ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 18 marzo 2019

La «doppia morale»

L’attentato terroristico in Nuova Zelanda e le responsabilità


Venerdì 15 marzo u.s. Brenton Tarrant, un australiano di 28 anni, armato di fucili automatici, assalta due moschee a Christchurch in Nuova Zelanda, uccidendo 50 persone e ferendone più di 30. L’attentatore ha filmato la strage, mentre la compiva, e l’ha trasmessa in diretta su Facebook; invia in Internet anche una specie di manifesto politico, con cui cerca di spiegare il suo gesto, manifesto inviato al Primo Ministro neozelandese, Jacinda Ardern. La notizia, ovviamente, fa il giro del mondo, suscitando unanime condanna.
Da quello che si sa del manifesto “politico” del terrorista e delle scritte sulle armi utilizzate per l’attentato, risulterebbe una serie di riferimenti storici e politici a dir poco incerti, che vanno da Carlo Martello (686-781), il condottiero franco che sconfisse gli arabi a Poitiers (732), affermandone l’avanzata verso la Francia; al Doge veneziano Sebastiano Venier (1496-1578), che fu uno dei grandi protagonisti della battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), che sottrasse il Mediterraneo centrale ed occidentale all’egemonia turca; ad Alexandre Bissonnette, l’autore dell’attentato alla moschea di Quebec City, nel quale morirono 6 persone; a Luca Traini, che il 3 febbraio 2018 ha sparato, a Macerata, su tutte le persone di colore incrociate, ferendone 6… ma, soprattutto, pare avere grande ammirazione per Anders Behring Breivik, che il 22 luglio 2011 compì due attentati, uno nel centro di Oslo, con un’autobomba piazzata davanti al palazzo dell’allora Primo Ministro norvegese, il laburista Jens Stoltenberg, causando 8 morti e 209 feriti, e l’altro sull’isola di Utøya, sparando sui membri del campus allestito dalla sezione giovanile del Partito laburista norvegese, facendo 69 morti e 110 feriti.

L’ideologia politica dell’attentatore appare confusa: da un lato apparirebbe, sempre a quanto trapela, come simpatizzante del cosiddetto «suprematismo bianco», una galassia di ideologie, di origine statunitense, che hanno in comune una base razzista e l’idea di difendere la razza bianca, ritenute in pericolo, e, dall’altro, pare dichiararsi grande ammiratore della Repubblica popolare cinese.
Sono corsi fiumi di inchiostro e di parole, con riferimento ad una fantomatica internazionale del suprematismo bianco; ci si è stracciati le vesti per le «parole d’odio» pronunciate da chi vuole porre un freno all’immigrazione selvaggia; si è giunti ad affermare che chiunque associ il concetto di immigrazione al concetto di criminalità è, in qualche modo, corresponsabile della strage, perché fomenta il clima di odio verso i migranti che alla base di quest’atto terroristico…
Al di là dell’emozione del momento, umanamente anche comprensibile, rimangono, però, alcuni dati di fatto oggettivi: gli attentati terroristici, a livello mondiale, compiuti da cristiani e/o occidentali ai danni di musulmani sono incommensurabilmente minori sia per numero che per entità rispetto a quelli compiuti da islamici contro cristiani e/o occidentali; coloro che apertamente pubblicamente sostengono la necessità o, anche solo, la auspicabilità di atti di violenza nei confronti di civili musulmani disarmati raggiungono, in tutto il pianeta, forse il numero di alcune decine, mentre le organizzazioni islamiche che esaltano, quando non promuovono direttamente, il terrorismo verso civili disarmati occidentali e/o cristiani annoverano nelle loro fila, secondo le stime più prudenti, decine di migliaia di affiliati; l’Islam esalta l’utilizzo della violenza contro gli infedeli a fini di proselitismo, jihād minore, mentre il Cristianesimo deve fare sue le parole di Nostro Signore Gesù Cristo: «amate i vostri nemici»[1].
Questo non significa negare che, anche in Occidente, esistano criminali che compiono attentati terroristici. Giova qui ricordare che il terrorismo è quello strumento politico che pretende di raggiungere i suoi obiettivi attraverso atti di violenza, normalmente rivolti contro persone inermi, unicamente tesi a creare un clima generalizzato appunto di terrore. Questo nasce dal periodo robespierriano della Rivoluzione francese, detto proprio Terrore, perché aveva elevato questo metodo a sistema di governo dello Stato.
Se proprio si desidera domandarsi da dove nasca, nella cultura occidentale, la giustificazione teorica del terrorismo, conviene esaminare quale approccio filosofico abbia preteso di staccare, in maniera assoluta, la politica dalla morale. Risulterebbe allora del tutto evidente che, più delle parole di assoluto buon senso di Matteo Salvini sulla necessità di limitare l’immigrazione clandestina, la «responsabilità morale», come si usa dire oggi, o, più correttamente, l’antecedente filosofico e logico di questa prassi brutale si ritrova nell’Illuminismo e, prima ancora, nei suoi precursori dell’Umanesimo, a cominciare da Niccolò Machiavelli (1469-1527), con la sua «autonomia delle scienze», tesa a giustificare la mancata sottomissione del detentore del potere politico all’etica; basti citare «Il principe» (1513), suo capolavoro al riguardo.
Il vero teorico, però, della giustificazione politica di ogni crimine e, in particolare, dell’omicidio è Vladimir Il’ič Ul’janov (1870-1924), in arte Nikolaj Lenin, con la sua «morale rivoluzionaria» o «doppia morale», secondo la quale (l’esempio è suo), se un borghese uccide un rivoluzionario, è un assassino, mentre, se un rivoluzionario uccide un borghese, compie un meritorio atto politico. È di ogni evidenza che, seguendo questo criterio, ciascuno lo può applicare all’ideologia di cui è seguace, secondo il principio kantiano per il quale non esiste nessuna verità oggettiva[2] e, conseguentemente, morale è l’uomo che segue l’«imperativo categorico», vale a dire ciò che “sente”, senza nessun vaglio razionale, di dover fare[3], sentendosi giustificato a compiere qualunque atto terroristico ritenga opportuno.
A dire il vero, però, l’Islam non ha dovuto attendere l’Illuminismo, poiché Maometto (570-632), la cui vita è norma etica per ogni buon musulmano, aveva già “compreso” e fatto suoi questi princìpi, quando ha preteso di uccidere di sua mano i prigionieri ebrei della tribù Banū Qurayza, che si erano precedentemente arresi[4].
 
