al tempo del coronavirus
La parola d’ordine, anzi l’ordine e basta, è rimanere a casa, non spostarsi se non per necessità. Le misure preventive adottate dal governo si traducono di fatto in una ingiunzione di restare agli “arresti domiciliari”, ne fa fede la multa e ancor più l’addebito di un reato penale.
Eppure certi provvedimenti sono necessari, poiché la situazione è tale che bisogna comportarsi in un certo modo e non in altri. Ma qui scatta il primo allarme.
Come può essere facile adottare un certo comportamento difensivo, diciamo così, quando da diversi decenni si è sviluppata la convinzione che è possibile fare come a ognuno di noi sembra meglio e… giusto?
Eppure certi provvedimenti sono necessari, poiché la situazione è tale che bisogna comportarsi in un certo modo e non in altri. Ma qui scatta il primo allarme.
Come può essere facile adottare un certo comportamento difensivo, diciamo così, quando da diversi decenni si è sviluppata la convinzione che è possibile fare come a ognuno di noi sembra meglio e… giusto?
Per decenni siamo stati bombardati da parole d’ordine che ci suggerivano il “fai da te”, e condannavano ogni comportamento legato ad una vita da vivere “in relazione a”… in relazione ai genitori, in relazione al coniuge, in relazione ai figli, in una parola in relazione alla famiglia; e di seguito in relazione alla comunità di appartenenza.
Ma la famiglia e la comunità di appartenenza, ci avevano detto, non possono vincolare e condizionare la nostra libertà individuale e la nostra autorealizzazione. Ed oggi eccoci qui, costretti per “decreto” a comportarci in funzione del bene della comunità.
Improvvisamente si è riscoperta la comunità e, soprattutto, il bene della comunità, e questa coperta ci ha costretti a rimanere “in famiglia”.
Se si riflette un po’ ci si accorge che siamo come avvitati in una morsa: abituati a dileggiare la comunità in cui viviamo, per esaltare la “comunità globale” in cui non viviamo, ma in cui crediamo artificialmente di vivere, oggi siamo “obbligati” a pensare al bene di quella stessa comunità che abbiamo dileggiato.
Abituati a minimizzare la famiglia, per esaltare e privilegiare i rapporti interpersonali, liberi e disinibiti, oggi siamo “obbligati” a rimanere isolati in quella stessa famiglia che pensavamo non avesse una vera esistenza, se non provvisoria e extra dipendente.
Ma la cosa che colpisce ancor di più è che in un mondo in cui da decenni si predica e si pratica che non esistono dei veri principii regolatori, morali e comportamentali validi per tutti, in un tal mondo che abbiamo sviluppato all’insegna dell’essere principio a se stessi, oggi siamo “obbligati” a vivere, fin nelle piccole cose, in ossequio al bene comune, in ossequio cioè ad uno di quei principii che non avrebbero dovuto esistere, o non esistere più.
Se ci si pensa un po’, si capisce che un invisibile “virus” è stato capace di ricondurci alla realtà, seppure in maniera coercitiva. Ed era logico che fosse così, perché l’uomo può convincersi che non c’è niente di meglio di se stesso per vivere con gli altri, ma poi è costretto, per logica intrinseca, a riconoscere che anche quegli “altri” hanno la loro importanza e il loro valore, senza di che anche il valore personale svanisce nell’immaginario e nell’irreale.
Ma poi… è proprio vero che tutto questo è opera di un invisibile “virus”? A noi viene da pensare che il “virus” sia solo un mezzo, uno strumento utilizzato da un qualcosa o un qualcuno che ha voluto avvisarci che è giunto il tempo per rivedere tutte le supposte certezze che ci hanno accompagnato in questi ultimi decenni. Non solo, ma tale ripensamento va condotto, non solo nei confronti dei convincimenti personali, ma anche e soprattutto nei confronti dei convincimenti collettivi.
Tale processo, che si presenta come opportuno e necessario, equivale, però, ad una sorta di revisione dello stesso concetto di “civiltà”, la quale, alla luce di quanto considerato, appare essere stata piuttosto una “inciviltà“. Ma qui nasce un problema, tutt’altro che piccolo.
Come si può ripensare il concetto di “civiltà”, senza essere certi innanzi tutto di ciò che significa “civiltà”?
