Che Paese strano, l’Italia. Nel bel mezzo di una transizione da un Governo che andava a destra e poi ha virato a sinistra, ma tanto nessuno se n’è importato perché tanto il comandante è rimasto sempre lo stesso ed il nostromo che guarda alle stelle anche, si trova il tempo per spaccare un Paese tassando le merendine e cacciando i crocifissi nelle aule. Roba per bambini, verrebbe da dire. Invece è cosa seria, serissima, a giudicare dalle reazioni che avvolgono e travolgono uomini e donne delle istituzioni, ai quali forse non par vero di occuparsi di altro che non di quello per cui sono eletti e – si dovrebbe dire con linguaggio nuovo non fosse già archiviato dopo la stagione delle scatolette di tonno che non si aprono mentre il Parlamento si taglia con un grissino – pagati: tenere in ordine i conti pubblici, creare le condizioni per sviluppo e lavoro, guidare l’Italia e gli italiani fuori dalla crisi.
Invece no. Il problema dell’Italia è ripulire i muri delle scuole dai crocifissi. Crociata – va da sé, laica – lanciata dal neoministro all’istruzione con delega alla merenda, Lorenzo Fioramonti. Dice, il ministro, che uno Stato che si richiama al pluralismo ed alla laicità non deve tenere simboli religiosi nei templi dell’istruzione e preferire ad essi magari una bella carta geografica. Gli fanno eco, a contrasto, voci di autorevoli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, secondo i quali – testualmente – togliere il crocifisso dalle scuole significherebbe dar manforte a Salvini.
Se questa è l’Italia, anche se per fortuna o purtroppo lo sono, io non mi sento italiano, suggerirebbe di rispondere Giorgio Gaber. Ma ai monsignori inquietati dal pensiero di veder un giorno i cosacchi salviniani abbeverare i loro cavalli alle fontane di san Pietro, ed ai ministri in giacca e girella bisognerebbe rammentare che questo Paese, ed il Crocifisso, esigono ben altro rispetto, di sicuro altra (e più alta) considerazione. La memoria è un bene di lusso, tassato talmente tanto da essere ormai sparita dalla circolazione. Ma qualche antiquario di cose di questo e dell’altro mondo che ancora ne smercia modiche dosi al mercato nero dell’intelligenza, ricorda agli uni ed agli altri – e pure a Salvini con i suoi rosari da comizio – che la croce ed il Crocifisso sono, insieme ad altri valori, la base dell’identità morale dello spazio pubblico democratico. E che senza di essi si da vita ad uno Stato privo di identità e di un’eticità forti, come tale incapace di generare nei cittadini un senso di fedeltà e di appartenenza e debole al punto da non riuscire a non rendere astratte e come sospese nel vuoto le sue leggi. «La croce non è un palo dei romani, ma il legno su cui Dio ha scritto il suo vangelo», osservava una non cattolica come Alda Merini. A ben guardare, proprio loro, gli atei, i lontani dal cattolicesimo, i mangiapreti e quelli in fuga dalle sacrestie sono stati, e continuano ad essere, come per paradosso, i migliori e più credibili difensori del Cristo in croce. «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea di uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente», argomentava che era il 1988, in analoga situazione, la scrittrice Natalia Ginzburg, ebrea e comunista. «Che lei, da musulmano ignori che quel simbolo significa perdono senza rappresaglia, amore senza ricompensa, essere innalzati nella sconfitta, che lei tutto questo lei non lo dica da musulmano, da fratello musulmano, questo darà fiato alle peggiori trombe di questo paese», urlava nei microfoni Rai Massimo Cacciari nel 2001 randellando un urticante Adel Smith che da presidente dell’Unione musulmani d’Italia chiedeva la messa al bando del Crocifisso. «Dipendesse da me, il crocifisso resterebbe appeso nelle scuole. E non per le penose ragioni accampate da politici e tromboni di destra, centro, sinistra e persino dal Vaticano. Anzi, se fosse per quelle, lo leverei anch’io», sintetizzava nel 2009 Marco Travaglio.
