ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 24 ottobre 2019

Che cosa ci è successo?

IL CANCRO CHE CI STA DIVORANDO


Perché siamo diventati così, che cosa ci è successo? Tutte le manifestazioni esterne della crisi sono conseguenze e non cause. La causa vera è il cancro che ci divora dall’interno il disamore per noi stessi e per la vita stessa 
di Francesco Lamendola  

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L’Italia, e in generale l’Europa – ma l’Italia più di altri Paesi – è in pieno declino demografico: cosa che consente ai politici di sinistra, con perfetto rigore logico e impeccabile consequenzialità, di predicare la necessità, anzi, l’immeritata fortuna di poter disporre di larghe masse d’immigrati di ogni provenienza, ma specialmente africani islamici. Lasciamo stare, per ora, questo aspetto del problema; e rimandiamo ad altro tempo anche la discussione sulle ragioni del saldo negativo del nostro andamento demografico. Concentriamoci su ciò che esiste e non su ciò che non esiste, sui figli che non si vogliono fare, sugli aborti che non diminuiscono affatto come a suo tempo ci era stato promesso e garantito, sul crollo dei matrimoni, anche civili (ad eccezione, chi lo sa il perché, di quelli omosessuali), e sulla precarizzazione sempre più accentuata delle relazioni di coppia.
Puntiamo l’attenzione sugli italiani che ci sono e non su quelli che potrebbero esserci, ma non ci sono, mancano all’appello per una ragione o per l’altra, tradendo il tacito patto generazionale per cui ogni generazione ha finora sempre lasciato un numero sufficiente di eredi per raccogliere il testimonio della famiglia, del lavoro, dei valori e della civiltà costruita nel corso dei secoli e dei millenni.

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Che cosa ci è successo? Per rispondere a questa domanda, sarebbe necessario non solo una lunga e approfondita analisi sociologica, psicologica, culturale, morale, ma anche, e prima di tutto, un impietoso esame di coscienza, cosa alla quale non siamo più abituati, o non lo siamo mai stati!

Lasciamo stare anche i bambini, che meritano un discorso a parte, e i vecchi, i quali, poveracci, fra poco si vedranno negato non solo il diritto di voto, ma anche il diritto di esistere (non però di essere nominati presidenti della Repubblica o senatori a vita…), e saranno invitati con discrezione, ma anche con fermezza, a fare in modo di non gravare più a lungo sulle casse statali del fondo pensioni, magari togliendosi spontaneamente dalle spese e risparmiando a figli e parenti vari il fastidio e la spesa di occuparsi di loro o di pagare la casa di riposo o una badante per assisterli. Concentriamo la nostra attenzione sugli italiani giovani o relativamente giovani (il concetto di giovinezza si è prolungato alquanto negli ultimi anni), fra i venti e i quarant’anni, o anche fino ai cinquanta, dato che un uomo o una donna di cinquant’anni, oggi, se seguono la dieta, vanno regolarmente in palestra, si vestono alla moda, vanno dal parrucchiere ogni settimana e magari si fanno qualche lampada fuori stagione, possono fare invidia ai loro coetanei di qualche decennio fa, nonché ai loro figli del dì presente. Ma anche i ventenni, i venticinquenni, i trentenni, senza alcun dubbio, fanno la loro egregia figura a paragone dei loro padri, quando avevano la stessa età: basta confrontarli con le foto di famiglia per vedere la differenza. I giovani di oggi sono più alti, più ben fatti, vestiti con maggiore ricercatezza, con una più attenta cura per i particolari, dall’orologio da polso alla catenina da portare al collo; il taglio dei capelli  impeccabile e inossidabile (vedi il premier attuale, Giuseppe Conte), e non si notano ridicoli artifici come le ciglia finte o i nei finti delle ragazze degli anni ’60 e ’70. Inoltre sono pieni di bellissimi e originalissimi (sic) tatuaggi, che fanno capolino da ogni apertura possibile delle vesti, emergono dalla camicia e attraversano tutto il collo, ricoprono interamente braccia e mani, per non parlare delle spalle, delle gambe, dei polpacci, dei piedi, e naturalmente del petto, della schiena e del ventre: zone, queste ultime, che si possono ammirare soprattutto d’estate, col vantaggio del caldo e degli abiti particolarmente succinti e che conferiscono uno straordinario alone di mistero, di segreto, di riservatezza, tali da colpire e intrigare profondamente il prossimo e da suscitare mille domande, mille curiosità e mille desideri, come è giusto che sia nei confronti di chi si presenta in modo assolutamente speciale e diverso da tutti gli altri, mostrando una sua spiccata personalità e una forte indipendenza di giudizio, indifferente a ogni moda e insensibile al richiamo di qualunque conformismo.

