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giovedì 31 gennaio 2019

Urbis bis-orbus

Quando il Papa era anti-comunista: il ritratto inedito di Bergoglio

Il libro postumo di Emidio Novi svela alcuni retroscena sui legami tra Papa Francesco e la dittatura peronista in Argentina. L'autore: "La sua deriva progressista? Per farsi perdonare il passato 'fascista' durato fino agli anni '80"

Oggi tutto il mondo lo celebra come un’icona liberal, ma in passato Papa Francescosarebbe stato tra i più aspri oppositori della teologia della liberazione.
A dirlo è il ritratto inedito del Santo Padre tracciato nel libro postumo di Emidio Novi, “La riscossa populista” (Controcorrente). Il giornalista e senatore di Forza Italia, scomparso prematuramente nell’agosto scorso, ripercorre le tappe del controverso passato “peronista” di Papa Bergoglio. Francesco, che negli anni Settanta era un semplice sacerdote gesuita, fu tra i sostenitori della la Guardia de hierro, organizzazione nazionalista, cattolica e anti-comunista, palesemente ispirata alla Guardia di ferro romena di Corneliu Zelea Codreanu, un'organizzazione fascista diffusa in Romania negli anni ‘30.

Ma all’epoca, come ricorda Marcello Veneziani su La Verità citando il quotidiano argentino Clarin, l’appartenenza ad un sodalizio simile per George Mario Bergoglio non era affatto un problema, anzi. Il legame con l’associazione, che contava decine di migliaia di attivisti anti-comunisti e giustizialisti, era talmente saldo che quando al futuro Papa fu affidato il compito di dirigere l’università gesuita di El Salvador, scelse di affidarne la gestione proprio a due militanti peronisti della Guardia de hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero.
Le sue posizioni nazionaliste e peroniste gli costarono critiche da parte dei suoi confratelli di sinistra e accuse di collaborazionismo con la dittatura militare. A scagliarsi contro di lui ci fu anche il Nobel per la Pace, Adolfo Perez Esquivel, che in seguito, però, a margine di un incontro del 2013 con Papa Francesco in Vaticano, tornò sui suoi passi definendolo una “vittima” del regime dei generali argentini. Secondo Novi, però, il Papa iniziò a prendere le distanze dal peronismo soltanto dopo il crollo del regime.
Per questo motivo, secondo l'autore del libro, le attuali tesi progressiste predicate urbi et orbi dal pontefice argentino non sarebbero altro che il tentativo di saldare il debito con un passato nazionalista e populista che poco si addice al suo pontificato pauperista e riformatore.
Poveri e ricchi. La visione del papa a confronto con i dati reali



