San Gregorio Magno, di Giorgio Vasari 
In queste ore siamo tutti impauriti dal misterioso coronavirus che proviene dalla Cina. Ora che sono stati confermati dei casi in Italia ci sentiamo tutti più esposti e fragili. In realtà per me, il virus aveva già avuto una certa importanza, in quanto ha determinato il rinvio di un viaggio a Hong Kong che io avevo già programmato da un certo tempo. Ora la paura e il sospetto verso i cinesi provocherà qualche preoccupazione nella società, un panico che, siamo onesti, in parte è anche comprensibile. Tutti ci sentiamo indifesi di fronte all’ignoto, come può essere un virus, che non si può vedere. Anzi, in questo caso è anche peggio, in quanto anche le persone asintomatiche possono contagiare con lo stesso virus. Quindi, il pericolo è potenzialmente ovunque. Inoltre, il contagio non è certamente soltanto limitato alla popolazione cinese, in quanto anche coloro che recentemente hanno viaggiato verso la Cina possono essere veicolo di questo contagio, di qualunque nazione essi siano.
Mi viene allora in mente san Gregorio magno: “Egli avrebbe anche fatto cessare la peste che affliggeva Roma portando in processione un’icona che la tarda tradizione identifica con quella dell’Aracoeli” (treccani.it). Egli fu Papa quando a Roma c’era la peste. Ovviamente l’emergenza sanitaria attuale non è neanche paragonabile a quella del sesto secolo, ma pur vero che oggi proprio la grande interconnessione che esiste a livello globale ci rende ancora più esposti. Ritengo che dovremmo riscoprire l’importanza di invocare l’aiuto divino con processioni e litanie, così come si dice che san Gregorio magno ottenne la liberazione di Roma dalla peste con la visione dell’arcangelo che riponeva la spada. Per i nostri padri, esisteva un evidente dimensione liturgica, rituale, cerimoniale, di tutta la vita. Ogni cosa era posta sotto la protezione divina, le malattie, i raccolti, tutti gli eventi che scandivano la vita umana. Oggi noi abbiamo irrimediabilmente perso questa dimensione, e questo non ci ha fatto bene, anzi ci siamo gettati in un ignoto che ci fa ancora più paura. Abbiamo perso Dio, ma non abbiamo guadagnato nulla.
Nel suo Commento al libro di Giobbe, san Gregorio magno afferma: “Nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. È certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamiamo alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25). Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell’arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l’una sia sempre sostenuta dall’altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono. L’uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”“. Ecco, questa capacità di accettare il male può venirci soltanto quando saremo ancora capaci di mettere tutto sotto la sua protezione: a peste, fame et bello, libera nos Domine! Commentando questa invocazione dalle litanie, Luciano Garofali afferma: “C’è stata un’epoca in cui il cristianesimo non era soltanto una religione ma il vero e proprio modus vivendi che regolava la vita del mondo. Tutto si conformava ad esso ogni più piccola azione, ogni modo di fare quotidiano: dal come relazionarsi con gli altri, cioè con il “prossimo”, al concepire gli spazi dove passare l’esistenza, alla stessa toponomastica delle città e dei luoghi di normale svolgimento di qualsiasi tipo di attività. E non ci si venga a raccontare che queste erano manifestazioni conseguenze dirette di un potere religioso che tendeva a soffocare qualsiasi anelito di libertà o di novità. O peggio erano lo stereotipo prefabbricato ed imposto con la forza, se non addirittura con il terrore, da un sodalizio formato dal potere temporale e da quello spirituale uniti e fusi per puntellarsi a vicenda e schiacciare la gente.Ogni cosa della vita aveva la sua attenzione anche in campo religioso ed ognuno, anche singolarmente, sentiva l’intima e forte esigenza di fare le cose con la protezione di Dio o di implorare la sua misericordia ed il suo aiuto sia in maniera preventiva, sia nel momento di chiedere conforto quando si era nella prova e nel dolore. Da un punto di vista sociale il lavoro era quello che aveva più bisogno dell’aiuto e delle benevolenza divina, per gli uomini  rappresentava la fonte di sussistenza, la possibilità di poter sopravvivere singolarmente ed anche garantire il giusto sostentamento alla propria famiglia ed ai propri cari. All’epoca l’agricoltura rappresentava l’attività di gran lunga più diffusa: essa forniva sia il lavoro sia direttamente anche i prodotti necessari alla sussistenza. Accanto a questa l’artigianato era in grado di creare tutta quella serie di prodotti collaterali che coprivano le necessità immediate più importanti: vestiario, attrezzi necessari al lavoro, prodotti utili per la casa” (maurizioblondet.it). Insomma, se abbiamo diritto di aver paura, abbiamo il dovere di cercare rimedio presso Colui che solo ce lo può dare.