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Oggi nella famiglia, i genitori sono sempre più divisi e contrapposti da una logica di difesa del proprio interesse e sempre meno uniti da un senso di condivisione del dovere e del sacrificio, mentre i figli sono sempre più abbandonati a se stessi, al computer e alla televisione, e sempre meno abituati ad assumersi impegni e responsabilità!

E dove li andiamo a osservare queste italiane e questi italiani giovani, belli, palestrati, abbronzati, acconciati, agghindati, lustrati, lucidati e tatuati? Ma nei centri commerciali, naturalmente. E quando? In qualsiasi ora e giorno della settimana, si capisce; ma con una netta preferenza per la domenica mattina, beninteso sul tardi (dopo aver smaltito la serata, si fa per dire, del sabato) quando, finalmente liberi dal tran-tran lavorativo e soprattutto dalle noiose incombenze religiose che ancora i loro nonni si ostinano a praticare, come se la società fosse rimasta ferma all’età della pietra, sfilano avanti e indietro, in su e in giù, passeggiano, cazzeggiano, ammirano (non solo le vetrine) e sono ammirati, si pavoneggiano, chiacchierano, spendono e spandono (anche il poco che hanno…), fanno salotto, si esibiscono (e intanto si negano), civettano, ancheggiano, sculettano, occhieggiano, ammiccano, spettegolano, ridacchiano, sorbiscono il gelato, sgranocchiano le patatine o i pop-corn, masticano e ruminano la gomma americana, insomma offrono un meraviglioso spaccato sociologico e un inesauribile campionario umano, dalla studentessa liceale ai primi rossori (?), al ragioniere di mezza età, il quale, novello Aschenbach di Morte a Venezia, vuol sembrare più giovane di suo nipote, anche a costo di tingersi i capelli o ricorrere al parrucchino: un campionario che si offre in tutta la sua freschezza e spontaneità a chi abbia tempo e voglia di ammirarlo. Il tutto all’insegna della sobrietà, del buon gusto, del pudore, della più raffinata discrezione, non è vero? Niente di troppo vistoso, di troppo invasivo; niente di pacchiano, di grossolano; e, soprattutto, niente che impedisca alla vera personalità di ciascuno di apparire e di rifulgere in tutta la sua smagliante autenticità e nella sua irripetibile singolarità. Come vogliono i meravigliosi tempi dell’individualismo di massa che stiamo attraversando: nei quali ciascuno pretende di far valere e di vedersi riconosciuta dagli altri una clamorosa eccezionalità sulla base di non so quali meriti speciali ma nessuno è disposto a farlo nei confronti degli altri. Anche perché, oggettivamente, risulterebbe abbastanza complicato, in una società dove si fanno e dicono le stesse cose, ci si veste o ci si sveste allo stesso modo, ci si taglia i capelli e li si tinge alla stessa maniera, ci si fanno persino gli stessi tatuaggi sul corpo, con la stessa farfallina o lo stesso personaggio del cinema, magari sulle stesse parti anatomiche, lasciate negligentemente scoperte secondo un’identica moda, risulterebbe, si diceva, abbastanza complicato distinguere le persone una dall’altra e stabilire cosa sia farina del loro sacco e cosa invece sia pedissequa adozione di stili e modelli di comportamento uniformi e standardizzati.

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Oggi il tacito "Patto generazionale" per cui ogni generazione ha finora sempre lasciato un numero sufficiente di eredi per raccogliere il testimonio della famiglia, dei valori e della civiltà costruita nel corso dei secoli si è rotto: perchè?

