La sospensione delle Messe e il rapporto tra Chiesa e Stato
Tra i tanti motivi di riflessione innescati dalla vicenda del coronavirus, uno riguarda sicuramente il rapporto tra la Chiesa e lo Stato.
Abbiamo visto che i decreti governativi, sempre più stringenti a causa della gravità dell’epidemia, hanno sospeso tutte le attività “di carattere culturale, ludico, sportivo, religioso e fieristico”. E abbiamo visto che, parallelamente, la Conferenza episcopale italiana ha accolto tali provvedimenti sospendendo le Messe con il concorso di fedeli.
Che cosa dicono a me – credente, cattolico e praticante – queste due decisioni parallele?
Mi dicono che il governo ha di fatto equiparato le cerimonie religiose a tutti gli altri eventi che si svolgono in luoghi pubblici, come cinema, teatri, discoteche, stadi, fiere, sale scommesse e sale bingo. E che la Cei, decidendo di non far celebrare le Messe in pubblico, ha aderito a tale equiparazione.
Ora, è chiaro che, alla luce di questi comportamenti, occorre riflettere sul rapporto tra lo Stato e la Chiesa.
Ho chiesto in proposito una riflessione al professor Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, ed ecco qui di seguito valutazioni che molto gentilmente ha voluto inviare a Duc in altum.
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La sospensione delle Sante Messe con il popolo da parte della Conferenza episcopale italiana ha posto numerosi problemi relativi al rapporto tra Stato e Chiesa e, più in generale, tra l’ordine della politica e l’ordine della religione cattolica.
La decisione è stata presa dal governo italiano e la Chiesa si è adeguata e ha obbedito, anche se da un punto di vista giuridico avrebbe potuto non farlo. Il decreto governativo assimilava le assemblee religiose alle attività ludiche di gruppo e ciò esprimeva una concezione atea e secolarizzata della religione. Questa considerazione atea e secolarizzata è del resto effetto del principio della libertà di religione, dato che questo non considera nessuna religione come essenzialmente connessa con l’autorità politica. Secondo il principio della libertà di religione, tutte le religioni possono avere rapporti con l’autorità politica, ma siccome nessuna “deve” averli, la politica può sospendere la libertà di culto temporaneamente e per motivi di interesse generale. Accettando la sospensione delle messe per decreto governativo, la Chiesa ha accettato il principio della libertà di religione e il dovere/diritto dello Stato di sospenderlo per motivi eccezionali. Ha anche accettato che lo Stato considerasse la religione cattolica alla stessa stregua di ogni altra religione, ossia avente un rapporto accidentale e non essenziale con la politica stessa.
Il principio della libertà di religione e dell’uguaglianza delle religioni è essenzialmente ateo, in quanto non ritiene che il Dio della religione cattolica debba avere un posto nella pubblica piazza. La vita politica può essere sé stessa e conseguire i propri obiettivi senza Dio. Senza nessun Dio e quindi anche senza il Dio della religione cattolica. Una simile posizione si chiama “naturalismo politico”: l’ordine della ragione politica è l’ordine naturale che non ha bisogno dell’ordine soprannaturale per essere sé stesso. Il naturalismo politico è fonte di secolarizzazione, ossia di indipendenza di ogni livello dal livello superiore e trascendente. Il naturalismo politico è ateo, in quanto prescinde da Dio, ed essere ateo non vuol dire essere laico. Essere senza Dio non significa essere laici, significa essere senza Dio. Essere senza Dio vuol dire escludere Dio dalla vita pubblica o, al massimo tollerarlo in forma non necessaria ma contingente. Anche questa tolleranza è però già una esclusione. Non vale quindi distinguere tra una laicità moderata e il laicismo, perché ambedue escludono Dio. Quando il piano naturale si rende indipendente c’è già laicismo e non solo laicità. Quando la ragione politica esclude Dio, anche nella forma liberale e democratica della libertà di religione, essa fa di sé stessa una religione, perché per escludere Dio serve una affermazione di sé a carattere assoluto. La presunta laicità diventa quindi inevitabilmente laicismo antireligioso.
I vescovi italiani, accettando la sospensione delle messe, hanno accettato l’estromissione di Dio dalla sfera pubblica. Non è sufficiente però accusare lo Stato di non aver rispettato in questo modo il principio della libertà di religione. E sarebbe sbagliato che i vescovi pensassero di aver contribuito, con la loro decisione, al bene comune, perché sarebbe come dire che il bene comune non ha bisogno di Dio e, quindi, accettare una politica atea, autosufficiente nel determinare cosa sia il bene comune e nel perseguirlo.
