Foibe, il giustificazionismo che uccide i martiri due volte
Nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti
Nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti
La Repubblica di Torino bolla la martire istriana, Norma Cossetto, come “fascista”, il Corrierone descrive pudicamente le parole oltraggiose di Vauro sulla commemorazione delle foibe con il termine “gaffe” nel sotto titolo sul giorno del Ricordo.
Il negazionismo, per fortuna, è residuale, ma gran parte della sinistra guidata dal faro tutelare dell’Anpi continua a sostenere il “giustificazionismo”. Il fascismo, l’esercito italiano, le divisioni tedesche hanno compiuto errori e nefandezze, ma ci si ostina a non voler capire che un crimine non può giustificarne un altro. Due violenze solo si sommano, non si elidono e questo continuo richiamo al prima per fare capire il dopo nasconde la solita vecchia accusa che in fondo gli infoibati erano tutti fascisti e ben li sta. Non solo è legge della giungla, ma cozza con la realtà storica dei civili, donne innocenti e pure antifascisti invisi al comunismo di Tito che furono scaraventati nelle foibe.
Non è un caso che un grande quotidiano nazionale bolli in un titolo come “fascista” Norma Cossetto specificando, nelle prime righe dell’articolo, che era iscritta ai gruppi universitari del regime. Pure l’astrofisica Margherita Hack partecipava alle gare sportive degli stessi gruppi, ma nessuno le ha mai rinfacciato un passato fascista. Per non parlare dei tanti personaggi che si innamorarono da giovani del Duce per poi cambiare idea e dedicarsi tutta la vita a condannare il fascismo.
Il giustificazionismo, anche se sotto traccia e non impugnato esplicitamente, provoca un altro effetto perverso: gli oltraggi di serie A e di serie B. Se spuntano spettri anti semiti con scritte o simboli ingiuriose per le vittime dell’Olocausto diventa, giustamente, un caso nazionale. Se in occasione del 10 febbraio ci sono decine di oltraggi alle vittime del foibe passa in secondo piano. A Trieste è comparsa una scritta ingiuriosa contro Norma Cossetto e i militanti di Casa Pound hanno affisso, in riposta, uno striscione con la scritta “partigiani assassini, infami e assassini”. Il giornaletto locale, che fa sempre parte del gruppo Repubblica, dedica una paginata con grande foto alla provocazione dell’estrema destra. Neppure una fotina sulle bandiere jugoslave con la stella rossa di Tito, carnefice degli italiani, che sventolavano al presidio antifascista il giorno del Ricordo nel centro del capoluogo giuliano con tanto di striscione che incitava alla “resistenza” in nome del negazionismo.
Due pesi e due misure che alla fine fanno gettare la maschera agli ultimi panda comunisti, come Paolo Ferrero ospite del programma Quarta repubblica. Dopo la solita litania sui crimini fascisti, che hanno provocato le foibe, alla domanda se fosse d’accordo a revocare la più alta onorificenza italiana al maresciallo Tito ha risposto di no spiegando che era un grande leader. E il boia di migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia oltre che di un quarto di milione di sloveni, croati, montenegrini, serbi, compresi i partigiani monarchici anticomunisti che combatterono pure contro i nazisti. Tutti prigionieri di guerra, in gran parte vergognosamente consegnati dagli inglesi ai titini e massacrati a conflitto finito assieme a donne, bambini, suore e preti. Giustifichiamo anche crimini di guerra di questa entità solo perchè si tratta del sangue dei vinti?
Giorgia Meloni in diretta da Nicola Porro a Quarta Repubblica. Imperdibile!
Abbiamo ricevuto e volentieri pubblichiamo una segnalazione del Prof. Tamborini di Venezia, circa la mancata commemorazione del ricordo della tragedia degli Italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, avvenuta durante la fine della Seconda Guerra Mondiale e il decennio successivo. Si calcola che i comunisti che presero il potere in quelle zone costrinsero ad abbandonare le loro case e i loro averi un numero enorme di persone calcolato tra 250.000 e 450.000; mentre rimasero vittime delle uccisioni e delle repressioni da 5.000 a 11.000 Italiani, gettati anche vivi nelle cavità carsiche dette “foibe”.