Questo per ciò che riguarda il modo di porsi verso l’altro, che poi è tutt’uno col bisogno di sentirsi: di sentirsi, si badi, e non di essere, perché per essere bisogna essere qualcosa, il che è un fatto oggettivo, mentre per sentirsi basta immaginare di essere qualcosa, il che attiene alla sfera della pura soggettività. Per quanto riguarda, poi, il modo di comportarsi nei confronti del prossimo, ciò che si nota è una costante, irreversibile perdita della delicatezza, della cortesia, della sensibilità e dell’attenzione verso l’altro, della capacità di ascoltarlo, o anche soltanto della disponibilità a farlo: i rapporti interpersonali sono sempre più caratterizzati da maleducazione, rozzezza, opportunismo, superficialità, e soprattutto da un fondo invincibile di egoismo, per cui si direbbe che la gente trovi cosa naturalissima calpestare gli altri pur di realizzare i propri scopi, o pretendere da essi l’impossibile, salvo essere quanto mai avari del proprio tempo e della propria disponibilità, centellinare il proprio contributo e il proprio impegno, sgattaiolare via quando si tratta di assumersi responsabilità o pagare il conto di errori, facilonerie e astuzie da quattro soldi. Ciò significa che l’amicizia vera, cioè disinteressata, è divenuta una merce rarissima e quasi introvabile; e che i rapporti affettivi e sentimentali sono giunti assai vicino al punto di rottura, sotto la pressione degli opposti egoismi scatenati, alimentati, fin da bambini, dalla compiacenza e dalla debolezza colpevole degli adulti che avrebbero dovuto svolgere una funzione educante. Nella famiglia, i genitori sono sempre più divisi e contrapposti da una logica di difesa del proprio interesse e sempre meno uniti da un senso di condivisione del dovere e del sacrificio, mentre i figli sono sempre più abbandonati a se stessi, al computer e alla televisione, e sempre meno abituati ad assumersi impegni e responsabilità.

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I meravigliosi tempi dell’individualismo di massa: nei quali ciascuno pretende di far valere e di vedersi riconosciuta dagli altri una clamorosa eccezionalità sulla base di non si sa quali meriti speciali, ma nessuno è disposto a farlo nei confronti degli altri!

Nel lavoro, la professionalità è in caduta libera, insieme alla precisione, alla puntualità, allo scrupolo deontologico. Nei condomini, nei quartieri, il civismo e le norme di buon vicinato sono pressoché scomparsi e ciascuno si regola come crede, anche calpestando le norme più elementari della convivenza e della buona educazione. Nella scuola, gli insegnanti hanno smesso di pretendere rispetto e disciplina e i giovanissimi hanno smesso di averne nei loro riguardi; quanto a contribuire alla formazione del pensiero critico dei bambini e dei ragazzi, si direbbe che ormai la scuola operi semmai nel senso diametralmente opposto. Nella chiesa, un numero crescente di sacerdoti e di vescovi ha smesso di confortare e sostenere i credenti nella fede, per trasformarsi in sociologi, sindacalisti, ecologisti, ambientalisti, e naturalmente fautori a oltranza dell’immigrazione selvaggia spacciata per dovere cristiano. Giudici e magistrati non sembrano più capaci di interpretare il codice a tutela dei cittadini onesti, laboriosi e rispettosi della legge, bensì impegnati a cercare cavilli per mezzo dei quali alleggerire le sanzioni contro i delinquenti. Negli ospedali e presso gli ambulatori della pubblica sanità il rapporto fra medico e paziente si appiattisce sempre di più su una mera somministrazione di farmaci e prescrizione di terapie, senza andare alla radice dei fenomeni degenerativi della salute, cercando di prevenirli con stili di vita adeguati; e, soprattutto, dando sovente l’impressione, come è stato nel caso delle vaccinazioni obbligatorie, che l’interesse prevalente dell’azione sanitaria non sia quello di tutelare il benessere dei cittadini, ma piuttosto di agire in maniera conforme agli interessi delle multinazionali farmaceutiche.

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Oggi i vecchi fra poco si vedranno negato non solo il diritto di voto, ma anche il diritto di esistere, e saranno invitati con discrezione, ma anche con fermezza, a fare in modo di non gravare più a lungo sulle casse statali!