Il termine “civiltà” deriva direttamente dal latino “civilitas”, che sta ad indicare il contesto comportamentale legato e relativo al civis, il cittadino, contesto che comprende principii, norme e regole che realizzano un insieme “civile”, cioè idoneo a corrispondere alle istanze naturali del civis. In questa ottica, la “civiltà” è equivalente alla “cultura”, nel senso che una data civiltà si caratterizza per una sua specifica cultura. Così che si parla di civiltà romana o di civiltà moderna per indicare un contesto umano che possiede una cultura “romana” o “moderna”. La distinzione qui fatta non è casuale, perché in realtà si tratta di due diversi tipi di culture e quindi di civiltà.
Tuttavia, entrambe le culture o civiltà sono caratterizzate da principii guida che reggono tutta la struttura sociale; ed essendo due civiltà diverse, i principii guida saranno necessariamente diversi. In che cosa consiste tale differenza?
Per rispondere a questa domanda è necessario fare una premessa: il civis, il cittadino, l’uomo che fa parte di qualsivoglia contesto sociale è composto da elementi estrinsechi e da elementi intrinsechi, esattamente come è composto dal corpo e dalla mente o, meglio ancora, dal corpo, visibile e perituro, e da quella componente invisibile e imperitura che viene detta anima; cioè quella componente che, come dice la stessa parola, dà vita al corpo, “anima”, appunto, il corpo. Senza quest’anima, il corpo equivarrebbe ad un ammasso di cellule esattamente come quello di una pietra. Invece, con l’anima, il corpo dell’uomo costituisce un tutt’uno in grado di percepire il visibile e il sensibile e di cogliere l’invisibile e il non sensibile. Per avere un’idea della valenza dei due fattori che compongono l’uomo, basta pensare al pensiero. Nonostante si usi dire che il pensiero abbia la sua sede nel cervello, in realtà le cose stanno alla rovescia, poiché il pensiero è del tutto indipendente dal cervello e si serve di questo per trasformare le sue realtà intrinseche in fattori percepibili dalla parte corporea dell’uomo: le sue realtà sovrasensibili in realtà sensibili. Ancora una volta ribadendo il concetto che è l’anima che “anima”, appunto, il corpo.
Da questo deriva che, intanto l’uomo è l’insieme del corpo e dell’anima, anzi dell’anima e del corpo, e poi che questi due elementi hanno una ordinazione gerarchica: l’anima è l’elemento prevalente e determinante rispetto al corpo; tale da potersi dire, giustamente, che l’uomo non è un corpo senz’anima, ma un anima che si appoggia e usa materialmente il corpo.
Tuttavia, considerato che l’uomo percepisce se stesso e la realtà in cui è immerso attraverso i suoi sensi, non meraviglia che possa accadere che egli concepisca se stesso come suggeriscono i suoi sensi, cioè in termini meramente sensibili e materiali. Ed è a questo punto che subentra la cultura.
La sua componente sovrasensibile impone all’uomo di regolare la sua esistenza tenendo conto di essa e della sua valenza: non è il corpo che muove, ma esso serve a concretizzare tutto il concretizzabile della sua componente sovrasensibile. Per fare un esempio: l’uomo è dato in natura con due valenze diverse che lo differenziano attraverso il sesso: l’uomo è quindi o maschio o femmina; e questa differenza naturale, che è comune a tutti gli esseri “animali” è funzionale alla sua sopravvivenza nel tempo: è col sesso che l’uomo perpetua se stesso dando vita ad altri uomini. Si constata allora che i due tipi di uomini, maschi e femmine, sono reciprocamente attratti per corrispondere all’esigenza vitale della procreazione; e questa attrazione porta con sé elementi di godimento che rendono desiderabile e piacevole l’accoppiamento: il fine è la nascita di un altro uomo. Ma questo fine è prevalentemente non sensibile, nonostante lo si viva in maniera sensibile: corrisponde al destino stesso dell’uomo. Un uomo e una donna che si uniscono, un maschio e una femmina che si accoppiano, lo fanno per realizzare un destino comune: solo secondariamente vivono l’aspetto sensibile di tale unione, di tale accoppiamento. Si può quindi dire che tale aspetto sensibile è meramente strumentale.
Ora, se l’uomo si lascia condurre dalle sue sensazioni finisce col capovolgere questa realtà e può convincersi che l’unione di un maschio e di una femmina abbia la sua primaria giustificazione negli elementi di godimento che rendono desiderabile e piacevole l’accoppiamento; e il capovolgimento è tale che il fine primario si finisce col relegarlo al rango di accidenti, e come tale da evitare.
Ciò che rimane è allora il mero fattore sensibile: il mezzo è diventato fine e viceversa.
