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giovedì 3 ottobre 2019

Con i panni della virtù

La dittatura costituzionale sancisce la morte di Stato

I sommi sacerdoti addetti alle tavole della legge costituzionale hanno mantenuto la promessa fatta mesi fa che, se il Parlamento non avesse provveduto ad eliminare il reato di aiuto al suicidio, ci avrebbero pensato loro. Era suonato come un ultimatum lanciato da una posizione di superiorità istituzionale ad una entità subalterna.
Non era neppure il semplice ordine di intervenire su una materia data. Cosa che già esulerebbe dalle attribuzioni della Corte, alla quale non spetta il compito di stimolare il potere legislativo. 

Quell’ordine portava infatti anche una precisa indicazione, implicita ma inequivocabile, di contenuto. Il legislatore avrebbe dovuto intervenire sulla norma che punisce l’aiuto al suicidio nel modo più efficace per sottrarre alle patrie galere chiunque seguisse l’esempio del propagandista capo della necrofilia umanitaria dei radicali, votati alla causa della eutanasia di Stato. Costoro, raggiunto l’obiettivo solo per metà in virtù delle Dat, hanno puntato a quella eutanasia in forma obliqua che è appunto l’aiuto al suicidio. Ma c’era di mezzo l’ostacolo del codice penale che lo punisce. Finché la triste vicenda di Dj Fabo si è presentata come la ghiotta occasione da sfruttare per chiamare in soccorso una Corte Costituzionale sempre vicina ai cercatori di felicità terrena.
Una procedura stravagante dunque, quella messa in atto dalla Corte, che non lasciava dubbi sul suo esito finale, il quale si è presentato puntualmente con la pronuncia di martedì scorso, non ancora depositata ma debitamente anticipata e riassunta a dovere dall’ufficio stampa della stessa Corte. 
Così, già preparati al peggio, dal comunicato abbiamo appreso che la Corte ha ritenuto non punibile chi, a determinate condizioni, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio manifestato da chiunque si trovi in certe altre determinate condizioni. Di primo acchito, sembrerebbe di leggere il dispositivo di una sentenza del giudice ordinario, viziata da un clamoroso errore di diritto, perché applica al caso concreto una norma penale inesistente. Infatti l’articolo 580 non prevede affatto che l’aiuto al suicido altrui a certe condizioni particolari non debba essere punito. 
Invece abbiamo a che fare con una decisione della Corte Costituzionale, che è preposta a giudicare soltanto la legittimità costituzionale delle leggi, e quindi, nel nostro caso, dovrebbe limitarsi a valutare se la norma che punisce l’aiuto al suicidio sia in contrasto o meno con la Costituzione, e non ad indicare condizioni di non punibilità che la norma non prevede affatto e che servono per mandare assolto l’eventuale imputato. Quindi dobbiamo supporre che la Corte abbia dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 580 non per quello che dice, ma per quello che non dice, cioè per il fatto che non prevede i casi in cui Tizio non deve essere punito per avere aiutato Caio a suicidarsi. Capolavoro di alchimia politica prima che giuridica. 
Di certo il fenomeno non è nuovo. L’espediente di modificare il contenuto di una norma dichiarandola incostituzionale non per quello che dice ma per quello che non dice è stato inaugurato già da molti anni, e senz’altro dovremmo avere a che fare con l’ennesima sentenza di quelle che la dottrina cataloga come manipolativa, e in particolare come “additiva”, in quanto aggiunge appunto, all’interno di una disposizione, una norma ulteriore rispetto a quella per cui è stato chiesto il controllo di costituzionalità. 
Si tratta di un superamento arbitrario del potere attribuito alla Corte, che, nonostante critiche serrate, ha continuato indisturbata a produrre sentenze manipolative di ogni genere. Di sicuro gli stessi costituenti non hanno avuto abbastanza fantasia per prevedere certe distorsioni del potere da parte di questo come di altri organi istituzionali, e perciò non ne hanno ideato i possibili rimedi. D’altra parte, in un regime giuridico di diritto scritto e di Costituzione rigida come il nostro, non c’è spazio per la consuetudine, ammessa, al più, nella contrattazione agricola o immobiliare.
