Emoticon e emojis. La parola dell’anno non è una parola: è "L’emoji" ! Usiamole, per carità ma l’uomo, la sua complessità, l’universo che ciascuno racchiude in sé, è un’altra cosa e soprattutto, ha bisogno della Parola, del Logos
di Roberto Pecchioli
Conosciamo quasi tutti, ormai, gli emoticon e gli emoji, le “faccine” che utilizziamo sempre più spesso nei messaggi telefonici e nella corrispondenza elettronica, sostituti delle vecchie forme di comunicazione scritta. Le faccine hanno conquistato un riconoscimento: sono diventati “la parola dell’anno” secondo la Fondazione culturale di una delle maggiori banche europee, in collaborazione con la più importante agenzia di stampa di lingua spagnola, l’EFE. I piccoli simboli colorati della nuova comunicazione digitale entrano, per così dire, nell’ufficialità, acquisendo la dignità di un vero e proprio mezzo di espressione. La parola viene, in qualche misura, scacciata e sostituita da un codice simbolico in forma d’immagine.
La motivazione della scelta è ineccepibile: gli emoticon e gli emoji, nonché le loro evoluzioni più recenti, bitmoji, memoji, animoji fanno ormai parte della nostro alfabeto quotidiano e conquistano giorno dopo giorno nuovi spazi al di là delle conversazioni private in chat e delle applicazioni di messaggeria dalle quali è iniziato il loro uso. Un contributo ulteriore è arrivato dagli sticker e dai bitmoji, faccine “evolute” che gli utenti possono realizzare a propria immagine e somiglianza. Creare bitmoji è semplice: basta un semplice programma o un’app sullo smartphone e il gioco è fatto. L’applicazione Genies per Android e iOS crea bitmoji che, grazie alla realtà aumentata e all'intelligenza artificiale, possono essere personalizzati e animati. L’applicazione è in grado di riconoscere e riprodurre inquadrando il nostro volto circa 180 stati d’animo. La prevalenza dell’immagine sugli altri codici di comunicazione è divenuta schiacciante e desta seria preoccupazione.
Anni fa la rivista americana Time nominò “uomo dell’anno” il computer. Non vi è dubbio che sia in corso una sostituzione del naturale con l’artificiale, della persona con la macchina. Nessuna drammatizzazione, ma sorge la necessità di confrontarsi con una realtà nuova senza subirla come una fatalità o come un progresso. Non è un fatto da nulla se una fondazione legata all’universo finanziario indica come parola dell’anno qualcosa che parola non è e non ha una relazione diretta con il linguaggio verbale. Un segno dei tempi, l’evidenza di un mondo che cambia a velocità vertiginosa anche nel modo di comunicare, di esprimere sentimenti, stati d’animo, approvazione, disapprovazione, amore, odio, persino appartenenza, senza usare la parola, ovvero fuoriuscendo dal mezzo di comunicazione più importante a disposizione dell’uomo, quello che ci distanzia costitutivamente, ontologicamente, dalle altre creature.
Il vangelo postmoderno? La parola dell’anno non è una parola: è "L’emoji" ! Usiamole, per carità ma l’uomo, la sua complessità, l’universo che ciascuno racchiude in sé, è un’altra cosa e soprattutto, ha bisogno della Parola, del Logos!
La nostra diventa sempre più un’era dell’immagine, persino nell’atto più complesso della nostra relazione con il mondo esterno, esprimere idee, dare giudizi, affermare, negare con l’atto verbale prodotto dall’intelligenza. In principio era il Verbo; ora non più. La scelta della Fondazione BBVA è il frutto del lavoro di filologi, semiologi e giornalisti di primo piano: non è quindi una bizzarria, né un modo per far parlare di sé una seriosa istituzione legata al denaro. Va dunque valutata con attenzione, facendone oggetto di riflessione. Innanzitutto, un minimo di storia degli emoticon e degli emoji.
Gli emoticon apparvero negli anni 90 in Giappone (evidente il legame con la scrittura ideografica) come piccoli disegni creati con segni ortografici che talvolta si dovevano interpretare inclinando la testa. Un esempio è il segno :-) che, se guardato in verticale, somiglia alla stilizzazione di un volto umano. La loro evoluzione è avvenuta all’inizio del nuovo secolo con gli emoji, piccoli disegni con valenza simbolica, la cui diffusione “virale” ha determinato un evidente cambiamento del modo di comunicare.
