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giovedì 11 aprile 2019

Credono ancora di essere cristiani

STORIA E SPERANZA CRISTIANA


Con la Speranza cristiana si supera l’angoscia dell’impotenza e si oltrepassa la tentazione dello scoraggiamento; con la lettura storicistica del reale, si finisce per adorare il presente e se delude: si cade nella disperazione 
di Francesco Lamendola   


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La filosofia storicista e, ancor più, la mentalità storicista, è talmente caratteristica del pensiero moderno e della società moderna, e ha talmente permeato la visione del mondo e della vita da parte dell’uomo moderno, da esser penetrata, e da molto tempo, fin nel cuore della cultura cattolica e perfino della spiritualità cattolica, o in ciò che di questa ancora sopravvive, modificandone radicalmente i contenuti e stravolgendo il suo originario punto di vista. La verità è che non è possibile essere sia storicisti, sia cristiani; eppure molti cristiani moderni credono ancora di essere cristiani, mentre sono diventati modernisti, perché hanno introiettato in pieno la mentalità modernista, e ormai non riescono più a vedere neppure le questioni di fede così come i cristiani le hanno sempre viste, per quasi duemila anni, ma le vedono attraverso i prismi deformanti della modernità, e, in particolare, attraverso il prisma dello storicismo. La categoria fondamentale mediante la quale il cristiano si pone di fronte al reale è la Speranza; la categoria fondamentale di chi non è cristiano, bensì modernista, è la storia. 

Con la Speranza cristiana si supera l’angoscia dell’impotenza e si oltrepassa la tentazione dello scoraggiamento; con la lettura storicistica del reale, si finisce per adorare la forza, il presente, e poi, se il presente delude e le attese non si realizzano, si cade nella disperazione.

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Il progresso è quella mitologia, anzi, quella soteriologia, quella sorta di redenzione laica dal male e dalla morte che giustifica, o che cerca di rendere tollerabili, tutte le nefandezze della storia umana.

L’uomo moderno è disperato perché confida nella storia; ma la storia è un prodotto meramente umano: e quando mai ciò che imprigiona è anche via di liberazione? L’uomo moderno è prigioniero della storia, perché confida solamente in essa; salvo, poi, andare a sbattere contro il limite che è connaturato alla storia umana: non conduce al superamento del male e del dolore, non offre alcuna speranza  nei confronti del nulla e della morte, non apre alcuna porta, ma conferma la condizione di prigioniero, di ostaggio, e rinserra i catenacci che sbarrano la soglia per uscire. Il cristiano non ha alcun complesso verso la storia: non l’adora, non la sopravvaluta, non s’inginocchia di fronte ad essa; e, per la stessa ragione, non si rattrista oltre misura, non si dispera, non desidera annullarsi quando vede che essa va in una direzione contraria ai suoi bisogni più profondi, in una direzione contraria al vero, al bene, al giusto. Nella storia, presto o tardi, è il male che trionfa; logico: la storia è il frutto dell’azione umana; e l’azione umana, se non è sorretta dalla grazia, non fa che aggiungere sempre nuovi tormenti alla condizione dell’uomo. La storia chiusa in se stessa è l’inferno: un inferno dal quale non c’è redenzione. La sola redenzione possibile è nel superamento della storia. Ma la storia non può superarsi da se stessa, così come l‘uomo non può oltrepassare se stesso, con le sue sole forze. Se lo potesse, sarebbe anche possibile al Barone di Münchhausentirarsi su dalla palude afferrandosi per i capelli. Per tirarsi fuori dalla palude della storia, l’uomo ha bisogno di una leva che si trovi al di fuori della palude: non può averla in se stesso, perché, se l’avesse in se stesso, essa non gli servirebbe a nulla. Da ciò si vede la differenza fra la visione del reale cristiana e quella storicista: solo nella visione cristiana c’è la possibilità del superamento, perché la Speranza cristiana poggia sulla roccia dell’Assoluto e confida unicamente in Dio. Dio sì, che si trova al disopra della palude; Lui sì, che può aiutare gli uomini a uscire dal fango e rimettere il piede sul terreno solido. Ma per far questo ci vuole molta, molta umiltà: bisogna riconoscersi creature; bisogna confessare di essere incapaci di redimersi da se stessi. L’uomo moderno non ha una simile umiltà, anzi, la civiltà moderna nasce proprio dal disconoscimento di questa pur evidente verità: e da ciò deriva la pazzia, che è il tratto più caratteristico della condizione antropologica della modernità. Si prendano le filosofie idealiste, nelle quali è il Pensiero che crea l’Essere, e non l’Essere che crea il Pensiero: è il barone di Münchhausen, ancora e sempre, che pretende di afferrarsi per i capelli e tirarsi fuori, al di sopra di se stesso. Oppure si prenda la filosofia di Nietzsche, con l’idea dell’oltrepassamento dell’uomo rispetto a se stesso: l’uomo è sospeso su una fune, deve andare oltre, deve diventare un oltre-uomo; altrimenti cadrà al di qua di se stesso, e sarà meno di una bestia. Benissimo: ma come potrebbe l’uomo oltrepassare se stesso, senza poggiare il piede su qualcosa di diverso da sé? Altrimenti, se poggia il piede su se stesso, l’uomo non solo non riuscirà mai a oltrepassarsi, ma non avrà neppure gli strumenti per capire se si è oltrepassato oppure no. Se l’uomo è totalmente centrato su se stesso, come potrebbe avere dei punti di riferimento per capire dove si trova? Il mondo non sarebbe che una parte del suo io, e tutte le cose non sarebbero che strumenti a sua disposizione; ma, in tal caso, chi potrà dirgli una parola di verità riguardo a se stesso? Se viene a mancare l’alterità; se vengono a mancare i riferimenti di ciò che sta al di fuori di lui stesso, come farà a capire dove si trova, come farà a sapere chi è, cosa è diventato? Potrebbe essere un dio o una bestia, ma egli non lo saprà mai. Non troverà uno specchio in grado di dirglielo, perché tutti gli specchi gli rifletteranno sempre e solo l’immagine – deformata – che egli si è costruita di se stesso; mentre per sapere chi si è veramente, bisogna ammettere che esiste qualcosa che non è il proprio io, e che non può essere manipolato a proprio piacere.