Ma se è abusivo il veicolo utilizzato dalla Corte, non meno abusivo è quanto vi è stato caricato sopra. 
Il provvedimento annunciato già dall’anteprima si presenta infatti come un formidabile schiaffo sganciato allo stesso sistema penale, ai suoi principi e ai suoi valori di riferimento, che vengono coinvolti e travolti. 
La premessa imprescindibile per cogliere questo contenuto eversivo è che il nostro ordinamento giuridico assume come valore primario quello della vita, che qualunque ordinamento deve difendere perché non si cada nella legge della giungla. Un valore che va tutelato indistintamente in capo ad ogni soggetto.
Infatti, anche la disposizione che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio sottoposta all’esame di costituzionalità della Corte pone la vita umana quale valore assoluto primario, laddove il suicida nega quel valore in nome della propria libertà. La legge, se non può punire il suicidio, sospende il giudizio, e per ragioni di umana comprensione, si ritrae anche di fronte a chi tenti il suicido e che dunque non viene punito.
Se però è un terzo ad incoraggiare il suicidio, riprende il sopravvento la tutela della vita che, essendo anche un valore collettivo primario, va difesa ad oltranza. Viene così sventato il pericolo che la vita di chi sia già indebolito nel proprio istinto di sopravvivenza entri sotto il controllo di una volontà esterna. Per questo la disposizione dell’articolo 580 indica laconicamente il fatto tipico senza lasciare spazi interpretativi e senza prevedere limitazioni di sorta. L’aiuto al suicidio vi è punito senza eccezioni, salva ovviamente l’applicazione delle attenuanti o aggravanti previste per tutti reati. 
Ma l’articolo 580 contiene appunto anche qualcosa di più. Contiene la consapevolezza, da parte del legislatore, che l’attentato alla vita umana da parte di un terzo può avvenire, oltreché nel modo diretto, banale, dell’omicidio volontario, anche nella forma indiretta, appunto della istigazione o aiuto al suicidio. Cioè riconosce che ogni intervento di un altro individuo nel processo psicologico che conduce al suicidio, introduce il pericolo dell’omicidio mascherato, cioè perpetrato sfruttando, manipolando o distorcendo la volontà altrui. In altre parole il legislatore penale, esperto di cose umane, non intende esporre il soggetto, indebolito moralmente, al pericolo che, dietro il paravento della sua scelta di morte, si nasconda una mano omicida, che potrebbe essere quella di un altro individuo interessato a quella morte, o la longa manus del potere. Per esempio quella che di recente ha realizzato il “suicidio” di un Epstein divenuto troppo loquace. O quella che risparmiò alla banda Baader Meinhof le noie del processo. Il bene della vita è primario e la sua difesa non tollera riserve, proprio perché il legislatore ha inteso evitare il pericolo che, allargando le maglie della norma, si potesse aprire il varco per chi volesse appropriarsi della vita altrui sotto la maschera dell’aiuto portato al suicida.
Una volta, dunque, il legislatore esperto di mondo queste cose le sapeva e le aveva ben chiare mentre scriveva le leggi. Ma poi ad oscurare l’intelligenza delle realtà umane si è levato il sole della libertà. Essa è stata messa davanti a tutti gli altri valori, senza il sospetto che da quel piedistallo avrebbe potuto ucciderli tutti, compreso quello della vita. 
Così, se il legislatore penale ha avuto ben chiaro che l’attacco alla vita può essere portato sotto mentite spoglie e non per nulla ha punito duramente anche l’omicidio del consenziente, di questo non ha avuto invece alcuna contezza il legislatore democratico e repubblicano ideatore lungimirante delle Dat, con cui è stata spalancata la porta verso l’eutanasia di Stato. Ovvero, ancora una volta, verso il nuovo sterilizzato e insonorizzato omicidio ospedaliero a carico o per conto dello Stato.
E questo calcolo elementare sembra sfuggire platealmente proprio alle magistrature superiori, che tutto dovrebbero conoscere della sapienza e delle ragioni del diritto. Sulla stessa materia ora manipolata dalla Corte Costituzionale, un primo monstrum era stato partorito dieci anni fa dalla famigerata decisione della Corte di Cassazione a presidenza Luccioli, sul caso di Eluana Englaro. Una decisione aberrante anch’essa, sotto ogni profilo, formale e sostanziale. 