I ragionamenti possono fermarsi lungo la strada oppure arrivare fino in fondo. Se in questo caso si vuole arrivare fino in fondo bisogna rivendicare per la religione cattolica il diritto di ritenersi non solo accidentalmente ma essenzialmente connessa con il bene comune politico, il quale non ci può essere senza il fondamento religioso (e non solo di solidarietà sociale) della Chiesa e del cattolicesimo. Non perché questa religione è presente storicamente in Italia, non perché può dare molti aiuti materiali e sociali, non perché le preghiere rasserenano e danno speranza civica (insieme ce la faremo!), ma perché è la religione del Creatore e del Salvatore, è la religione vera, che sostiene e rafforza ogni altra verità e senza della quale, alla lunga, ogni verità viene meno.
Rivendicando questa pretesa, i vescovi non avrebbero dato prova di integralismo, ma avrebbero consentito alla politica di essere veramente laica, ossia laica in senso vero. La politica che chiude le chiese non è laica, in quanto pone in essere un atto a valenza religiosa anche se di senso contrario alla religione delle chiese che vengono chiuse. La politica veramente laica è quella che tiene le chiese aperte perché sa di averne bisogno come politica. Essa non diventa con ciò fede religiosa, rimane politica, e si preserva dal diventare una nuova religione laica e atea. Tra l’accettazione per motivi essenziali della religione cattolica a sostegno della politica e la sua esclusione laica non ci sono vie di mezzo e a nulla vale pensare ad una laicità come una via di mezzo. Essa non esiste.
Stefano Fontana
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Trovo che le osservazioni del professor Fontana siano quanto mai pertinenti e ci aiutino a distinguere la vera laicità da quella falsa.
Quanto alla Chiesa, come ha osservato lo stesso professor Fontana in altri suoi interventi, occorre sottolineare che essa, facendo propri i decreti del governo, non ha minimamente preso in considerazione il valore pubblico della fede religiosa. Paradossalmente, lo hanno fatto alcuni sindaci, che sono andati nelle chiese a pregare, indossando la fascia tricolore (e quindi non a titolo personale, ma come rappresentanti della comunità) per affidare le loro città alla protezione celeste.
Sono d’accordo con Marco Begato quando, in un intervento per l’Osservatorio cardinale Van Thuân, dice che i decreti governativi emessi durante l’epidemia di coronavirus probabilmente non sono stati formulati con l’intento esplicito di esprimere una visione atea e antireligiosa della vita sociale. È assai probabile che il problema non si sia neppure posto a chi li ha redatti. Semplicemente, con quella equiparazione delle cerimonie religiose a quelle culturali, ludiche, sportive e fieristiche, i decreti hanno espresso una visione che appartiene ormai al senso comune. Non di meno, tale visione non dovrebbe appartenere ai vescovi, i quali avrebbero dovuto sollevare obiezioni.
Capisco che i provvedimenti hanno avuto un carattere d’urgenza, ma credo che non sia stata l’urgenza a determinare l’equiparazione del fenomeno religioso a tutti gli altri, bensì, appunto, il senso comune, secondo il quale una celebrazione eucaristica, proprio come una partita di calcio, è solo un’adunanza di individui, e una chiesa, proprio come un cinema, una discoteca o un padiglione fieristico, è solo un contenitore di gente.
Che lo Stato si sia comportato così, dunque, non mi sorprende. Triste e sorprendente, invece, è che i pastori si siano allineati, come scrive Begato, sine glossa, ovvero senza obiezioni né distinguo.
Lungi da me, in questo momento, la volontà di alimentare polemiche e contrapposizioni. Rivendico però la libertà di interrogarmi e, così facendo, rilevo che i vescovi, con il loro comportamento, hanno determinato un precedente di una certa portata.
Begato sul punto è molto diretto, e mi sento di condividere il suo giudizio: “L’epidemia ci consegna una comunità ecclesiale prostrata allo Stato”. Il che significa che quando, se Dio vorrà, il virus sarà stato sconfitto, tutta questa vicenda ci avrà consegnato una Chiesa “inerme e passiva”.
A.M.V.
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