Il Papa benedice pure le Ong: "Onore a chi accoglie i migranti"
Francesco in Macedonia del Nord torna a chiedere di aprire le porte. E elogia "gli sforzi compiuti in favore di migranti"
Francesco in Macedonia del Nord torna a chiedere di aprire le porte. E elogia "gli sforzi compiuti in favore di migranti"
Papa Francesco benedice le Ong. Non solo, rende "onore" al loro lavoro e agli sforzi compiuti in favore di migranti in fuga dalle guerre e dalla povertà.
Jorge Mario Bergoglio lo ha fatto nel suo discorso ufficiale al palazzo presidenziale di Skopje, prima tappa della sua visita apostolica nel Nord della Macedonia. Si tratta di un viaggio importante, o meglio storico, essendo la prima volta che un Vescovo di Roma arriva nel Paese da quando ha raggiunto l'indipendenza. Ed è in questo "ponte" tra Oriente e Occidente, dove la "multietnicità" è "il patrimonio più prezioso" che il Pontefice decide di rivolgere parole di affetto e lode a chi fa un "generoso sforzo nell'accoglienza dei migranti".
In Macedonio Bergoglio plaude al "generoso sforzo compiuto dalla vostra Repubblica, sia dalle sue autorità statali sia con il valido contributo di diverse organizzazioni internazionali, della Croce Rossa, della Caritas e di alcune ong, nell'accogliere e prestare soccorso al gran numero di migranti e profughi provenienti da diversi Paesi medio-orientali". È chiaro che Bergoglio non pensa solo alla Macedonia del Nord quando ricorda che i migranti accolti "fuggivano dalla guerra o da condizioni di estrema povertà, spesso indotte proprio da gravi episodi bellici". Ma è all'intera Europa che guarda, come già fatto in passato e nei giorni scorsi dalla Bulgaria, quando ha visitato un campo profughi e ha invitato il Vecchio Continente a non chiudere "le porte a chi bussa". Chissà se anche stavolta Salvini risponderà che, in Italia, i "porti restano chiusi".
Bergoglio apprezza il fatto che, nonostante tra il 2015 e il 2016 abbiano "varcato i confini" della Macedonia del Nord moltissimi immigrati, abbiano trovato "in questo Paese un valido riparo". Il discorso del Papa è tutto (in gran parte) dedicato all'immigrazione. "La pronta solidarietà offerta a coloro che si trovavano allora nel più acuto bisogno per aver perso tante persone care oltre alla casa, al lavoro e alla patria - ha detto - vi fa onore e parla dell'anima di questo popolo che, conoscendo anche le privazioni, riconosce nella solidarietà e nella condivisione dei beni le vie di ogni autentico sviluppo".
Il caso macedone, secondo Bergoglio, può essere un esempio per tutto il mondo. Qui, infatti, "tanto la differente appartenenza religiosa di ortodossi, musulmani, cattolici, ebrei e protestanti, quanto la distinzione etnica tra macedoni, albanesi, serbi, croati e persone di altra origine, ha creato un mosaico in cui ogni tessera è necessaria all'originalità e bellezza del quadro d'insieme". Per replicare questa 2bellezza", magari in altri Stati dell'Ue, il papa ha auspicato quindi che la Macedonia (ma non solo) faccia "tesoro della catena solidale che ha contraddistinto quell'emergenza, a vantaggio di ogni opera di volontariato a servizio di molte forme di disagio e di bisogno". Una lode alle Ong.
Così Benedetto XVI pronosticò la fine dell'Unione europea
Benedetto XVI riletto a mo' di 'profeta': dopo gli scritti e i discorsi sul futuro della Chiesa, spuntano riflessioni sul destino dell'Unione europea
Benedetto XVI riletto a mo' di 'profeta': dopo gli scritti e i discorsi sul futuro della Chiesa, spuntano riflessioni sul destino dell'Unione europea
Benedetto XVI riletto alla stregua di un profeta: sta avvenendo sia per il destino della Chiesa cattolica sia per quello delle istituzioni sovranazionali del Vecchio continente.
Se per il primo campo d'azione previsionale basta il celebre discorso radiofonico del 1968', quello in cui Joseph Ratzinger "profetizzò" - appunto - le sorti nefaste che avrebbero interessato il consesso ecclesiale cristiano - cattolico, quelle che avrebbero reso l'Ecclesia sempre più povera e minoritaria, per il secondo vale la pena citare quanto scritto dal professor Francesco Agnoli per l'edizione odierna de La Verità.