Gli esuli vennero raccolti in circa 109 centri di raccolta dislocati in varie regioni italiane, allora spesso vessati invece che confortati e aiutati. Uno dei posti che accolse gli esuli fu il Convitto Nazionale “Marco Foscarini” di Venezia, il quale ricorda l’avvenimento con un’apposita targa commemorativa posta nell’androne del Convitto stesso.
Convitto Nazionale “Marco Foscarini” - Cannaregio 4941, 30121 VENEZIA
Tel. 0415221970 - Fax: 0415239698
posta elettronica: vevc010004@istruzione.it
Ciò nonostante, quest’anno 2020 i responsabili del Convitto hanno dimenticato di ricordare l’avvenimento, perfino il giorno 10 febbraio che vi è dedicato ufficialmente.
Scrive il Prof. Tamborini:
VENEZIA: L’INDIFFERENZA DEL CONVITTO FOSCARINI CHE IGNORA IL GIORNO DEL RICORDO.
Spiace rilevare che in un luogo educativo che si eleva a “prestigioso convitto nazionale”, via sia la consueta e deplorevole dimenticanza di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le VITTIME DELLE FOIBE, dell’esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel secondo dopoguerra, storicamente accolti proprio al Foscarini.
Non una iniziativa didattica a ricordare uomini e donne trucidati, non un fiore sulla lapide posta nell’androne principale, SOLO INDIFFERENZA.
Il RETTORE NON PROVA VERGOGNA?
Proprio per i suoi compiti ed uffici, e soprattutto per la specificità storica dei fatti che proprio nel Convitto si svolsero, si auspica che, congiuntamente al collegio docenti,
concorra egli a promuovere e celebrare il “GIORNO DEL RICORDO” che rammento, è solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno ed istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92. e che lo stesso Ministero dell’Istruzione (MIUR) invita a solennizzare.
Ogni “tragedia” è dunque da celebrarsi, perché non devono più sussistere ricorrenze più o meno importanti solo perché ideologizzate e politicizzate, così come non esistono morti di serie A e B.
Proprio per la specificità storica degli eventi occorsi, il Convitto sarebbe luogo propizio per invitare le massime Autorità Istituzionali, regionali e comunali al doveroso omaggio e ricordo della ricorrenza del “Giorno del Ricordo”.
Ha ragione il Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a dichiarare oggi 10 febbraio 2020: “Le Foibe, tragedia sottovalutata e dimenticata. Il vero nemico da battere oggi è l'indifferenza”.
Esecrabili OBLIO e INDIFFERENZA che al Foscarini neppure una grande lapide riesce a scalfire.
Alessandro prof. dr. Tamborini
Plenipotenziario, docente di Scienze Religiose, Storia e Simbolismo dell’Arte Antica e Medievale.
San Marco, Venezia.
Spiace rilevare che in un luogo educativo che si eleva a “prestigioso convitto nazionale”, via sia la consueta e deplorevole dimenticanza di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le VITTIME DELLE FOIBE, dell’esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel secondo dopoguerra, storicamente accolti proprio al Foscarini.
Non una iniziativa didattica a ricordare uomini e donne trucidati, non un fiore sulla lapide posta nell’androne principale, SOLO INDIFFERENZA.
Il RETTORE NON PROVA VERGOGNA?
Proprio per i suoi compiti ed uffici, e soprattutto per la specificità storica dei fatti che proprio nel Convitto si svolsero, si auspica che, congiuntamente al collegio docenti,
concorra egli a promuovere e celebrare il “GIORNO DEL RICORDO” che rammento, è solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno ed istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92. e che lo stesso Ministero dell’Istruzione (MIUR) invita a solennizzare.