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Con la Speranza cristiana si supera l’angoscia dell’impotenza e si oltrepassa la tentazione dello scoraggiamento; con la lettura storicistica del reale, si finisce per adorare la forza, il presente, e poi, se il presente delude e le attese non si realizzano, si cade nella disperazione.

All’interno dello storicismo, il concetto-chiave è quello di progresso. Esiste una visione storicista della storia che, se non vuol condurre alla disperazione e al suicidio, deve indicare la via del progresso. Di fatto, lo storicismo è sempre stato un pendolo che si muove fra l’esaltazione e l’euforia del progresso, da una parte, e la disperazione e l’angoscia della morte e del nulla, dall’altra. Nella sua accezione positiva e non nichilista, lo storicismo è la tipica concezione fondata sul progresso, dunque è una concezione tipicamente moderna: perché l’idea di progresso è moderna, almeno come la intendono gli uomini moderni, nella prospettiva non cristiana. Il progresso è quella mitologia, anzi, quella soteriologia, quella sorta di redenzione laica dal male e dalla morte che giustifica, o che cerca di rendere tollerabili, tutte le nefandezze della storia umana. Si dice: sì, la storia ha prodotto e continua a produrre molto male, molta ingiustizia, molti errori; però alla fine c’è il progresso, ed è in tale direzione che l’umanità sta marciando. Perciò, è la logica conclusione, pazienza e ancora pazienza: il paradiso in terra ancora non l’abbiamo visto, e di fatto lo stiamo aspettando da almeno cinque secoli, però non bisogna scoraggiarsi, prima o poi arriverà: tutte le ideologie immanentiste e storiciste ce l’hanno promesso, tutte le filosofie idealiste lo hanno assicurato, addirittura - con Hegel – facendo coincidere la storia con lo Spirito del Mondo, e quest’ultimo con la nozione di assoluto più vicina a quella tradizionale, metafisica, dell’Assoluto in senso teologico. Tanto più che il progresso nel pensiero moderno, il progresso illuminista, è, per definizione, il progresso illimitato; e se è illimitato, vuol dire che non ha mai finito di attuarsi, di svelarsi, di realizzarsi. Dunque, non bisogna essere toppo impazienti o troppo esigenti; se non ha portato la felicità oggi, la porterà domani: anche se domani ci verrà detto: Spiacenti, oggi ancora no, ma riprovate domani. Di fatto, come potrebbe essere illimitato un progresso di natura immanente, fatto esclusivamente dagli uomini? È un ossimoro, una contraddizione in termini. D’altra parte, perché preoccuparsi? L’uomo moderno è capace di mandar giù e digerire assurdità anche più grosse, pur di non dover fare i conti con il proprio limite ontologico, di non riconoscersi creatura: perché è questa la cosa che gli secca più di qualsiasi altra. E, per questo motivo, a un certo punto perfino la teologia si è messa a ragionare con le categorie dello storicismo: che altro è, infatti, la tanto sbandierata “svolta antropologica” di Karl Rahner, se non l’applicazione dello storicismo alla teologia?

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Il cardinale Siri, secondo da sinistra.

Scriveva il cardinale Giuseppe Siri nel suo libro Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo (Roma, Fraternità della Santissima Vergine Maria, 1980, pp. 205-207):
Per capire la sottile ma profonda differenziazione che subiscono  il pensiero e la speranza cristiana, sotto la spinta nascosta o visibile della mentalità storicista, basterebbe notare  con quale leggerezza un uomo così laborioso e colto come Chevalier prenda, come punto di appoggio per il suo concetto di progresso,  espressioni dalla “Lettera agli Ebrei” a proposito d Gesù Cristo; e dice espressamente (“Histoire de la pensée, tomo III, p. 463):
“La maggioranza dei pensatori cristiani, a partire da Sant’Agostino, l’avevano proclamato con forza, non facendo così che esplicitare il carattere profondo del cristianesimo, CHE NON È UN MITO atemporale sito nel ciclo di un grande anno a ricorsi periodici, ma un evento, un avvenimento e un progresso, “Jesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula” (Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre, Ebrei, XIII, 8).”

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A un certo punto perfino la teologia si è messa a ragionare con le categorie dello storicismo: che altro è, infatti, la tanto sbandierata “svolta antropologica” di Karl Rahner, se non l’applicazione dello storicismo alla teologia?


O si ha la Speranza cristiana, o si è storicisti

di Francesco Lamendola

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