Se guardiamo a questo processo utilizzando altri termini, possiamo dire che la reciproca attrazione di un maschio e di una femmina, di un uomo e una donna, genera quel sentimento naturale che si chiama amore, il quale, di per sé, non ha alcunché di sensibile, ma vive ad un livello di supersensibilità, lo stesso livello in cui risiede il destino stesso dell’uomo e che fa si che ogni unione, ogni amore, coincida con l’unità di destino dei due esseri differenziati, i quali sublimano questa differenziazione in una unità di intenti e di sentimenti.
E’ l’amore vero, che in forza di questo fine destinico, muove la vita stessa.
In questa ottica, il mezzo con cui si realizza questa perpetuazione della specie, torna a collocarsi al livello strumentale, tale che l’unione di un uomo e di una donna è una realtà che comprende e al tempo stesso trascende il godimento sensibile vissuto nell’accoppiamento.
Possiamo chiamare tale unione col nome di unione sponsale, in cui il maschio e la femmina si sentono reciprocamente, per usare una famosa metafora, un corpo solo e un’anima sola. Ma guai se si perde di vista questo aspetto primario per sostituirlo con l’aspetto secondario dell’unione: si scadrebbe inevitabilmente dall’unione sponsale all’unione carnale, che farebbe scadere l’uomo da essere dotato di anima a essere sen’anima, da uomo a bruto.
Tutto questo ragionamento per dare il senso di quanto sia importante la cultura, l’uomo ha necessariamente bisogno di coltivare la complessità della sua natura, cioè ha bisogno di imparare a mettere al posto giusto tutte le sue sensazioni e pulsioni, facendosi guidare dal sovrasensibile per regolare il sensibile; questa coltivazione si chiama appunto “coltura” o cultura; ed è questa cultura che contrassegna la civiltà, tale che se la cultura è rispettosa della realtà intrinseca dell’uomo si avrà una civiltà ordinata, diversamente si avrà una civiltà disordinata che è in realtà una non civiltà.
A questo punto possiamo tornare a dove ci eravamo interrotti, e cioè al punto in cui abbiamo considerato che un invisibile “virus” sembra aver costretto l’uomo a ritornare alla realtà. E ci chiedevamo se il “virus” non sia un mezzo usato da qualcosa o qualcuno che ha voluto avvisarci che è giunto il tempo per rivedere tutte le supposte certezze che ci hanno accompagnato in questi ultimi decenni.
Ebbene, è nostra convinzione che tale interrogativo sia in realtà una constatazione: ma chi sarebbe questo qualcuno?
Per rispondere dobbiamo utilizzare un altro linguaggio, e dobbiamo servirci di elementi “culturali” che il mondo di oggi ha volutamente accantonato per far posto a quella presunzione soggettiva che la realtà odierna del “virus” sta frantumando.
Questi elementi non sono altro che le nozioni e gli insegnamenti tipici della religione, cioè di quell’elemento culturale che svolge la funzione di collegamento, di “religio”, tra il mondo sensibile e il mondo sovrasensibile, o, detto altrimenti, tra l’aspetto naturale e l’aspetto soprannaturale dell’esistenza.
Come dicevamo sopra, l’uomo è portato a valutare la sua esistenza a partire dagli aspetti sensibili, così che a partire da questi gli è quasi impossibile cogliere gli aspetti sovrasensibili, che pure esistono e sono gerarchicamente prevalenti rispetto ai primi. Di tali aspetti del sovrasensibile il primo è la causa prima dell’esistenza, la quale, in quanto tale, non può risiedere logicamente nell’esistenza stessa, tale causa può stare solo al di fuori dell’esistenza, ed essendo la causa prima è quella che “causa”, appunto, l’esistenza stessa.
Se ci soffermiamo sul significato etimologico del termine “esistenza”, troviamo che esso deriva dalla combinazione di “ex”e di “stare”, così che “esistere” equivale allo “stare da” o allo “stare fuori da”. Da questo deriva che l’esistenza è come l’effetto della causa prima, e se la prima “sta da” o “sta fuori da”, è perché la seconda “sta in se stessa”, cioè “è”.
Ora, non è possibile che una cosa che è effetto possa comprendere se stessa senza avere conoscenza della causa che l’ha prodotta. Ma per definizione, è solo la causa che potrà comprendere il suo effetto, mentre quest’ultimo, di per sé, “esiste” senza poter comprendere la sua causa.
