ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 25 marzo 2019

Cheese?

Smile!


È usanza comune, quando si fa una foto di gruppo, mettersi davanti all’obiettivo, attendere che il fotografo si sistemi e prepari lo scatto, poi attendere il suo fatidico invito: «Sorridete!», sfoggiare un bel sorriso, e attendere che la foto sia fatta.
Non c’è depliant, non c’è pubblicità, non c’è foto di famiglia nella quale non abbondino volti sorridenti. L’espressione sorridente in questo caso è invitante, incoraggiante: “Vedi come stiamo bene noi – sembrano far intendere – che lavoriamo in questa ditta, che usiamo questo prodotto, che facciamo parte di questo gruppo”.
Eppure una volta non era così. Se prendete qualche foto di famiglia del passato, anni ’30 o ’40, per intenderci, vedrete volti seri, persone in posa solenne, ferma, austera. Nessuno sorride. Come mai? Erano tutti tristi al tempo? Non credo: certamente i nostri avi erano come tutti, gioiosi in certe occasioni, preoccupati o tristi in altre, come noi, come lo sono gli uomini di ogni latitudine e generazione. Semplicemente non c’era l’usanza di mettersi in posa sorridente.

Prendete ad esempio i tre pastorelli di Fatima. Esistono diverse foto su di loro; pur essendo agli inizi dell’era della fotografia, esiste una discreta galleria di immagini dei bambini, ripresi al tempo delle apparizioni del 1917. In tutte queste foto i fanciulli non sorridono mai. Non solo sono sempre seri, ma in alcune occasioni anche paiono particolarmente imbronciati. Quella scattata nel luglio del 1917 è emblematica: non sembrano nemmeno loro. Avevano avuto da poco la terrificante visione dell’Inferno, e Lucia ha un volto quasi deformato, che non ha nulla della grazia che di solito i bambini mantengono. In un’altra, straordinaria, Giacinta è seduta col rosario in mano, vicino alla cugina Lucia in piedi. Cercatela, se potete, e osservatela: il volto della piccola Marto è serio, serissiimo, accigliato, e guarda diritto l’obiettivo come se fosse sul punto di perforarlo con lo sguardo.
Sarebbe bello avere un’immagine fotografica del Signore Gesù. Tanti pittori, del passasto e del presente, lo hanno ritratto, ma siccome al suo tempo non vi erano macchine fotografiche, una vera immagine del volto di Cristo non l’abbiamo. Se in quel tempo ci fosse stata la macchina fotografica, come si sarebbe lasciato riprendere? Serio, sorridente?
Nel Vangelo non appare mai un accenno a che il Signore rida. Due volte si dice chiaramente che pianse: su Gerusalemme e davanti alla tomba di Lazzaro. Mai che rida o che sorrida. Come mai? Eppure il sorriso è un’espressione straordinaria, propria dell’uomo. Madre Teresa di Calcutta lasciò un poema di grande bellezza sul sorriso: esso non costa nulla e arricchisce molti – questa una delle sue espressioni, e tante altre, tutte condivisibili. E in effetti anche a noi piace la gente che sorride, che ci accoglie sorridendo, che supera le difficoltà con un bel sorriso. La gente sempre imbronciata non ci piace.
E allora, come mai nel Vangelo, che pure è la storia della salvezza, che pure parla di gioia (quella vera) non si dice mai che gli apostoli ridono, che i salvati danzano a girotondo con ampi sorrisi di beatitudine?
La risposta potrebbe essere questa: perchè c’è il peccato nel mondo. Se penso che nella giornata di oggi, in questo preciso momento, qualcuno muore e va all’Inferno, per rimanervi per sempre, come posso ridere? Come posso accarezzare questo pensiero sorridendo?
Di qui l’insegnamento di Giacinta di Fatima. Aveva visto l’Inferno, aveva avuto dalla Vergine Maria il compito di pregare e fare sacrifici affinchè i peccatori si convertissero, per riparare i peccati contro il Cuore Immacolato di Maria, ed ella aveva preso sul serio il suo compito. La sua vita, dal termine delle apparizioni fino alla sua morte (qualche mese soltanto) è la storia di una lottatrice straordinaria che si mette alle porte degli Inferi, per così dire, per strappare anime dalla dannazione eterna.
La piccola Giacinta, paragonabile ad una moderna Giovanna d’Arco, può scendere in quella valle oscura sorridendo a destra e a sinistra come se andasse per i prati a raccogliere margherite?
Ma, tornando a Nostro Signore, a ben pensare una sua fotografia autentica l’abbiamo: è la Sindone. Piaccia o non piaccia, quella è l’immagine vera del volto di Cristo. Dicono che il primo che fece lo studio fotografico in negativo dell’immagine del Cristo, alla vista di quel volto così solenne, rimase letteralmente scioccato, non riuscendo quasi a riprendersi per giorni e giorni. Aveva visto, per primo nella storia dell’umanità, il vero volto di Gesù, che non gli sorrideva, ma che lo “guardava” solenne e austero, quasi vivo nel sonno della morte.
E non è sbagliato affermare che quell’immagine è conturbante. Provate a fissarla per dieci minuti fissi, senza distogliere lo sguardo. Quel volto parla. Vi parla del prezzo della redenzione, del peso del peccato, del sacrificio, ma anche della dignità, della grandezza dell’Uomo-Dio che non ha ricusato di salire sulla croce per togliere i peccati del mondo. Quel volto è assolutamente indicibile e inenarrabile. E non sorride. Vi guarda diritto per entrare nel cuore, per scavare, per “togliere il peccato”, che è cosa tremendamente seria.
Ecco il vero volto di Dio: non più lacerato dalle brutture della Passione, non ancora sfolgorante nella gloria della resurrezione, ma tremendamente serio e pieno di regale compassione. Questo è il volto di Dio che desideriamo. Ed è anche la figura che terrorizza Satana. Davanti a quel volto, egli fugge. Non sono sicuro invece che scappi davanti a ministri di Dio, magari in maglietta e pantaloncini, sorridenti e affabili, in marcia verso Assisi con chitarre e bandiere della pace. Di quelli, egli non ha paura. Ma il volto sindonico di Cristo lo mette a disagio, come anche lo sguardo truce di Giacita di Fatima.
Può darsi che in Paradiso tutti poi sorridano, ma questo è anche giusto: il peccato là non c’è più, e si loderà in eterno il Salvatore, finalmente liberati da ogni debolezza e pericolo. Qui in terra invece vige e si esige il combattimento contro le potenze.
Abbiamo allora bisogno di quello sguardo, quello di Giacinta, quello dei lottatori, di coloro che sanno che la vittoria sul male costa sudore e sangue. Il mondo e coloro che fanno del mondo il loro luogo non hanno bisogno dei nostri sorrisi, della nostra accondiscendenza. Essi sorridono già abbastanza per conto loro. Il mondo teme piuttosto lo sguardo severo di Giacinta, lo sguardo solennissimo del Cristo sindonico, perchè quei volti parlano di Dio, degli uomini, del peccato, della grazia.
Lo sguardo di chi ha sofferto e soffre per liberare il mondo dal peccato dona una bellezza straordinaria a quei volti. Fissateli un po’, per convincervene.