Secondo gli esperti della Fondazione “gli emoticon e gli emoji non vengono a rubarci le parole e non finiremo con l’esprimerci solo con questo tipo di linguaggio. Crediamo piuttosto che costituiscano un elemento in più che contribuisce a conseguire l’obiettivo delle lingue: la comunicazione tra le persone”. Proseguono, con l’ottimismo determinista del “migliore dei mondi possibili”, affermando che “in un mondo caratterizzato dalla velocità, gli emoticon apportano agilità e concisione. In un ambiente in cui buona parte di ciò che scriviamo, soprattutto in chat e nei sistemi di messaggeria istantanea, è comunicazione orale messa per iscritto, questi elementi ci permettono di aggiungere sfumature gestuali e di intenzione che altrimenti si perderebbero”. Inoltre, segnala la nota con cui è stata conferita la distinzione di parola dell’anno, molti emoticon e emoji hanno il potere dell’universalità, ovvero possono essere compresi da persone di culture assai differenti. Un linguista spagnolo ha addirittura ipotizzato, in un intervento al congresso della Reale Accademia della Lingua, che “forse gli emoji sono quanto di più vicino al linguaggio universale l’umanità abbia mai creato “.
L’emoticom, nonostante la sua nascita giapponese, non ha la forza simbolica né il senso sacrale dell’ideogramma, non rimanda a parole concrete, principi generali. E’ una sorta di decalcomania dell’emozione, veloce e dunque transitoria!
Un’inquietante punto di vista, un eccesso di entusiasmo al quale cercheremo di rispondere tra un attimo. Dal punto di vista linguistico, le sfide sono molteplici e cominciano ad essere oggetto di opere accademiche: come usare gli emoji in testi generali, come interagiscono con le parole (o le altre parole…) e con i segni di interpunzione. Non ci permettiamo – non ne siamo all’altezza- incursioni nel territorio della semiologia, la disciplina che studia i segni linguistici e non linguistici, nella definizione del suo primo teorico, Ferdinand de Saussure “la scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale”, o nella semiotica, che ne definisce il senso filosofico (C.S.Peirce).
Preoccupa non il mezzo in sé- del resto dovremmo accusare noi stessi, che usiamo quotidianamente nelle comunicazioni via Whattsapp faccine e altri segni convenzionali- ma la continua scarnificazione dei codici attraverso cui ci esprimiamo. Il comunicato della Fondazione è chiaro: il problema è la velocità e il suo potere indiscutibile, la dromocrazia di Paul Virilio. L’obbligo, l’imperativo categorico è fare presto. Tutto deve avvenire nel maledetto “tempo reale”, l’attimo che consuma e divora se stesso come Crono i suoi figli. Il mondo-Mercato ha bisogno di semplificazione, il suo linguaggio è quello della macchina computer. Binario, una sequenza di 0 e 1, aperto-chiuso, sì-no. Nessuna sfumatura, nessuna riflessione: a quella pensano gli algoritmi. Il linguaggio umano diventa minimale, sincopato.
Già adesso, persone considerate istruite per aver conseguito diplomi e lauree non usano che un migliaio di parole. Il lessico di whattsapp, degli SMS e di twitter è ancora più povero: Facebook e le reti sociali obbligano alla concisione più totale, altrimenti non si viene letti. La gente passa e va oltre. Approfondire è fatica, soprattutto costa “tempo”, questo prezioso bene immateriale di cui non sappiamo in realtà che fare, ma che è diventato il simbolo della nostra corsa a perdifiato. Una cosa è la sintesi- sempre auspicabile, quando si parla e si scrive- un’altra è la riduzione, l’impoverimento verbale che è, inevitabilmente, limitazione e poi vuoto concettuale. Non ci fu bisogno di linguisti o semiologi, bastò uno scrittore, George Orwell per intuire che rubare le parole, torcerne i significati, vietarle o sostituirle, prima dissecca e poi dissolve i concetti, le idee, i sentimenti che le parole esprimono.
La prevalenza dell’immagine sugli altri codici di comunicazione oggi è divenuta schiacciante e desta seria preoccupazione!
Emoticon e emojis. La parola dell’anno non è una parola.
di Roberto Pecchioli
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