E’ il caso dell’uomo e della sua causa prima, che è Dio. L’uomo è stato voluto da Dio in maniera tale da portare in sé tutte le informazioni che sono in grado di ricondurlo a Dio stesso, ma distratto e deviato dalla sua componente naturale e materiale ha perduto di vista tali informazioni, così da staccarsi quasi interamente da Dio, dalla sua causa.
Ma per Dio, l’uomo non può vivere senza che tutta la sua “esistenza” non miri a ricongiungersi alla sua causa, perché esaurito il suo ciclo vitale, materiale e temporale, l’uomo deve ritornare alla sua causa, dove risiede la sua vera essenza immateriale e atemporale.
L’uomo, non potendo più fare questo da solo, per la sua deviazione, Dio ha provveduto a rinnovare e a rivitalizzare le informazioni che ha inscritto in lui, realizzando una “rivelazione” appunto, con la quale l’uomo si ritrova nuovamente informato secondo la sua stessa natura, che è poi la stessa volontà di Dio.
Tale “rivelazione” costituisce di per sé la “religio”, il rinnovato collegamento. Così che è indispensabile che l’uomo coltivi tale “religio”: praticando appunto la religione.
E’ per questo che la religione è la componente essenziale e primaria di tutta la cultura umana e di conseguenza della civiltà. Non v’è civiltà se non v’è la religione, e non vi è stata civiltà che non abbia avuto come fattore fondante la religione, e non può esserci vera civiltà se questa non è fondata sulla religione.
Qual è il dramma della civiltà moderna che oggi si trova a dover fare i conti con un invisibile “virus“ che la costringe a ritornare alla realtà? Il dramma è che tale civiltà ha preteso di relativizzare e poi abbandonare la religione, trovandosi così in balía degli elementi sensibili e avulsa dalla vera realtà, al punto che ha dovuto inventarsi quella che essa stessa chiama “realtà virtuale”. Ma l’invisibile “virus” non è una realtà virtuale e se ne ride della presunzione dell’uomo, esso fa il suo mestiere di distruttore e lascia all’uomo stesso la possibilità di riflettere sulla caducità e sulla debolezza della sua esistenza avulsa dalla vera realtà.
Quello che ci si può augurare è che questa particolare contingenza, vissuta dall’uomo di oggi che vede vacillare le sue false certezze e sperimenta la paura, possa provocare un reale ripensamento, una approfondita riflessione in grado di far muovere le menti e i cuori degli uomini in direzione di Dio.
Ma ecco che al primo dramma se ne aggiunge un altro: gli strumenti predisposti da Dio come punti d’appoggio per sollevarsi dal pantano del mondo terreno verso le vette più prossime al mondo celeste, strumenti che sono manovrati dagli uomini di Chiesa, da questi ultimi vengono distolti dal servizio a Dio a posti al servizio del mondo, e ultimamente al servizio dello stesso spirito del mondo, lo spirito del Principe di questo mondo. Come potranno fare gli uomini disposti a riflettere, a tornare a rivolgersi a Dio?
C’è un solo modo per superare quest’ultimo deviante ostacolo: innanzi tutto pregare, affidandosi alla misericordia di Dio, perché Dio illumini loro la giusta via e poi, avendo sempre presente l’imperativo che «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At. V, 29), andare alla ricerca dei sacerdoti che per volontà di Dio continuano a rimanere a Lui fedeli, attingendo per mezzo loro le grazie dei sacramenti; questo significa che occorre abbandonare alla loro sorte gli uomini di Chiesa che hanno, anche loro, voluto volgere le spalle a Dio, siano essi preti, vescovi o papi.
La via verso il Cielo è stretta e accidentata, cosparsa di ostacoli continuamente predisposti da Satana che vuole solo la perdizione degli uomini, ma Dio offre sempre agli uomini l’aiuto per superare tali ostacoli, aiuto proporzionato alle loro forze, purché gli uomini siano disposti a lottare il male e perseguire il bene, senza timore delle sofferenze e affrontando le prove che Dio manda a noi tutti per vagliare la nostra buona volontà: come l’attuale epidemia.
Occorre quindi tornare a pregare da soli e in famiglia, recitando prima di tutto il Santo Rosario e poi ogni preghiera atta a chiedere a Dio di essere misericordioso con noi peccatori, nonché ogni invocazione a Maria Santissima perché si degni di intercedere per noi presso il suo Divino Figlio, Lei che non fa mancare il suo ausilio a chi le si affida.
Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di noi peccatori.
Maria concepita senza peccato pregate per noi che ci rivolgiamo a voi.
Non prevalebunt!
di Giacomo Fedele
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