Ecco dunque una Corte costituzionale che, intervenendo abusivamente sulla norma penale alla quale fa dire quello che non dice, opera anche un abuso ben più profondo, che tocca i cardini sostanziali del sistema penale, cioè la trama degli interessi protetti su cui esso è costruito, dei beni giuridici tutelati, e alla fine capovolge la stessa visione “filosofica” sulla quale questo sistema è stato costruito. 
E viene da pensare che la Corte, sicura della impossibilità per il Parlamento di assolvere il compito perentoriamente assegnatogli, in realtà avesse già elaborato il proprio disegno eversivo delle basi concettuali e filosofiche del sistema, insieme all’ennesimo colpo mortale da infliggere al principio della divisione dei poteri. 
E vediamo subito come e perché anche questa pronuncia possa essere al servizio di questo disegno.
Sappiamo come il diritto penale, con la sua mappa dei comportamenti vietati, se non si identifica con la morale, da un lato la presuppone, perché tiene conto di esigenze etiche profonde e sedimentate, e dall’altro la promuove, attraverso quella uniformità di comportamento che viene assicurata dalla sanzione.
Ora, si dà il caso che il bene della vita tutelato in capo ad un soggetto possa entrare in conflitto con quello di un altro soggetto, come nel caso in cui qualcuno aggredisca un altro e questi, per difendersi, uccida l’aggressore, rivendicando la propria non punibilità, cioè la legittima difesa quale causa di giustificazione del reato. Con essa si presuppone che il bene della vita tutelato in capo all’aggressore sia entrato in conflitto con quello dell’aggredito e che il secondo prevalga sul primo. L’aggredito non deve essere punito perché, nel bilanciamento degli interessi in gioco, il proprio diritto alla vita prevale su quello dell’aggressore. 
Nel caso del suicidio, la libertà rivendicata dal suicida di rinunciare alla vita è in conflitto con l’interesse della collettività alla propria conservazione. Ma il legislatore ha ritenuto che l’interesse alla conservazione della vita debba prevalere sulla libertà individuale e ha punito per questo chi istiga o presta aiuto al suicidio. 
La Corte, introducendo un ventaglio di condizioni per cui l’aiuto al suicidio non debba essere punito, capovolge di fatto questa prospettiva e sembra introdurre una sorta di causa di giustificazione che, nel conflitto tra il bene della vita e quello della libertà, dà la prevalenza a questo, mettendo anche da parte le ragioni per cui l’intervento del terzo nella vita altrui costituisca sempre un pericolo oggettivo. Insomma, ancora una volta intorno al totem della libertà, in un’epoca di nichilismo dominante, viene messa in scena la vecchia lotta faustiana dell’uomo contro il destino e il dolore. Intanto il ricatto di una carica emotiva a buon mercato va a disattivare ogni senso critico. 
Così, nel fumo delle commozioni moralmente obbligatorie, la macchina della morte a partecipazione statale può mettersi in moto con l’apporto pensoso del benpensante umanitario. Il quale, a questo punto, farebbe bene a leggere attentamente proprio l’antipasto fornitoci dall’ufficio stampa della Corte Costituzionale, laddove si dice che, per la non punibilità del facilitatore di suicidio, occorre che l’aspirante suicida sia affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche.
Ora, mentre ci si può chiedere se anche la calvizie possa essere considerata una patologia irreversibile capace di provocare sofferenze psicologiche, il benpensante umanitario dovrebbe porsi il problema in arrivo dei tanti aiuti liberi al suicidio liberato. Quello che può anche assicurare la ripresa economica, con tutto un fiorire di centri specializzati nel settore della facilitazione mortuaria. Magari di una catena capillarmente distribuita su tutto il territorio nazionale da intitolare a Jacopo Ortis, perché un afflato romantico venga a nobilitare il pur rispettabile aspetto imprenditoriale. Un po’ come la clinica di Udine che offrì generosa ospitalità ad Eluana Englaro: si chiamava, non a caso, “La Quiete”.