Ecco: non volessero prestare orecchio a marxisti in naftalina, laici d’antan e poeti maledetti, seguissero almeno il consiglio del Direttorissimo, i neocrociati all’incontrario. Imparerebbero da lui, oltre che a fare i governi con i nemici di sempre amici di oggi, che «Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno scandalo sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione». Che sapesse già che un giorno sarebbe arrivato Fioramonti?
http://blog.ilgiornale.it/iacobini/2019/10/01/i-crociati-delle-merendine-alla-guerra-del-crocifisso/
Nella maionese spesso impazzita del dibattito italiano di inizio III millennio, finiscono incredibilmente insieme tortellini e crocifisso. Il commento di Fulvio Giuliani
La polemica sul crocifisso, nelle scuole italiane, è una specie di fenomeno carsico. Ogni tanto, qualcuno fa riemergere la proposta di “liberare” le aule italiane dall’ingombrante presenza. Una sorta di riflesso condizionato, verrebbe da pensare, per chi ritiene ancora necessari atti eclatanti, per rendere plastica la laicità dello Stato. Come se quest’ultima fosse non diciamo a rischio, ma almeno dubitabile, nell’Italia di oggi.
Un passaggio che lascia attoniti: in una società profondamente secolarizzata, ci si aspetterebbe piuttosto un colpo di reni dalla Chiesa cattolica. Un richiamo in difesa di simboli e riti ormai quasi trascurabili, nella vita civile del nostro Paese. Non certo da una parte del mondo laico (assai minoritaria, in realtà). Un accanirsi contro il simbolo per eccellenza della cristianità, che denuncia una preoccupante povertà d’analisi.
A dispetto dell’uso spericolato del rosario da parte di Matteo Salvini, fuoco d’artificio buono per la propaganda, il peso dei simboli religiosi nel dibattito pubblico italiano è ormai ben poca cosa. Non solo il ‘48 è rimasto a prender polvere nei libri di storia (e sarebbe il caso di rileggerli, per capire da dove si venga…), ma ormai la rappresentanza cattolica è così atomizzata fra tutti gli schieramenti, da essere al contempo irrinunciabile eppure molto debole nella sostanza delle scelte.
Non a caso, fra i primissimi ad analizzare lucidamente le vere, possibili conseguenze dell’appello del ministro si segnalano proprio i vescovi. Nessun riferimento angosciato ai valori religiosi o all’eredità cristiana a rischio, ma una semplice considerazione: alla fine, l’unico a trarre vantaggio dall’idea potrebbe essere il già citato Salvini e più in generale il fronte sovranista. E questo ci porta ad un’ulteriore analisi: nell’Italia di oggi, i simboli cristiani (non i valori, si badi) vengono corteggiati dalle aree più a destra dello schieramento politico e del sentimento popolare. Vissuti quasi come un’ancora di salvezza, per chi si senta minacciato dalla globalizzazione e dai mutamenti sociali.
Nulla di più lontano, in definitiva, dal messaggio evangelico, ma questo conta fino a un certo punto. Nelle stesse ore, infatti, finisce nel centro del mirino il vescovo di Bologna, per la sua proposta di offrire a San Petronio dei tortellini senza ripieno di carne, come segno di apertura e dialogo. Nella maionese spesso impazzita del dibattito italiano di inizio III millennio, finiscono così incredibilmente insieme tortellini e crocifisso, in un confuso appello a difesa dell’identità nazionale. In questa versione, un po’ sempliciotta, fatta di pochi e rassicuranti elementi.
L’idea – vecchia, come si diceva in apertura – di strappare dalle scuole italiane il crocifisso non aiuta certamente a elevare il dibattito, anzi fornisce ai teorici della fine dell’Occidente un’arma formidabile, nella sua immediatezza e inutilità.
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