventare addirittura una nobildonna.

0 con sinistri
 Stesso "Modus operandi"? l'accusa d’ipocrisia, quando si parla di comportamenti moralmente censurabili, è sempre un’arma a doppio taglio: i progressisti la usano solitamente per infangare e denigrare i conservatori, ma, se a incorrere nei medesimi comportamenti sono degli altri progressisti, allora essi adoperano due pesi e due misure.

È la stessa filosofia che già aveva teorizzato Bernard de Mandeville con la Favola delle apii vizi sono necessari al progresso della società e anche al suo benessere, mentre le virtù saranno anche belle, però sono sterili. Da questa idea deriva una importante conseguenza che sarà destinata a un grande avvenire: coprire il proprio egoismo è indice d’ipocrisia. Migliori, molto migliori sono i selvaggi, che non si curano di apparire diversi da quel che sono; e perciò anche i libertini, i sadici e i depravati, per la stessa ragione: non si nascondono, non coprono le loro azioni dietro il manto del perbenismo. Infatti, nei Viaggi di Gulliver, i miserabili e fecali Yahoo sono, in fin dei conti, migliori della razza umana, mentre quest’ultima si ammanta di ipocrisia, ma è ben peggiore degli stesi Yahoo, dato che in essa albergano lussuria, violenza e avarizia. Arrivando ai nostri giorni: un vecchio borghese che vuol portarsi a letto una ragazzina è disgustoso, abominevole, meriterebbe la forca o la lapidazione; ma un pasoliniano “ragazzo di vita” è giustificato a priori, e una eroina di Moravia, come la protagonista de La vita interiore, lo è altrettanto, perché loro, almeno, sono innocenti o vorrebbero riconquistare l’innocenza, non già nel senso di comportarsi secondo la morale, ma nel senso di non provare alcuna vergogna e di non celare in alcun modo quel che sono e quel che fanno. E se un facoltoso uomo politico di sinistra va all’estero a comperare un bambino con la pratica dell’utero in affitto, poi se ne torna a casa per godere, insieme al suo compagno, le gioie della paternità (o della maternità?), nessuno fra gli intellettuali politicamente corretti, nessuno fra gli scrittori e i pensatori progressisti trova che ci sia qualcosa da eccepire; ma se un uomo politico di tutt’altra area indulge alle feste e ai balletti rosa con le minorenni, allora costui è un miserabile, uno sporcaccione, un delinquente.

0 papa paglia
Gli abusi sessuali da parte del clero e i relativi peccati contro natura? La naturalizzazione degli istinti e la riduzione del peccato ad un semplice errore è :"La strategia di autodifesa preventiva", messa in atto da questo diabolico neoclero sodomita e traditore di Cristo. 

La stessa dinamica del doppio binario si verifica nel mondo cattolico e all’interno della Chiesa. Se un prete progressista seduce e fa l’amore con parecchie delle sue parrocchiane o se allunga le mani su qualche chierichetto o qualche imberbe seminarista, subito trova una legione di avvocati difensori, sempre in nome della “innocenza” di certi istinti (quando non negano addirittura che abbia commesso qualcosa di penalmente rilevante); ma se nell’accusa di pederastia o sodomia incorre un prelato considerato conservatore e “tradizionalista”, nessuno gli porge un salvagente, anzi, tutti sparano a raffica su di lui e si compiacciono del fatto che sia stato condannato da un tribunale, anche se esistono fortissime ragioni di sospetto nei confronti sia delle accuse, sia della sentenza. Ci siamo soffermati su questo aspetto per far notare come l’accusa d’ipocrisia, quando si parla di comportamenti moralmente censurabili, sia sempre un’arma a doppio taglio: i progressisti la usano solitamente per infangare e denigrare i conservatori, ma, se a incorrere nei medesimi comportamenti sono degli altri progressisti, allora essi adoperano due pesi e due misure e trovano il modo di scagionare e assolvere quelli che ritengono dei compagni ideologici, oppure si spingono ancor più in là e affermano che non c’è nulla di censurabile, nulla di cui valga la pena discutere in quei comportamenti. Che la società laica abbia totalmente espulso da sé la nozione di peccato e che l’abbia trasformata in errore, è perfettamente comprensibile: una volta imboccata la strada dell’umanesimo, bisognava rimuovere quel che, dell’uomo come essere naturale, può non piacere, perché non è bello; e soprattutto bisogna far sparire anche il ricordo, se possibile, dei tempi “oscuri” nei quali la morale si permetteva di fargli i conti in tasca e gli chiedeva ragione dei suoi comportamenti illeciti e aberranti. Ma che la stessa operazione sia stata intrapresa dalla cultura cattolica e perfino dai teologi, e che da lì si sia riversata, per mille rivoli, dall’alto al basso clero, e infine tra i fedeli, sino a far sparire, o quasi, la nozione di peccato, grazie a una malintesa idea di “realizzazione” dell’uomo, sempre vista in senso antropocentrico, oppure fino a pretendere che ogni peccato scompaia davanti alla misericordia di Dio, come se Dio fosse un prestigiatore che fa sparire con la bacchetta magica quello che non è buono, e lo trasformi in qualcosa di valido, di lecito, perfino di apprezzabile, è semplicemente un tradimento.

0 con mcormick
 E' un subdolo motivo perchè molti osannano Bergoglio a nuovo messia: il falso papa gesuita sdoganando la sodomia e il peccato ha fatto un favore, non solo alla nostra anti-civiltà corrotta, ma anche e soprattutto alla sua neochiesa, ormai espressione di questa generale deriva. La vicenda del cardinale McCarrick, (nella foto con il suo mentore e difensore), indica quanto in profondità è giunta la putredine nella sposa di Cristo, oggi. 


Errore o peccato?

di Francesco Lamendola
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