"Perché dobbiamo dirci cristiani" non è "Per amore", ossia l'ultima raccolta pubblicata da Cantagalli a firma del papa emerito, ma è un libro dell'ex presidente del Senato Marcello Pera, che risale al 2006, in piena discussione, quindi, su quello che l'Europa avrebbe dovuto essere in termini idealistici e valoriali. Bene, non è un mistero che Joseph Ratzinger, da pontefice regnante, e magari ancora oggi, avrebbe voluto l'introduzione delle "radici cristiane" in quella che sarebbe dovuta essere la primaria fonte del diritto interno dell'Ue. Così non è stato. E vedendo il relativismo da cui sembrano essere mosse certe istituzioni sovranazionali non ci si può stupire poi molto.
Ma in "Perché dobbiamo dirci cristiani" - cui Benedetto XVI contribuì mediante una lettera - si può leggere come il Santo Padre dell'epoca interpretasse l'avvento non gestito o mal gestito di quello che oggi viene chiamato 'multiculturalismo'. L'identità - pure questo assunto è verificabile con facilità passando per la lettura degli stessi testi del teologo - è un tratto distintivo della visione politica ratzingeriana. L'ex presidente del Senato e l'ex pontefice regnante - sottolinea Francesco Agnoli - arrivarono all'individuazione di alcuni aggettivi utili a descrivere il destino di entità prive di qualsivoglia terriccio identitario - religioso. Dove per "religioso" va inteso il rifiuto delle proprie origini culturali. Finiamo così dalle parti di "anti-democratiche, pletoriche, oscure istituzioni". C'è - lo avevamo premesso - una capacità di ragionare in prospettiva che non è comune.
Esiste pure un richiamo, a mo' di monito, sul dato certo che un'Unione europea sganciatasi da quello che chiameremmo "umanesimo" non potesse avere né vita lunga né vita facile. Benedetto XVI, che certo non può essere iscritto all'elenco dei sovranisti - populisti ma che, come tutti i cattolici, tende piuttosto all'universalismo, aveva "profetizzato" - ancora una volta - l'esito che il relativismo avrebbe portato in dote. Un giudizio che riguarda il cattolicesimo, la civiltà occidentale, l'Europa, quindi l'Unione europa.
“I movimenti anti-europei non sono nati per caso, non sono un incidente di percorso più o meno irrazionale e incomprensibile. Sono il frutto di tutto ciò che non va nell’Unione europea così come è oggi. La peggiore scelta sarebbe la più facile, la meno costosa politicamente (nel breve periodo): la scelta dell’inerzia”.
Un articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della sera.
Per quanto, alla luce dell’esperienza passata, ciò risulti inusuale — uno «strappo» rispetto alla tradizione — è un fatto che, per la prima volta, l’Europa avrà qualcosa a che fare con le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo: una parte almeno dei cittadini europei voterà pensando all’Unione, sceglierà un partito o l’altro in funzione dei suoi orientamenti in materia di integrazione europea. In passato non è stato così. In passato le elezioni europee erano una specie di costoso sondaggio con il quale veniva misurato il grado di consenso/ostilità dei cittadini dei vari Paesi nei confronti del «loro» governo nazionale. Chi era contro il governo lo segnalava votando, alle elezioni europee, per un partito di opposizione mentre tanti fra quelli che gli erano meno ostili si astenevano. Il rinnovo del Parlamento europeo in quanto tale non interessava alla schiacciante maggioranza dei votanti. Pochissimi conoscevano il funzionamento delle istituzioni europee, pochissimi sapevano quale fosse il ruolo del Parlamento, pochissimi erano interessati ai processi decisionali dell’Unione. Disinteresse e disinformazione erano la regola. La causa consisteva nel fatto che l’Europa non era, e non era mai stata, un vero oggetto di divisione politica all’interno delle varie comunità nazionali. Fin dai suoi primi passi, fin dalla nascita delle comunità europee, l’Europa era una faccenda che riguardava esclusivamente le élites, le classi dirigenti. Gli elettori erano (tacitamente) favorevoli all’integrazione europea perché — essi sapevano — il processo di integrazione era fonte di vantaggi economici per tutti.