Il velo della Veronica è una leggendaria reliquia cristiana.

Risultati immagini per velo della veronica


Il velo della Veronica non è quello offerto a Gesù, per asciugarsi il sudore e detergere il suo sangue lungo la via del Calvario, dalla pia donna di tale nome. Infatti questo popolare episodio della “Via Crucis” non si trova in nessuno dei Vangeli ed è derivato da una leggenda abbastanza recente. Il nome “Veronica”, invece, pare derivi dall’accostamento dell’aggettivo latino “vera” al sostantivo greco “icona”, per indicare la “vera immagine” di Gesù tra quelle considerate non dipinte da mano d’uomo. Si racconta che un giorno l’imperatore romano Tiberio fu colpito da una grave malattia. Avendo saputo che nella lontana Palestina operava un eccezionale guaritore di nome Gesù, ordinò al suo messo Volusiano di andare a cercarlo a Gerusalemme. Ma la stagione invernale ritardò la partenza di Volusiano, che giunse in Palestina quando, ormai, era troppo tardi: Gesù era stato crocifisso! Volusiano, però, non volle tornare a mani vuote da Tiberio, perché ne temeva l’ira. Così si mise alla ricerca dei seguaci di Gesù, per ottenere da loro almeno una reliquia del maestro. Così trovò una donna, chiamata appunto Veronica, che ammise di aver conosciuto Gesù, ed anzi gli raccontò una storia prodigiosa. Anni prima, quando Cristo era andato a predicare in una località lontana, le era venuta una grande nostalgia del Signore. Perciò aveva comprato un panno bianco per portarlo ad un pittore affinché questi, sulla base delle sue indicazioni, gliene facesse un ritratto. Ma proprio il giorno in cui era uscita di casa per andare dal pittore, aveva incontrato per strada Gesù, di ritorno dal suo viaggio. Egli, saputo il desiderio della donna, le aveva chiesto il panno e, sfregatolo sul suo viso, glielo aveva restituito con impressi i propri lineamenti. Volusiano chiese immediatamente a Veronica quel ritratto ed ella acconsentì a portarlo di persona a Tiberio. Il quale, appena fu al cospetto del sacro telo, guarì all’istante. Da quel momento in poi l’insigne reliquia rimase sempre a Roma. Secondo alcuni, questa Veronica sarebbe L’emorroissa citata nel Vangelo che, a detta degli Apocrifi, si chiamava, in greco, “Berenike” da cui il nostro “Veronica”. Ma la leggenda precedente ha parecchi punti di contatto con la storia del re Abgar di Edessa, il sovrano che avrebbe ricevuto da Cristo stesso quel famoso “mandillion” diventato poi, secondo molti studiosi, la Sindone di Torino.(Il nome della Veronica, ricorre per la prima volta nei Vangeli apocrifi, Atti di Pilato cap. 7, e si riferisce alla donna emorroissa che implorando Gesù per la sua guarigione, mentre passava stretto nella folla, riuscì a toccargli il lembo del mantello, guarendo all’istante).