Perché siamo diventati così?

di Francesco Lamendola

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FIGLI PROPRIETA’ DELLO STATO?

                                          
    Secondo Matteo Renzi:“Tutti devono mandare i figli all’asilo nido, anche coloro che non lavorano”? Al tempo di Bibbiano, meglio un nonno, una zia o chiunque ami un bambino che lasciarlo nelle grinfie di lupi travestiti da agnelli 
di Roberto Pecchioli  

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Matteo Renzi, nel recente duello televisivo con l’altro Matteo, il leghista Salvini, ha pronunciato una frase che lo situa nella categoria dei nemici, non in quella degli avversari. Secondo il Buffalmacco fiorentino, “tutti devono mandare i figli all’asilo nido, anche coloro che non lavorano”. I bambini, dunque, sono proprietà dello Stato, legittimato a educarli fin dalla prima infanzia, sottraendoli ai genitori, svuotando ulteriormente quel che resta della famiglia, il ruolo dei nonni, dei fratelli, quando ci sono, e dei parenti. No. L’affermazione, grave e sinistra, deve essere rigettata in radice.
I figli non sono una proprietà di chi li ha generati, ma ad essi incombe il diritto e il dovere di accoglierli, educarli, avviarli al mondo della vita. A loro e a nessun altro. Sequestrare gli infanti per riunirli negli asili significa spogliare i genitori di responsabilità e soprattutto iniziare a manipolare le generazioni sin dalla culla. Non siamo proprietà statale, nessuno metta le mani sui bambini, già costretti a vaccinazioni di dubbia utilità, sballottati fuori di casa dal ritmo frenetico, innaturale del nostro tempo, lontani dalla madre, dal calore domestico.  
Ogni Stato è una dittatura, affermava Antonio Gramsci; i cosiddetti democratici e progressisti si incaricano di dargli ragione. La definizione di Ezra Pound è più pregnante: controllo sociale attraverso la sistematica applicazione della forza di una società politicamente organizzata. Temiamo che la proposta renziana sia musica per le orecchie di qualche genitore postmoderno, interessato, per fastidio o magari per difficoltà pratiche di un sistema disumanizzante, a parcheggiare i figli in luoghi “sicuri”. A noi invece spaventa, come ogni passo nella direzione del controllo, dell’indottrinamento generalizzato, della cancellazione del valore cruciale dell’istituto familiare.

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Sequestrare gli infanti per riunirli negli asili significa spogliare i genitori di responsabilità e soprattutto iniziare a manipolare le generazioni sin dalla culla!

Chiediamo scusa al lettore se insistiamo con alcune citazioni. Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, riconobbe indirettamente il ruolo del sangue, oggi denigrato se non deriso, come fondamento della famiglia, nucleo della comunità. “La famiglia non è unicamente un gruppo di consanguinei. E’ un gruppo di individui che si sono trovati uniti all’interno di una società per una più stretta comunanza di idee, di sentimenti e di interessi.” Anche il comunismo sovietico, uscito dalla fase rivoluzionaria, dette a suo modo rilievo all’istituto familiare. Un documento del 1939 del Commissariato Sovietico della Giustizia è illuminante: “lo Stato non può esistere senza la famiglia. Il matrimonio è un valore positivo per lo Stato socialista sovietico solo se la coppia lo considera un’unione per la vita. Il cosiddetto amore libero è un’invenzione borghese e non ha niente a vedere con i principi della condotta di un cittadino sovietico. In più, il matrimonio ha il suo pieno valore per lo Stato solo se c’è la prole e i coniugi sperimentano la piena felicità dell’essere genitori”.
Un brano siffatto non potrebbe essere diffuso oggi senza essere accusato di cripto fascismo e, perché no, di sessismo eteropatriarcale. Dal punto di vista etico, il progressismo a cui si è convertita la nostra società, guidata dalla cultura “di sinistra” ma con le redini saldamente in mano al capitalismo assoluto, è ben peggiore del comunismo. In Italia, ne abbiamo prove schiaccianti: l’oscura vicenda di Bibbiano ha squarciato il velo su soperchierie, ricatti, autentici crimini contro i bambini, sottratti alle famiglie, e contro genitori privati dei diritti da un coacervo di “esperti” e burocrati ideologicamente orientati.
Il loro potere deve essere colpito senza indulgenza e intanto fatto conoscere alla cittadinanza come uno degli elementi più rivoltanti di una sedicente democrazia malata, sempre più proclive a praticare violenza di Stato legalizzata. Proteggere l’infanzia dalle fauci del potere diventa un gesto di libertà, autodifesa, apertura verso il futuro. Siamo entrati a vele spiegate nel sonno della ragione che genera mostri. Perfino il comunismo, che considerava l’intera società una sua proprietà, rispettava, sia pure per interesse, i genitori e il loro ruolo assai più della società falsamente libertaria post 1968 e post 1989.
Abbiamo tutti imparato a guardare il mondo attraverso lo sguardo di chi ci amava e aveva il nostro sangue. Riconosciamo i guasti di famiglie eccessivamente chiuse, ma vediamo i drammi esistenziali di figli cresciuti senza genitori o con genitori assenti. La perdita del padre, della sua autorità naturale, del suo ruolo di prima legge, nonché di protezione e garanzia, è una delle storiche tragedie dell’ultimo mezzo secolo. Lo Stato non è una madre e tanto meno un padre, ma un organismo interessato a riprodurre se stesso manomettendo la libertà, manipolando i cervelli in formazione dei bambini, futuri soldatini del sistema costituito, addestrati al conformismo, scoraggiati al libero pensiero.