Ogni “tragedia” è dunque da celebrarsi, perché non devono più sussistere ricorrenze più o meno importanti solo perché ideologizzate e politicizzate, così come non esistono morti di serie A e B.
Proprio per la specificità storica degli eventi occorsi, il Convitto sarebbe luogo propizio per invitare le massime Autorità Istituzionali, regionali e comunali al doveroso omaggio e ricordo della ricorrenza del “Giorno del Ricordo”.
Ha ragione il Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a dichiarare oggi 10 febbraio 2020: “Le Foibe, tragedia sottovalutata e dimenticata. Il vero nemico da battere oggi è l'indifferenza”.
Esecrabili OBLIO e INDIFFERENZA che al Foscarini neppure una grande lapide riesce a scalfire.
Alessandro prof. dr. Tamborini
Plenipotenziario, docente di Scienze Religiose, Storia e Simbolismo dell’Arte Antica e Medievale.
San Marco, Venezia.
Da parte nostra facciamo notare che questa tragedia locale, che rientra nella più ampia tragedia nazionale causata dalle vicende belliche, finora non è stata oggetto di studii ufficiali, a differenza di tragedie simili accadute nello stesso periodo storico; e questo perché è ormai noto che in questo mondo affaccendato a inseguire il benessere e i miti della “Madre Terra”, i morti non sono tutti uguali: ci sono i morti e i trucidati di serie A, con in testa gli Ebrei (chissà perché!); e i morti e i trucidati di serie B, con in testa i non ebrei italiani, tedeschi e giapponesi.
Un mondo che non è strabico, ma affetto da cattiva coscienza, per aver abbandonato la pietà e la carità cristiane a favore del rifiuto di Dio e delle Sue leggi pur iscritte nelle coscienze degli uomini. E stupisce che gli stessi uomini di Chiesa dimostrino di essere affetti dallo stesso morbo, almeno al primo impatto, poiché a ben riflettere lo stupore lascia clamorosamente il posto alla constatazione che non più di uomini di Chiesa si tratti, ma di uomini del mondo, figli di una Chiesa che non è più cattolica, ma è una neochiesa asservita al Principe di questo mondo.
Senza questa constatazione non si comprenderebbe lo stato di depravazione a cui siamo ormai giunti, dove a farla da padrone è il brutto e il male invece del bello e del bene.
Tocca a chi intende resistere saldo nella Fede tenere accesa la fiaccola della Verità e trasmetterla ai nostri figli, nell’attesa dell’immancabile intervento divino che rimetterà al giusto posto ogni cosa, sia pure a costo di un immenso castigo.
Segnaliamo a questo proposito l’articolo apparso su “Ricognizioni” e scritto da Alessandro Gnocchi all’insegna «della radicale esigenza di “vivere senza menzogna”»:
“Perché i martiri delle foibe continuano a imbarazzare. Onoriamoli noi”.
Articolo redazionale
Perché i martiri delle foibe continuano a imbarazzare. Onoriamoli noi
I sacerdoti massacrati nelle foibe
Fra le molte e molte migliaia di assassinati nelle foibe vi furono almeno 50 sacerdoti. Ranieri Ponis ha dedicato alla vicenda una monografia, intitolata “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicata dalla Litografia Zenit.
Gli invasori slavi difatti cercarono di colpire anzitutto coloro che erano a vario modo parte della classe dirigente italiana o comunque punti di riferimento e di aggregazione, quali gli intellettuali, i politici, gli imprenditori, gli insegnanti, gli ecclesiastici.
L’odio nei confronti di questi ultimi derivava anche dalle convinzioni ideologiche dei partigiani jugoslavi, essendo Tito all’epoca stretto alleato di Stalin.
Dopo il totale annullamento di ogni organo civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, erano rimasti sul posto soltanto vescovi e sacerdoti in grado di rappresentare la popolazione italiana, la quale era solitamente molto religiosa. È indubbio che, fra le cause che indussero all’Esodo gli Italiani della Venezia Giulia, un ruolo importante lo abbia svolto la persecuzione religiosa, che fu portata avanti anche con il preciso intento di spingere gli Italiani ad andarsene.