Essa è stata rappresentata in tantissime opere scultoree e di pittura, che ne hanno prolungata l’immagine fino ai nostri giorni, inserendola anche nei personaggi della pia pratica della Via Crucis alla sesta stazione. Il lungo itinerario iconografico che la ricorda con il celebre Santo Sudario, primo ed unico ritratto del Volto Santo, ebbe il suo culmine con la grande statua della Veronica, opera dello scultore Francesco Mocchi del secolo XVII, posta nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, centro della cristianità (in questa statua vi è anche scolpito il telo ma ha gli occhi chiusi (qualcuno dice che la scultura si riferiva a Gesù morto, mentre poi è risorto ...).
Dal secolo XIII si venerò in S. Pietro a Roma, una immagine del volto di Cristo, detto ‘velo della Veronica’ (che anche Dante cita nel Par. XXXI, 104), che gli studiosi identificarono per lo più con l’icona tardo bizantina attualmente lì conservata (Badde, in Vaticano, avrebbe visto da vicino la reliquia ed afferma che non esiste: Das pure Nichts).
A queste devozioni è connessa l’origine del culto del Volto Santo. Santa Veronica ha un particolare culto in Francia, dove la si considera come la donna che dopo la morte del Salvatore, andata sposa a Zaccheo si reca ad evangelizzare le Gallie e sarebbe morta nell’eremitaggio di Soulac; chiamata anche s. Venice o Venisse, è patrona in Francia, dei mercanti di lino e delle lavandaie.

Insomma vi sono infinite storie e tradizioni che si intrecciano. Nessuna che risalga al I secolo. Al massimo vi è il racconto dello storico Eusebio (265-340). Nella sua Historia ecclesastica (VII, 18), egli racconta che a Cesarea di Filippo vi era la casa della miracolata emorroissa Bernike, supposta originaria di Edessa in Siria e che davanti alla porta della casa si ergeva una statua in bronzo, rappresentante una donna piegata su un ginocchio con le mani tese in atto d’implorazione, davanti a lei la statua di un uomo in piedi, avvolto in un mantello, che tende la mano alla donna; ai suoi piedi cresceva una pianta sconosciuta elevata fino al mantello e ritenuta di efficace rimedio per ogni tipo d’infermità.
La statua dell’uomo, si diceva rappresentasse Gesù ed Eusebio conclude dicendo, che al tempo del suo soggiorno in quella città, il gruppo bronzeo era esistente. Altro autore, Sozomeno, dice che il monumento eretto in onore del Redentore a Cesarea di Filippo, fu abbattuto durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata (331-363).
La cosa più sorprendente emerge solo a partire dal 1978, quando suor Blandina Paschalis Schloemer, un’esperta iconografa, come risultato di alcune ricerche ed indagini, affermò che il volto di Manoppello e quello ritratto dalla Sacra Sindone di Torino, sono esattamente sovrapponibili. I tratti sono infatti gli stessi: viso ovale leggermente rotondo e asimmetrico, capelli lunghi, un ciuffo di capelli sopra la fronte, la bocca leggermente aperta, lo sguardo rivolto verso l’alto. In seguito ad ulteriori ricerche condotte dallo stesso Pfeiffer e Padre Bulst, sindonologo, la relazione tra la Sindone e il Volto Santo sarebbe quasi una certezza, ed alle loro scoperte è dedicata una mostra permanente all’interno del Santuario dove è possibile vedere i test e le prove fotografiche dei loro studi.
Ad avvalorare la loro ipotesi sarebbe anche il fatto che, almeno secondo le cronache storiche, la Sindone avrebbe avuto un percorso storico/geografico molto simile a quello fatto dalla Veronica. Secondo i due studiosi la Sindone ed il Velo, sarebbero stati poggiati entrambi sul volto di Cristo, e a questo deriva la loro sovrapponibilità. Parallelamente sarebbero quindi partiti da Gerusalemme alla volta di Camelia, per poi raggiungere Costantinopoli. Da qui le loro strade si sarebbero però divise.