Il nostro sistema penale è sopravvissuto a tanti mutamenti politici e culturali proprio perché esprime esigenze etiche che precedono e travalicano le contingenze storiche, sociali e culturali, e le soddisfa oggettivamente guardando al bene superiore della collettività organizzata.
Se anch’esso ha cominciato ad essere attaccato è perché, più in generale, si è andato perdendo il senso della sostanza delle cose, del loro significato profondo, cioè il senso dell’essere e del dover essere. Concetti confusi o messi da parte come arnesi inutilizzabili che, uscendo dalla coscienza collettiva, lasciano un vuoto in cui affonda la stessa vita comunitaria. Un vuoto che risucchia il diritto come l’educazione delle nuove generazioni, la politica come la religione, l’arte, la riflessione filosofica. Si tratta della perdita di senso di ogni entità che, deviata dalla propria natura qualificante e dalla funzione che gli è propria, è messa al servizio di qualcos’altro. La famosa eterogenesi dei fini erode tutto il sistema dei valori di interesse collettivo.
In questo quadro, anche la perdita del senso del diritto da parte della stessa magistratura costituzionale e del legislatore, è una piaga che attacca alla base la vita pubblica e privata, mentre a tutti dovrebbe essere chiaro che il diritto non va identificato con la legge nata da questa o da quella temperie politica, ma con quel sistema di principi e valori capaci di orientare le leggi alla elevazione e alla salvaguardia fisica e morale di ogni società umana. E questa non può non essere dotata di regole etiche capaci di esorcizzare la belluinità che, ci piaccia o no, alberga nell’uomo, sempre bisognoso di essere riportato sulla via della civilizzazione. A tutti dovrebbe risultare chiaro il pericolo che viene da leggi dissennate costruite per soddisfare interessi particolari in conflitto con il bene comune, oppure da decisioni con cui li giudice piega la legge alla propria personale visione del mondo. 
Da ultimo vediamo tutta una sapienza giuridica che si spegne giorno dopo giorno in una morale umanitaria d’accatto, su misura per l’uomo svirilizzato e la donna vanesia ai quali è stato garantito il diritto alla felicità quale traguardo supremo di civiltà. Sennonché la civiltà non ha nulla a che fare con quel fantomatico diritto, inventato per alimentare la fuga dell’individuo dal proprio destino imperscrutabile e per restringerne il campo visivo alla misura del proprio ombelico. Laddove una comunità sana sa che il dolore appartiene al destino dei viventi, è il tributo pagato alla vita, e non è mai oltraggioso se riesce a saldare le anime fra loro attraverso il senso tragico della sua sopportazione. Del resto, questa della Corte Costituzionale rappresenta soltanto lo stadio più avanzato di tutto un processo in cui la manipolazione mediatica ha forgiato l’opinione pubblica, facendo leva non sui processi cognitivi ma su quelli emotivi. Per questa via, lo sfruttamento mediatico della irrazionalità individuale diventa idea e linguaggio collettivo, destinati a rifluire alla fine nelle camere di consiglio e nelle aule parlamentari. 
A tutto ciò si aggiunge la confusione che affligge il discorso pubblico, distorto spesso anche dalla conoscenza del tutto approssimativa se non inesistente dei fenomeni di cui si parla. Ovvero il contagio delle opinioni distorte è agevolato dall’abitudine diffusa di parlare soprattutto di quello che non si conosce, dalle parole in libertà elargite senza cognizione di causa. Così, ad esempio, se il brillante commentatore di una rassegna stampa, scambia la Corte Costituzionale con la Corte di Cassazione, questo non è affatto un banale lapsus privo di conseguenze, ma fonte di non innocua confusione per chi parla e per chi ascolta. Insomma, la leggerezza diffusa dell’usare le parole senza cognizione di causa genera altrettante idee confuse, e concorre a formare una opinione pubblica scollata dalla realtà delle cose. 
Alla fine di tutto, per tornare al diritto, esso deve restituire e non sottrarre la consapevolezza del limite, di quel metron che per i greci era misura stessa della ragione. La sola ancora capace di riscattarci dal pantano di una babele ordinata e guidata dall’alto, e di vedere il veleno nascosto dentro le idee vestite troppo in fretta con i panni della virtù.
Patrizia Fermani
Ottobre 3, 2019

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