L’idea di colpire gli “allogeni” nella loro fede religiosa era stata formulata già nel cosiddetto “manuale Cubrilovic”, originariamente pensato dal suo autore per scacciare gli albanesi mussulmani dal Kosovo, ma che finì applicato da costui, divenuto un’alta personalità del regime di Tito, contro gli italiani. Ostacolare od impedire la pratica religiosa, ed assieme emarginare, scacciare od uccidere il clero italiano, rimasto a costituire unico “ceto dirigente” degli italiani dinanzi agli invasori, era quindi funzionale a terrorizzare ulteriormente i giulio-veneti di ceppo italiano, colpendoli assieme nelle convinzioni cristiane, di solito radicate, e nei loro ultimi rappresentanti, gli ecclesiastici. Il “manuale Cubrilovic” suggeriva infatti di scegliere quali bersagli privilegiati i membri più rappresentativi ed autorevoli della popolazione nemica.
Il massacro dei sacerdoti italiani iniziò già nel settembre del 1943, quando le bande degli slavi presero temporaneamente controllo dell’Istria. In quel mese un gruppo di partigiani slavi sequestrò il parroco di Villa di Rovino, don Angelo Tarticchio, imprigionandolo nel castello Montecuccoli a Pisino d’Istria, che era stato adibito a carcere.
Don Tarticchio finì con l’essere ucciso dopo pochi giorni di reclusione in una fucilazione di massa. I corpi dei fucilati vennero scaraventati in una cava di bauxite. Le salme erano state legate fra di loro con filo spinato e sul capo dell’ecclesiastico era stata collocata una corona anch’essa di filo spinato.
Fra gli altri sacerdoti ammazzati dagli invasori già nel ‘43 si ritrova don Placido Sancin, parroco di San Dorligo della Valle, che fu rapito dai partigiani slavi nell’ottobre del 1943 e sparì nel nulla. Potrebbe essere stato gettato nella foiba di San Servolo, posta nei pressi di San Dorligo, poiché nella cavità sono stati ritrovati indumenti ecclesiastici.
Analogo destino toccò a don Giuseppe Gabbana, cappellano militare della Guardia di finanza, che fu ucciso da una banda il 2 marzo del 1944 nella sua abitazione a Trieste. Dopo aver aperto fiduciosamente la porta, non sospettando di trovarsi dinanzi a sicari giunti ad assassinarlo, fu massacrato a colpi di mitra e di calcio di fucile.
Vi furono poi fra le vittime dei partigiani don Nicola Fantela affogato a Ragusa con la pietra al collo il 25 ottobre 1944, don Giovanni Dorbolò, infoibato il primo maggio 1945.
Fra le molte e molte migliaia di assassinati nelle foibe vi furono almeno 50 sacerdoti. Ranieri Ponis ha dedicato alla vicenda una monografia, intitolata “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicata dalla Litografia Zenit.
Don Francesco Bonifacio nato a Pirano il 7 settembre 1912, soprannominato “el santin” in seminario ed ordinato sacerdote a Trieste il 27 dicembre 1936, fu rapito da un gruppo di “guardie popolari” e militari slavi l’11 settembre 1946. Le informazioni sul suo assassinio, conosciute con molta fatica, permettono di sapere che i titini lo picchiarono, lo denudarono, lo lapidarono ed infine lo uccisero a colpi di coltello. Il corpo forse fu bruciato, forse fu scaraventato nella foiba detta Martines. La salma non fu mai ritrovata ed il fratello che cercava sue notizie fu incarcerato.