Quando papa Francesco è partito alla volta di Panama, per la giornata mondiale della gioventù, il Gotha della finanza mondiale era riunito in Svizzera a Davos, la “Montagna incantata” del romanzo di Thomas Mann, grandioso affresco della borghesia del primo Novecento.
Un contrasto vistoso. Perché Francesco è per antonomasia il papa dei poveri, della rivolta degli esclusi contro i potenti.
È vero che, alla prova dei fatti, gli uomini più ricchi del pianeta e i potenti della finanza fanno ressa per essere ricevuti da lui in Vaticano e offrire il loro obolo. Con Francesco che li accoglie a braccia aperte e li copre di elogi: dai magnati di Google o di Apple alla presidente del Fondo monetario Christine Lagarde (nella foto), definita dal papa "una donna intelligente che sostiene che il denaro deve essere al servizio dell'umanità”.
Ma ciò non offusca la narrazione dominante, che vede Francesco sempre e solo dalla parte dei poveri e degli esclusi. Con una predilezione speciale per quelli che lui chiama i “movimenti popolari”, anticapitalisti e no global, specie sudamericani, che ha convocato e incontrato a più riprese e a cui ama rivolgere discorsi interminabili, di una trentina di pagine ciascuno, vero manifesto politico del suo pontificato.
Da qualche tempo, più che ai “movimenti popolari” Francesco si rivolge ai giovani, ai quali ha dedicato anche un sinodo, lo scorso ottobre. Ma il messaggio è sempre lo stesso. I giovani sono gli “scartati dalla società”, le vittime di un impoverimento progressivo del mondo, nel quale “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”, in un crescendo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissimi e di una deliberata estensione della povertà a strati sempre più ampi della popolazione.
I media vaticani fanno naturalmente da megafono a questa narrazione, specie ora che anche “L’Osservatore Romano” è stato richiamato all’ordine, cioè a fare squadra in tutto e per tutto col papa.
Il nuovo direttore del quotidiano della Santa Sede, Andrea Monda, ha dato prontamente prova di questo suo allineamento alla visione economico-politica di Francesco con un’intervista a un famoso teologo protestante americano, Harvey Cox, in piena sintonia con tale visione, puntualmente titolata a tutta pagina: “La religione popolare unica speranza contro il dominio del dio Mercato”.
L’intervista, pubblicata alla vigilia del viaggio di Francesco a Panama, è interessante per le risposte, ma più ancora per le domande, tutte congegnate a sostenere – tra lampi apocalittici da “Guerre stellari” – la tesi che “il Mercato [sempre in maiuscolo - ndr] è un vero e proprio impero contro il quale gli uomini, anzi i popoli, devono ribellarsi e resistere”.
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Ma è proprio così? Come stanno le cose alla luce fredda dei numeri, quei numeri che non compaiono mai nei discorsi del papa e dei suoi addetti alla comunicazione?
Perché in realtà non risulta esservi mai stato, nella storia dell’umanità, un declino della povertà così sbalorditivo come quello degli ultimi decenni.
Fissando a 1,90 dollari al giorno la soglia della povertà estrema, la Banca Mondiale ha calcolato che il numero di quelli che sono sotto questa soglia è crollato da 1,895 miliardi del 1990 a 736 milioni nel 2015, nonostante nel frattempo la popolazione mondiale sia aumentata da 5,3 a 7,3 miliardi. Ossia, in percentuale, quei poverissimi che erano nel 1990 il 36 per cento della popolazione mondiale, venticinque anni dopo sono scesi al 10 per cento.
Non solo. Anche alzando la soglia della povertà a 5,50 dollari al giorno, il calo è straordinario. Specie in Asia, dove quelli che sono sotto questa soglia erano nel 1990 il 95,2 per cento, mentre nel 2015 sono scesi al 35 per cento.
Inutile dire che “il dio Mercato” tanto stigmatizzato da “L’Osservatore Romano” ha avuto una parte notevolissima nella riduzione della povertà.
Restano le diseguaglianze, specie tra quell’uno per cento “sempre più ricco” e il restante 99 per cento della popolazione.
Ma anche qui le cose non stanno come si dice, almeno negli Stati Uniti, ritenuto uno dei paesi occidentali a più forte disuguaglianza.
Il Congressional Budget Office americano ha accertato che, se si tolgono dal calcolo le tasse e i sussidi pubblici, anche il quintile più povero, cioè quel 20 per cento della popolazione che sta più in basso nella scala sociale, ha visto migliorare del 79 per cento il suo reddito, tra il 1979 e il 2015. Esattamente quanto il quintile più ricco, se da esso si toglie quell’uno per cento di super ricchi che effettivamente ha visto il suo reddito aumentare del 242 per cento.
Se poi si guarda agli anni a noi più vicini, tra il 2000 e il 2015, le cifre smentiscono ancor di più la retorica corrente. Sempre negli Stati Uniti il reddito del quintile più povero è cresciuto in questi quindici anni del 32 per cento, mentre quello del quintile più ricco, compreso l’uno per cento dei super ricchi, è cresciuto del 15 per cento, più o meno come anche gli altri quintili di popolazione intermedi.
Solo che un conto sono i dati reali, un conto le percezioni diffuse.
Il centro di ricerca Ipsos Mori ha condotto un sondaggio in 28 paesi da cui risulta che l’opinione diffusa vede molto più nero di quanto dicono le cifre reali.
Appena uno su cinque degli intervistati, infatti, è consapevole che la povertà è diminuita.
Questo in media. Ma in Italia solo il 9 per cento pensa che i poveri siano in calo, esattamente come in Argentina. Dove viceversa, al pari che in Italia, ben il 64 per cento è convinto che siano in aumento.
È nei paesi emergenti che le percezioni diffuse si avvicinano di più ai dati reali. In Cina, ad esempio, il 49 per cento è convinto che la povertà diminuisca, solo il 21 per cento pensa che cresca.
Di conseguenza anche le aspettative sulle future condizioni di vita globali sono migliori nei paesi emergenti, rispetto a quelle nei paesi occidentali, più ricchi.
In Kenya gli ottimisti sono il 68 per cento, in Nigeria il 67, in India il 65, in Senegal il 64, in Cina il 58.
Mentre invece in Italia gli ottimisti sono il 18 per cento, in Belgio il 14, in Francia il 13, in Giappone il 10.
Osserva Danilo Taino, Statistics Editor del “Corriere della Sera”, a proposito di questo “pessimismo strabico sul passato e sul futuro”: “Siamo di fronte a un problema culturale serio. Per l’Occidente e per i paesi di vecchia ricchezza”.
Anche per il Vaticano?
Settimo Cielo di Sandro Magister 25 gen

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