di Aurelio Porfiri

(Pubblicato anche su aurelioporfiri.blogspot)

DISPACCI DALLA CINA. IL VIRUS DELLA PAURA, E IL POCO CHE SAPPIAMO.


Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il Maestro Aurelio Porfiri ci ha inviato un’edizione speciale dei suoi Dispacci dalla Cina, dedicata, come è ovvio, al coronavirus che sta attirando l’attenzione del mondo. E soprattutto pone una serie di questioni a cui ancora non è stata data risposta, e che pure sono tremendamente importanti.

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Il virus della paura
Che cosa succede con il coronavirus? Questa non è una domanda strana, in quanto bisognerebbe un attimino fare una specie di meta riflessione su quanto sta accadendo in questi giorni sull’onda della paura che proviene dalla diffusione del coronavirus originato in Cina. Certamente è importante fare attenzione a non far diffondere questo virus, ma bisogna anche riflettere su un altro tipo di virus che è originato da questo, cioè il virus della paura. Ieri, ho fatto un giro delle farmacie per cercare delle mascherine.
Queste mascherine non erano per me o per la mia famiglia, ma erano per i nostri conoscenti o familiari in Hong Kong. Infatti, nell’ex colonia britannica, le mascherine chirurgiche scarseggiano, sono diventati dei beni di lusso. Ma ho fatto una scoperta anche nella mia Roma: anche qui le mascherine sono praticamente introvabili. Io ne ho potute trovare alcune in una farmacia vicino a dove vivo, ma ne avevo girate almeno 5 o 6. Appena entravo mi dicevano: “non abbiamo mascherine!”. Alcuni farmacisti, mi hanno detto che gli acquisti di mascherine erano fatti da clienti cinesi per lo stesso scopo per cui lo volevo comprare io, cioè per mandarle in Cina. Ma ho visto anche dei clienti non cinesi, italiani o di altre nazionalità, che si premuniscono con queste mascherine quando da noi al momento il contagio riguarda soltanto due persone, e neanche di nazionalità italiana.
Certamente la paura è una cosa molto brutta, e il contagio della paura e probabilmente più rapido di quello di qualunque virus. I cinesi, anche quelli che magari vivono qui da più tempo di noi, vengono visti con sospetto, con grande diffidenza. Certamente sappiamo tutti che solitamente le comunità cinesi tendono a stare per conto loro nelle nostre città, il che non favorisce la reciproca fiducia. Però da pensare che ogni cinese è portatore del virus è veramente una esagerazione senza senso.
Non che la situazione sia comunque da prendere sotto gamba; il nostro governo ha decretato uno stato di emergenza sanitaria nazionale, e l’organizzazione mondiale della sanità ha decretato che questo coronavirus deve essere considerato come un’emergenza globale. A questo sono seguite varie decisioni da parte di numerosi Stati, inclusi gli Stati Uniti.
Ma cosa sappiamo di questo virus? Io realtà sappiamo qualcosa, ma non tantissimo. Per esempio sull’origine del virus, cosa sappiamo? All’inizio si diceva che era originato da un mercato di animali a Wuhan. Ma poi altre teorie si sono succedute. Tra conferme e smentite c’è quella del laboratorio di ricerca sui virus che è proprio in Wuhan, a non molta distanza dal mercato da dove poi il virus si è propagato.
Poi c’è il discorso dei numeri reali del contagio che ad oggi, inizio di febbraio, sono di 259 decessi e circa 12.000 contagi. Ma da Hong Kong vengono notizie che mettono a più di 70.000 il numero dei contagi, secondo modelli predittivi ritenuti affidabili.
Ce poi il mistero del RO, che misura la capacità riproduttiva dei virus. Cioè ci dice potenzialmente quante persone possono essere infettate da una persona che ha contratto il virus. Più questo RO è alto, più l’epidemia è di difficile controllo. Nei giorni scorsi è girato uno studio accademico (ma non peer review) che mette questo RO a più di 4, il che sarebbe un problema non da poco. Ma altri danno numeri diversi.
C’è poi la questione dei sintomatici e degli asintomatici. Può il virus infettare anche se la persona che lo porta è ancora asintomatica? Alcuni assicurano di sì, altri non sono così sicuri.
Poi, ed è la questione che probabilmente terrà banco nel futuro, c’è la questione del solito ritardo della Cina nel divulgare le notizie su questa epidemia. Sono di queste ore le scuse di funzionari governativi per non aver avvertito con tempestività della epidemia che si stava diffondendo.
Alcuni commentano che almeno in quest’occasione il ritardo è stato minore rispetto quello che ci fu per la SARS. Comunque sempre un ritardo che in prospettiva costerà vite umane e costi sociali enormi.
Marco Tosatti
2 Febbraio 2020 Pubblicato da  5 Commenti --