Il vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, finì quasi linciato nel 1947 a Capodistria. Una folla fece irruzione nel seminario, fracassando la porta e gettandosi sul prelato, a cui fu strappata la croce pastorale. Poi iniziò un pestaggio durato un paio d’ore. La polizia ossia la “guardia popolare” slavo comunista fu allertata, ma non si mosse. In verità parte dei suoi membri erano fra gli aggressori del vescovo, con abiti borghesi.Le “guardie popolari”, presenti alla scena, intervennero soltanto quando fu evidente che altrimenti il vescovo sarebbe stato ucciso, il che avrebbe danneggiato l’immagine della dittatura di Tito in ambito internazionale. Monsignor Santin fu, dopo essere stato quasi ucciso e ferito al capo, espulso da Capodistria, impedendogli di tenere le celebrazioni religiose per le quali egli si era recato nella città istriana. L’aggressione al prelato fu dovuta al fatto che egli era nella diocesi triestina uno dei personaggi di riferimento cruciali per gli italiani che si opponevano all’invasione slava ed alle mire di annessione titine.
Alle uccisioni od aggressioni contro gli ecclesiastici italiani si sommarono altre violenze. Si ebbero limitazioni o proibizioni dell’attività religiosa (insegnamento, catechesi, celebrazione messe ecc. ecc. che erano soggette a forti limitazioni e restrizioni, e talora impedite.
Vi furono inoltre distruzioni di edifici sacri, fra cui un buon numero di chiese di notevole valore artistico, di stile bizantino, romanico e veneziano.
La distruzione di chiese romaniche e veneziane rispondeva certo alla volontà dei titini di cancellare persino le tracce visibili del passato italiano della regione, annientandone vandalicamente le stesse opere d’arte, come già era accaduto in Dalmazia, tuttavia si traduceva al tempo stesso nella privazione dell’intera popolazione locale italiana di edifici di culto.
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza santin
Comunicato n. 16 /18 del 9 febbraio 2018, San Cirillo d’Alessandria
Vorrei poter rendere ai martiri delle foibe tutta la pietà e tutto l’onore che questa Italia cialtrona, barbara e sanremista si rifiuta di tributare ai morti. Non dico “i suoi morti” perché non intendo imparentare anche solo sintatticamente le migliaia di martiri istriani, dalmati e giuliani con il nulla impudente steso a reti unificate sotto il sole festivaliero di Sanremo. E non dico Italia antifascista perché anche quella ormai si è dissolta e dissoluta in un libertinismo di massa che ha mantenuto il vecchio vocabolario soltanto per farsi impunemente nuovi porci comodi.
Tuttavia, anche in tale fase marcescente, gli eredi del partigianismo e le vestali dell’antifascismo anche quest’anno non si peritano di lordare con i se, i ma e i distinguo la memoria di martiri che non riconoscono. Delle vecchie lezioni alla scuola di partito hanno trattenuto l’insegnamento che i morti non sono tutti uguali, alcuni si possono vilipendere e altri no.
Cosicché, nonostante la legge e nonostante le buone intenzioni, la data del 10 febbraio non riesce ad alimentare una vera memoria del massacro di ventimila uomini, donne e bambini, infoibati, deportati e dispersi dai comunisti titini e dai loro complici italiani con la copertura delle potenze alleate e liberatrici. Per chi ancora non lo sapesse, i boia portavano i nemici da epurare sull’orlo delle foibe, li legavano tutti insieme con filo spinato, poi sparavano in testa al primo della fila che, cadendo nelle viscere della terra, si tirava dietro tutti gli altri.
Era in carica il secondo governo Berlusconi quando il 30 marzo 2004 fu approvata la legge che istituiva il ricordo di quei fatti. “La Repubblica” recita il testo “riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del ricordo’ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Non so se anche a voi fa uno strano effetto quel “Giorno del ricordo” che così palesemente suona parecchie ottave sotto quello della “memoria”. La “memoria” è collettiva, comune e condivisa, invece il “ricordo”, per quanto diffuso, rimane sempre una questione privata. Non è un caso se la legge 211 del 20 luglio 2000 usa un’altra terminologia: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
Ancora una volta, mi si dirà che è sempre meglio poco che niente. Ancora una volta risponderò che accontentarsi del poco porta inesorabilmente ad avere sempre meno, fino a tornare al niente senza alcuna possibilità di rilanciare. Giusto per buttare lì un esempio concreto: se questo sito osasse eccepire su contenuti e forme del “Giorno della memoria” verrebbe chiuso d’imperio nel consenso generale, mentre il “Giorno del ricordo” può essere infangato da chiunque senza nessuno se ne dia pena perché la storia la fanno i vincitori.