Agli elettori non interessava altro. Non avevano bisogno di saperne di più. Contrariamente alle speranze degli europeisti più ingenui, neppure quando (1979) si cominciò a votare per il Europarlamento, la schiacciante maggioranza degli elettori si interessò alle questioni europee. L’Europa non era un tema «politico» su cui fare campagna elettorale. È solo da una quindicina d’anni che l’Europa si è politicizzata, ossia è diventata un argomento su cui ci si divide all’interno dei vari Paesi. Il primo segnale che le cose stavano cambiando arrivò con il referendum sul trattato costituzionale in Francia del 2005. Poi la combinazione fra una decennale crisi economica e i flussi migratori ha consolidato la tendenza. Il resto è cronaca di questi anni: la Brexit, i successi elettorali di movimenti politici ostili all’Europa detti sovranisti. Adesso, all’interno di ogni comunità nazionale, sull’Europa ci si divide. La disinformazione di un tempo, per quel che se ne sa, è rimasta: moltissimi europei continuano a non sapere quasi nulla di come funzionano le istituzioni dell’Unione, per esempio, di che cosa andranno a fare gli eletti al Parlamento da loro stessi votati. Ma l’area del disinteresse si è almeno in parte ridotta.
Dunque, questa volta si voterà, molti voteranno, per o contro l’Europa. È la ragione per cui gli esiti sono così incerti. I cosiddetti sovranisti otterranno più voti certamente. Ma il loro successo potrebbe risultare inferiore al previsto se gli europeisti riuscissero a mobilitare molti elettori che in altre occasioni avrebbero scelto l’astensione. Come è stato osservato (per esempio, da Sergio Fabbrini sul Sole o da Guido Tabellini sul Foglio), l’Europa costituisce ora un tema di divisione più importante della tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra.
Probabilmente, i risultati non saranno netti né di immediata e facile leggibilità. Si prenda il caso italiano. Qui giocano le solite propensioni trasformiste, gli atteggiamenti di certi uomini tutti d’un pezzo, dotati di principi che non si spezzano ma che, in compenso, possono piegarsi in qualunque direzione. Come ha osservato Maurizio Ferrera (sul Corrieredi due giorni fa) i nostri (ex?) euroscettici oggi al governo non minacciano più referendum sull’euro e altri sfracelli, dicono ora solo di voler cambiare — come dei riformisti qualsiasi — l’Europa che c’è. Sono rinsaviti? Hanno capito che rompere con l’Europa sarebbe un suicidio collettivo? Forse, più probabilmente, compulsando i sondaggi, hanno preso atto che gli italiani non li seguirebbero in una avventura anti europea. Per queste ragioni, comunque, il risultato elettorale italiano non darà un chiaro responso pro o contro l’Europa. In altri Paesi le cose potrebbero andare diversamente. Per ragioni diverse, in Gran Bretagna (ove forse le elezioni saranno un quasi referendum in extremis sulla Brexit), in Francia e in Germania, nei Paesi europeo-orientali, nelle democrazie nordiche, sarà possibile misurare e soppesare con più precisione europeismo e anti-europeismo. Poniamo che i risultati siano abbastanza buoni per gli europeisti. Poniamo che i sovranisti non ottengano il travolgente successo che molti immaginano. Solo degli sciocchi potrebbero a quel punto tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, pensare «l’Europa è salva».
I movimenti anti-europei non sono nati per caso, non sono un incidente di percorso più o meno irrazionale e incomprensibile. Sono il frutto di tutto ciò che non va nell’Unione europea così come è oggi. La peggiore scelta sarebbe la più facile, la meno costosa politicamente (nel breve periodo): la scelta dell’inerzia. Contrariamente a molti altri, chi scrive non è affatto sicuro che Angela Merkel verrà ricordata come una grande leader europea. Credo invece che, non avendo avuto la forza o il coraggio di prendere per i capelli l’opinione pubblica tedesca e di trascinarla con sé, come i veri leader sanno fare, ella abbia contribuito a ingessare l’Europa dandola così in pasto ai suoi nemici. Ci sono, nella costruzione europea, vizi d’origine per anni e anni nascosti sotto il tappeto. Per citarne uno: la malsana intrusione normativa dell’Unione in ambiti in cui non dovrebbe entrare, l’ossessiva mania regolamentatrice e dirigista che è incompatibile con i principi del federalismo (comunque declinato). C’è stato un tempo in cui occultare i vizi d’origine poteva avere un senso. Oggi fa soltanto danni.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.