[1] Mt 5,44.
[2] Cfr. Critica della ragion pura (1781I, 1787II).
[3] Cfr. Critica della ragion pratica (1788).
[4] Cfr. la Sira, biografia ufficiale musulmana di Maometto e terzo libro sacro dell’Islam.



 


Chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione dell’Abbé Jacques Hamel, ucciso dall’Isis nel 2016



Lo scorso 9 marzo nella cappella Notre Dame de l’Annonciation dell’Arcivescovado di Rouen, in Francia, si è svolta la sessione conclusiva della fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione dell’Abbé Jacques Hamel, il sacerdote che venne ucciso la mattina del 26 luglio 2016 mentre stava celebrando la Messa nella chiesa di Saint Etienne du Rouvray, in Normandia, da due uomini militanti del sedicente Stato islamico, che lo sgozzarono sull’altare.
Papa Francesco aveva concesso la dispensa per aprire la procedura canonica pochi mesi dopo la sua morte. Padre Jacques era un uomo buono, di pace, ma «è stato assassinato come se fosse un criminale», disse il Pontefice il 14 settembre 2016 in una Messa celebrata a Casa Santa Marta in Vaticano con monsignor Lebrun ed altri parenti e pellegrini di Rouen. «Ha dato la vita per noi, ha dato la vita per non rinnegare Gesù. Ha dato la vita nello stesso sacrificio di Gesù sull’altare… Che lui dal Cielo – perché dobbiamo pregarlo, è un martire!, e i martiri sono beati, dobbiamo pregarlo – ci dia la mitezza, la fratellanza, la pace, e anche il coraggio di dire la verità: uccidere in nome di Dio è satanico».
Annunciata il 13 aprile 2017, la fase diocesana della causa si era aperta ufficialmente il 20 maggio 2017. Durante questa fase si sono tenute 66 udienze, durante le quali sono stati ascoltati i cinque testimoni dell’omicidio, 51 testimoni convocati (familiari di padre Hamel, amici, parrocchiani, sacerdoti…) e cinque testimoni ex officio. Le questioni principali vertevano sull’omicidio, sulle condizioni del presunto martirio, sulla vita del sacerdote e su come abbia vissuto le virtù cristiane, come anche sulla sua fama di santità e sulle grazie attribuite alla sua intercessione. Due teologi, secondo il comunicato diffuso dalla stessa Arcidiocesi, hanno preso in esame gli scritti di padre Hamel pubblicati sui notiziari parrocchiali ed i testi delle sue omelie, circa 650 testi in tutto. Il dossier completo, ora inviato alla Congregazione delle Cause dei Santi, consta di 11.496 pagine più alcuni allegati.
Ma chi era padre Jacques? Era nato a Darnétal, nella regione francese della Normandia, il 30 novembre 1930. A quattordici anni entrò nel Seminario Minore della diocesi di Rouen, affrontando, tre anni dopo, la separazione dei suoi genitori. Fu ordinato sacerdote il 30 giugno 1958 e svolse la maggior parte del suo ministero in parrocchie della periferia della diocesi di Rouen, fino a diventare, nel 2000, parroco della parrocchia di Santo Stefano a Saint-Étienne-du-Rouvray, dove rimase anche dopo aver compiuto settantacinque anni. Sobrio nello stile di vita e cordiale nei rapporti col prossimo, aveva buone relazioni con la popolazione musulmana che viveva nella cittadina francese.
«Era anziano, ma sempre disponibile con chiunque»: così una fedele della chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray ricorda padre Jacques. La donna, citata dal Guardian online, ricorda che «era lì da tanto tempo e lo conoscevano bene in tanti». «Era un bravo sacerdote ed ha fatto il suo dovere fino all’ultimo», ha aggiunto. La presenza dei cattolici è molto forte in Normandia ed in particolare nel dipartimento della Seine Maritime. «La Vie», settimanale cattolico francese a diffusione nazionale, nella sua edizione online ha dedicato al sacerdote un ritratto titolato Jacques Hamel, curato di campagna e martire. «Rimango sul campo per servire la comunità celebrando Messa e amministrando i sacramenti», amava ripetere il martire, che ancora guidava gruppi di spiritualità e teneva corsi di catechismo. Per padre Auguste Moanda, attuale parroco, era un sacerdote «discreto, tendenzialmente silenzioso, ma alquanto affabile». «Aveva preso sul serio il Vangelo e si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale», confida a sua volta padre Pierre Belhache. «Viveva per testimoniare la sua fede e per gli altri», conferma una parrocchiana, Linda Dupré.