Wikipedia, l’enciclopedia online di chi non ama studiare e dunque il più potente strumento di formazione, spiega così la questione delle foibe:
La qualificazione delle concause e dei fattori che possono essere alla base dei massacri delle foibe è un’operazione senza dubbio complessa. Dall’esame dei fatti storici emergono una serie di elementi antecedenti non trascurabili, quali:
– la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra, causata dall’imporsi del concetto di nazionalità e Stato nazionale nell’area;
– gli opposti irredentismi per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all’uno o all’altro ambito nazionale, e quindi all’uno o all’altro Stato;
– le conseguenze della prima guerra mondiale con un’intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini tra il Regno d’Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;
– Il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave dalla Venezia Giulia durante il ventennio fascita;
– L’occuopaziuone militare italiana durante la seconda guerra mondiale di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile;
– La guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, che fu uno die fronti più complessi e violenti (ad esempio l’operato degli ustascia croati);
– la convinzione dei partigiani jugoslavi per la quale sarebbero stati legittimati ad annettere al futuro stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno e Istria), abitata prevalentemenete o quasi esclusivamente da croati e sloveni;
– la convinzione, diffusza fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere “nazionale”, ma anche “sociale”, con la popolazione italiana percepita anche come “classe dominante” contro cui lottare;
– la natura totalitaria e reprerssiva del costituendo regime comunista jugoslavo.
– la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra, causata dall’imporsi del concetto di nazionalità e Stato nazionale nell’area;
– gli opposti irredentismi per cui i territori mistilingui della Dalmazia, della Venezia Giulia e del Quarnaro dovevano appartenere, in esclusiva, all’uno o all’altro ambito nazionale, e quindi all’uno o all’altro Stato;
– le conseguenze della prima guerra mondiale con un’intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini tra il Regno d’Italia e il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;
– Il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave dalla Venezia Giulia durante il ventennio fascita;
– L’occuopaziuone militare italiana durante la seconda guerra mondiale di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile;
– La guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, che fu uno die fronti più complessi e violenti (ad esempio l’operato degli ustascia croati);
– la convinzione dei partigiani jugoslavi per la quale sarebbero stati legittimati ad annettere al futuro stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno e Istria), abitata prevalentemenete o quasi esclusivamente da croati e sloveni;
– la convinzione, diffusza fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere “nazionale”, ma anche “sociale”, con la popolazione italiana percepita anche come “classe dominante” contro cui lottare;
– la natura totalitaria e reprerssiva del costituendo regime comunista jugoslavo.
Citazione un po’ lunga, ma meritevole di essere letta, non fosse che per notare la fugace citazione della “natura totalitaria e repressiva” del regime di Tito posta in coda all’elenco delle possibili “concause”. Dunque, italiani in generale e fascisti in particolare se l’erano cercata. Cosa voglio oggi quei morti? Cara grazia se un governo “amico” gli abbia concesso il “Giorno del ricordo”.
Invece, quei morti continuano a porre la stessa domanda, che trascrivo io per conto loro. Non dico genericamente “un italiano”, ma arrivo all’abiezione di chiedere se “un fascista” gettato nelle foibe dai comunisti vale meno di un ebreo morto nei lager nazisti. In quanto “fascista” era, è e sarà sempre un po’ meno uomo di tutti gli altri?
Non mi interessa discutere qui il valore salvifico attribuito alla shoah persino da chi dovrebbe attribuirlo solo ed esclusivamente a Nostro Signore Gesù Cristo. Ma non mi si venga a dire che il male comunista è stato un un male minore rispetto a quello nazista assoluto per acclamazione universale. Il male assoluto non esiste, altrimenti non esisterebbe Dio e, quindi, non esiterebbe il mondo.