Coronavirus, gli islamici in festa: "Una punizione contro la Cina"

Secondo i follower della pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" i morti in Cina per via del coronavirus sono "una punizione divina"


Mentre salgono a 304 morti e a 14.380 i casi di infezione da coronavirus in Cina - secondo quanto riferito dai dati della Commissione sanitaria nazionale cinese, a cui si aggiunge anche la morte di un paziente cinese nelle Filippine, il primo al di fuori dei confini, che porta il totale dei decessi per coronavirus a quota 305 - c'è chi esulta sul web .
Sulla pagina Facebook Siamo fieri di essere musulmani, infatti, che conta più di 94 mila follower, la pandemia del coronavirus è stata salutata come la punizione di Allah per gli infedeli. Secondo uno dei moderatori della pagina, infatti, in Cina ci sono "1 milione di musulmani Uighuri detenuti in campi di concentramento. La Cina ha trasformato la regione autonoma Uighura dello Xinjiang in qualcosa che assomiglia a un enorme campo di internamento avvolto nella segretezza - una sorta di zona senza diritti". In allegato, una foto di Xi Jinping con il volto insanguinato.
I cinesi sono accusati dai follower della pagina di "bruciare il Corano" e "demolire le moschee". Inoltre, "nei campi di detenzione i musulmani vengono torturati e costretti al lavoro forzato". Il coronavirus, dunque, è una punizione divina contro la Repubblica popolare cinese. I commenti al post sono tutto un programma: "In effetti è vero, è una punizione di Allà (sic): il virus è originario del serpente, animale associato al demonio. Perciò è collegato anche ad Allà". Un altro ancora scrive: "Ciò che si semina si raccoglie e ora e il momento che devono raccogliere dopo tutto il male che hanno fatto verso i nostri fratelli e sorelle e verso le creature di Allah". "La Cina - osserva un altro utente della pagina -sta raccogliendo ciò che ha seminato e questo è solo l'inizio". "Allah gli ha mandato un virus che sta uccidendo un sacco di persone, allahu akbar" commenta M.Y. R.S, uno dei fan più attivi della pagina, ne è sicuro: "Questi miscredenti non sanno che devono fare i conti con Dio, eccoli adesso sono loro che vivono nell'angoscia e nella paura, eccoli adesso prigionieri dentro le loro citta. Allah akbar".
I commenti si riferiscono a ciò che accade nella regione autonoma dello Xinjiang – nella Cina occidentale – dove vivono 24 milioni di persone, la maggior parte delle quali appartenente alla minoranza etnica cinese degli uiguri. Questa popolazione ha una propria cultura, è turcofona e musulmana. Proprio qui nasce la tensione con il governo centrale. Alcune stime parlano di 1,5 milioni tra uiguri, kazaki, kirghizi e Hui internati in quelli che la comunità internazionale ha definito campi di concentramento ma che la Cina definisce semplici edifici in cui viene offerta agli ospiti "una trasformazione attraverso l’educazione”. Da qui a gioire per la morte di persone innocenti, però, ce ne passa. Ma a Facebook, sempre attentissimo quando si tratta di censurare i sovranisti o i conservatori in tutto il mondo, sembra non interessare.