Verso le 9 del mattino del 26 luglio 2016, alla fine della Messa nella chiesa di Santo Stefano, fu sgozzato da due giovani affiliati allo Stato Islamico. «Vade retro satana!», fu l’urlo del sacerdote ai suoi sgozzatori. Subito fu universalmente circondato da fama di martirio, sin dalla notizia della sua uccisione. La Santa Sede ha concesso la dispensa alla regola canonica relativa all’apertura delle cause di beatificazione e canonizzazione, che prevede trascorrano prudenzialmente almeno cinque anni dal decesso del candidato. I suoi resti mortali riposano nel reparto riservato ai sacerdoti del cimitero della città di Bonsecours.
Il 6 giugno 2016, neppure due mesi prima del suo martirio, padre Hamel aveva pubblicato un editoriale sul bollettino parrocchiale quale appello profetico ad approfittare delle vacanze estive per rinnovare il proprio rapporto con Dio e con il prossimo.
La primavera è stata piuttosto fresca. Se il nostro morale è stato un po’ a terra, pazienza, alla fine l’estate arriverà. E anche il momento delle vacanze.
Le vacanze sono un tempo per prendere le distanza dalle nostre occupazioni abituali. Ma non sono una semplice parentesi. Sono un momento di relax, ma anche di rigenerazione, di incontri, di condivisione, di convivialità.
Un tempo di rigenerazione. Ci sarà chi si prenderà qualche giorno per un ritiro o un pellegrinaggio. Altri rileggeranno il Vangelo, da soli o in compagnia, come una parola che fa vivere l’oggi.
Altri potranno rigenerarsi nel grande libro della creazione ammirando i paesaggi tanto diversi e magnifici che ci elevano e ci parlano di Dio.
L’augurio è che possiamo in quei momenti sentire l’invito di Dio a prenderci cura di questo mondo, a farne, là dove viviamo, un mondo più caloroso, più umano, più fraterno.
Un tempo di incontro, con familiari e amici. Un momento per prendersi il tempo di vivere qualcosa insieme. Un momento per essere attenti agli altri, chiunque essi siano.
Un tempo di condivisione. Condivisione della nostra amicizia, della nostra gioia. Condivisione del nostro aiuto ai figli, mostrando che per noi contano.
Anche un tempo di preghiera. Attenti a ciò che avverrà nel nostro mondo in quel momento. Preghiamo per coloro che ne hanno più bisogno, per la pace, per un migliore vivere insieme.
Sarà ancora l’anno della misericordia. Cerchiamo di avere un cuore attento alle cose belle, a ciascuno e a tutti coloro che rischiano di sentirsi un po’ più soli.
Che le vacanze ci consentano di fare il pieno di gioia, di amicizia e di rigenerazione. Allora potremo, meglio provvisti, riprendere la strada insieme.
Buone vacanze a tutti!
Padre Jacques

 
La solerzia con cui ha preso avvio questa causa, mette in evidenzia il deprecabile ritardo che ancora si registra dopo alcuni secoli nel concedere la gloria degli altari di parecchi personaggi circondati dalla fama di martirio, in particolare in terra francese ai tempi della Rivoluzione: circa cinquecento Servi di Dio, le cui case si sono arenate in attesa di nuovo impulso; Madame Elisabeth, sorella del re Luigi XVI, la cui causa è partita solo recentemente; lo stesso Luigi XVI, che papa Pio VI considerò «martire» nella sua allocuzione Quare Lacrymae, con la moglie Maria Antonietta ed il figlio Luigi XVII. Ad essi si aggiungono i generali morti nella difesa della Vandea cattolica: Jacques Cathelineau, François-Athanase Charette de La Contrie, Charles Melchior Artus de Bonchamps, Maurice-Louis-Joseph Gigot d’Elbée, Louis Marie de Lescure, Henri du Vergier de La Rochejaquelein, Jean Nicolas Stofflet ed Antoine-Philippe de La Trémoille de Talmont. Siamo certi che la Chiesa non mancherà un giorno di glorificare questi suoi servi fedeli, che già vivono presso Dio.

 

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