Ripeto la domanda: un “fascista” è un uomo che vale meno degli altri uomini e dunque non è un uomo? Il suo assassinio vale meno degli altri assassinii e dunque non è un assassinio? La sua vita vale meno delle altre vite e dunque non è vita? E per “fascista” la mia indole antagonista intende chiunque non sia gradito al sistema.
A chi si accontenta del poco voglio dire che bisogna chiedere tutto. Bisogna porre instancabilmente e continuamente le stesse domande che possono avere solo una risposta vera e legittima. Solo così si svela l’ipocrisia dei sistemi di “natura repressiva e totalitaria”. Bisogna essere portatori della radicale esigenza di “vivere senza menzogna” perché solo così, ci ha insegnato Solženicyn, si mette in crisi il potere iniquo, che è in grado di assorbire tutto tranne il fatto di essere interpellato sulla verità.
Intanto, diciamolo noi che quei martiri sono uomini come tutti gli altri. Il nostro onore e la nostra pietà non glieli può sottrarre nessuno.
Alessandro Gnocchi 10 Febbraio, 2020
I 50 preti uccisi nelle foibe
La memoria infoibata: i 50 preti uccisi nelle foibe
I sacerdoti massacrati nelle foibe
Fra le molte e molte migliaia di assassinati nelle foibe vi furono almeno 50 sacerdoti. Ranieri Ponis ha dedicato alla vicenda una monografia, intitolata “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicata dalla Litografia Zenit.
Gli invasori slavi difatti cercarono di colpire anzitutto coloro che erano a vario modo parte della classe dirigente italiana o comunque punti di riferimento e di aggregazione, quali gli intellettuali, i politici, gli imprenditori, gli insegnanti, gli ecclesiastici.
L’odio nei confronti di questi ultimi derivava anche dalle convinzioni ideologiche dei partigiani jugoslavi, essendo Tito all’epoca stretto alleato di Stalin.
Dopo il totale annullamento di ogni organo civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, erano rimasti sul posto soltanto vescovi e sacerdoti in grado di rappresentare la popolazione italiana, la quale era solitamente molto religiosa. È indubbio che, fra le cause che indussero all’Esodo gli Italiani della Venezia Giulia, un ruolo importante lo abbia svolto la persecuzione religiosa, che fu portata avanti anche con il preciso intento di spingere gli Italiani ad andarsene.
L’idea di colpire gli “allogeni” nella loro fede religiosa era stata formulata già nel cosiddetto “manuale Cubrilovic”, originariamente pensato dal suo autore per scacciare gli albanesi mussulmani dal Kosovo, ma che finì applicato da costui, divenuto un’alta personalità del regime di Tito, contro gli italiani. Ostacolare od impedire la pratica religiosa, ed assieme emarginare, scacciare od uccidere il clero italiano, rimasto a costituire unico “ceto dirigente” degli italiani dinanzi agli invasori, era quindi funzionale a terrorizzare ulteriormente i giulio-veneti di ceppo italiano, colpendoli assieme nelle convinzioni cristiane, di solito radicate, e nei loro ultimi rappresentanti, gli ecclesiastici. Il “manuale Cubrilovic” suggeriva infatti di scegliere quali bersagli privilegiati i membri più rappresentativi ed autorevoli della popolazione nemica.
Il massacro dei sacerdoti italiani iniziò già nel settembre del 1943, quando le bande degli slavi presero temporaneamente controllo dell’Istria. In quel mese un gruppo di partigiani slavi sequestrò il parroco di Villa di Rovino, don Angelo Tarticchio, imprigionandolo nel castello Montecuccoli a Pisino d’Istria, che era stato adibito a carcere.
Don Tarticchio finì con l’essere ucciso dopo pochi giorni di reclusione in una fucilazione di massa. I corpi dei fucilati vennero scaraventati in una cava di bauxite. Le salme erano state legate fra di loro con filo spinato e sul capo dell’ecclesiastico era stata collocata una corona anch’essa di filo spinato.