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Non siamo proprietà statale, nessuno metta le mani sui bambini, già costretti a vaccinazioni di dubbia utilità, sballottati fuori di casa dal ritmo frenetico, innaturale del nostro tempo!

Tutto questo, per il dominus del nuovo governo Matteo Renzi, proconsole dei poteri forti transnazionali, è un bene e deve essere realizzato sin dall’infanzia, sottraendo i figli alle loro famiglie. Esperimenti della specie, da Platone a Sparta sino al maoismo e alla follia di Pol Pot sono rapidamente degenerati in distopia, tirannia, buio culturale, asfissia morale.
Non vogliamo fanciulli di Stato – di uno Stato privo di autorevolezza, servo di poteri esterni – ma generazioni formate dalla e nella famiglia. Contemporaneamente a Renzi, ci è toccato ascoltare altre castronerie. Beppe Grillo, dimentico della sua stessa carta d’identità, ha lanciato la boutade di togliere il voto agli anziani, probabilmente per riguadagnare credito presso i giovanissimi, a cui si fa balenare la possibilità di votare a 16 anni. Giusto l’età di Greta Thunberg, e non deve essere un caso. Manipolate, indottrinate, qualcosa resterà.
Sfidiamo l’impopolarità, ma osiamo affermare che la maggiore età a 18 anni si è rivelata un errore epocale. I giovani vivono esperienze di ogni tipo, specie le peggiori, fin dalla pubertà, ma questo non li ha resi più maturi o responsabili. La maggior parte di loro è dipendente da genitori iperprotettivi, prigioniera di idee preconfezionate assorbite dall’esterno (scuola, amici, cinema, musica), e vive nella fase adolescenziale dell’uniformità. Un gregge da pascolare nei prati indicati dal potere e tenere al riparo da pensieri non conformisti. Vogliono iniziare dai lattanti, ignara carne da cannone del mercato, del consumo, del desiderio, bestiame umano senza identità.
Michel Houellebecq, nel suo sulfureo romanzo Sottomissione, immagina che il partito islamico entrato in un governo di coalizione, voglia per sé due soli ministeri, l’Interno e l’Istruzione. Controllo del presente, costruzione del futuro. Non sono diversi i nostri autodefiniti democratici. Il ministro del governo Gentiloni Valeria Fedeli (nessuno ci farà mai scrivere ministra!) presentò un progetto intitolato, nel più plumbeo burocratese, “piano pluriennale di azione per la promozione del sistema integrato di istruzione da 0 a 6 anni“.
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Secondo Matteo Renzi:“Tutti devono mandare i figli all’asilo nido, anche coloro che non lavorano”?

I FIGLI NON SONO PROPRIETA’ DELLO STATO

di Roberto Pecchioli


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