Infatti Costantinopoli fu un centro incredibile di fabbricazione e traffico di reliquie che invasero l'Europa al tempo delle crociate. I pii crociati trovarono il modo di sbarcare abbondantemente il lunario con ogni sorta di reliquia.


La ricostruzione fantasiosa (nel 2000, in occasione del Giubileo) del gesuita tedesco, padre Pfeiffer S.J., delle vicende della Veronica è d'interesse. Il velo di Manoppello, alias Veronica romana, un tempo era conosciuto nell’Impero Romano d’Oriente come l’Immagine di Camulia. L’immagine che si riteneva acheropita — cioè non fatta da mani d’uomo, al pari della Veronica —, originaria della piccola città di Kamulia, o Kamuliane, in Cappadocia, viene traslata da Cesarea, capitale della regione, a Costantinopoli nel 574. In breve la Camuliana diventa il palladio, l’immagine protettrice della capitale: garantiva protezione alla città e vittoria agli eserciti imperiali. Si ritiene che la reliquia venisse accolta con entusiasmo a Bisanzio per sostituire il Labarum di Costantino I (280 ca.-337), andato perduto durante il regno di Giuliano l’Apostata (331-363), anche se le caratteristiche di questa insegna sono a noi tuttora ignote. Viene segnalata in Africa nella battaglia di Costantina, del 581, in quella sul fiume Arzaman, del 586, e in molti altri episodi bellici. L’imperatore Eraclio (575-641) in partenza per una campagna in Persia, nel 622, stringeva in mano uno stendardo sul quale era ricamata l’immagine di Camulia. E ancora nel 626, durante l’assedio di Costantinopoli da parte degli àvari, la santa immagine viene esposta sulle mura a difesa della città.

Un giorno l’immagine sparisce per non ricomparire più a Costantinopoli. Potrebbe esser andata distrutta in battaglia, ma l’ipotesi più ragionevole, sostenuta anche dal padre gesuita, è che sia stata inviata segretamente a Roma.

Nella Vita di Germano I, patriarca di Costantinopoli (715-730), si narra che questi mette in salvo l’Acheropita gettandola in mare; miracolosamente questa giunge al largo di Ostia, ove viene ripescata e portata a Roma. Malgrado il carattere in parte leggendario della narrazione sono noti altri documenti che sembrano confermare la sostanza dell’avvenimento, cioè l’invio della reliquia a Roma (9).

Padre Pfeiffer S.J. colloca la data di questo trasferimento negli anni che intercorrono fra il primo e il secondo regno di Giustiniano II (679 ca.-711), dal 695 al 705, ma, a mio avviso, questo potrebbe essere avvenuto almeno dieci o vent’anni più tardi (10).

Naturalmente la Camuliana, messa in salvo a Roma, rimaneva ancora proprietà del Patriarcato di Costantinopoli e non poteva essere assunta come protettrice di una città, ove era stata inviata in via temporanea con il tacito accordo che venisse restituita, quando fosse cessata la persecuzione delle immagini. Giustamente l’autore fa notare che la Veronica-Camuliana viene mostrata pubblicamente solo dopo il definitivo declino della potenza di Bisanzio, cioè dopo la caduta di Costantinopoli del 1204 (11).

Ma dove viene conservata per quasi cinque secoli prima che iniziassero le ostensioni pubbliche? Anche a questa domanda si è cercato di dare una ragionevole risposta. Da tempi antichissimi è noto che nell’oratorio di San Lorenzo, detto Sancta Sanctorum, situato nei Palazzi Laterani, si venera un’immagine del Salvatore. Quest’immagine, che si riteneva "non fatta da mano d’uomo", era il palladio di Roma. Oggi si presenta come una tavola rivestita di lamine d’argento, al disopra delle quali appare un volto dai grandi occhi, con barba e baffi sottili, circondato dal nimbo inserito in uno spazio ottagonale. Per secoli fu impossibile condurre su di essa uno studio accurato e solo nel 1907 Papa san Pio X (1903-1914) concede a monsignor Joseph Wilpert (1857-1944), archeologo di chiara fama, questo eccezionale privilegio (12). Questi individua le tracce di tre successivi restauri. Quello nel nostro caso di maggior interesse è eseguito sotto il pontificato di Papa Alessandro III (1159-1181) e consiste nell’applicazione di un velo di seta dipinto sulla tavola sottostante, estremamente danneggiata dal tempo.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.