Fra gli altri sacerdoti ammazzati dagli invasori già nel ‘43 si ritrova don Placido Sancin, parroco di San Dorligo della Valle, che fu rapito dai partigiani slavi nell’ottobre del 1943 e sparì nel nulla. Potrebbe essere stato gettato nella foiba di San Servolo, posta nei pressi di San Dorligo, poiché nella cavità sono stati ritrovati indumenti ecclesiastici.
Analogo destino toccò a don Giuseppe Gabbana, cappellano militare della Guardia di finanza, che fu ucciso da una banda il 2 marzo del 1944 nella sua abitazione a Trieste. Dopo aver aperto fiduciosamente la porta, non sospettando di trovarsi dinanzi a sicari giunti ad assassinarlo, fu massacrato a colpi di mitra e di calcio di fucile.
Vi furono poi fra le vittime dei partigiani don Nicola Fantela affogato a Ragusa con la pietra al collo il 25 ottobre 1944, don Giovanni Dorbolò, infoibato il primo maggio 1945.
Fra le molte e molte migliaia di assassinati nelle foibe vi furono almeno 50 sacerdoti. Ranieri Ponis ha dedicato alla vicenda una monografia, intitolata “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicata dalla Litografia Zenit.
Don Francesco Bonifacio nato a Pirano il 7 settembre 1912, soprannominato “el santin” in seminario ed ordinato sacerdote a Trieste il 27 dicembre 1936, fu rapito da un gruppo di “guardie popolari” e militari slavi l’11 settembre 1946. Le informazioni sul suo assassinio, conosciute con molta fatica, permettono di sapere che i titini lo picchiarono, lo denudarono, lo lapidarono ed infine lo uccisero a colpi di coltello. Il corpo forse fu bruciato, forse fu scaraventato nella foiba detta Martines. La salma non fu mai ritrovata ed il fratello che cercava sue notizie fu incarcerato.
Il vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, finì quasi linciato nel 1947 a Capodistria. Una folla fece irruzione nel seminario, fracassando la porta e gettandosi sul prelato, a cui fu strappata la croce pastorale. Poi iniziò un pestaggio durato un paio d’ore. La polizia ossia la “guardia popolare” slavo comunista fu allertata, ma non si mosse. In verità parte dei suoi membri erano fra gli aggressori del vescovo, con abiti borghesi.Le “guardie popolari”, presenti alla scena, intervennero soltanto quando fu evidente che altrimenti il vescovo sarebbe stato ucciso, il che avrebbe danneggiato l’immagine della dittatura di Tito in ambito internazionale. Monsignor Santin fu, dopo essere stato quasi ucciso e ferito al capo, espulso da Capodistria, impedendogli di tenere le celebrazioni religiose per le quali egli si era recato nella città istriana. L’aggressione al prelato fu dovuta al fatto che egli era nella diocesi triestina uno dei personaggi di riferimento cruciali per gli italiani che si opponevano all’invasione slava ed alle mire di annessione titine.
Alle uccisioni od aggressioni contro gli ecclesiastici italiani si sommarono altre violenze. Si ebbero limitazioni o proibizioni dell’attività religiosa (insegnamento, catechesi, celebrazione messe ecc. ecc. che erano soggette a forti limitazioni e restrizioni, e talora impedite.
Vi furono inoltre distruzioni di edifici sacri, fra cui un buon numero di chiese di notevole valore artistico, di stile bizantino, romanico e veneziano.
La distruzione di chiese romaniche e veneziane rispondeva certo alla volontà dei titini di cancellare persino le tracce visibili del passato italiano della regione, annientandone vandalicamente le stesse opere d’arte, come già era accaduto in Dalmazia, tuttavia si traduceva al tempo stesso nella privazione dell’intera popolazione locale italiana di edifici di culto.
Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza santin
Comunicato n. 16 /18 del 9 febbraio 2018, San Cirillo d’Alessandria
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