Un interessante articolo di Jeff Mirus pubblicato su Catholic Culture nella traduzione di Elisa Brighenti.
Padre Antonio Spadaro, gesuita
Padre Antonio Spadaro, gesuita
Antonio Spadaro SJ è una bella carta. All’inizio del 2017 ha twittato: “La teologia non è matematica. 2 + 2 in Teologia può fare 5. Perché ha a che fare con Dio e con la vita reale delle persone…”. Poi, un mese dopo, ha posto domande sulla definitiva restrizione dell’ordinazione di San Giovanni Paolo II ai maschi, dove il gesuita diceva di credere chiaramente che 2 + 2 non dovesse essere uguale a 4. Lo scorso settembre è stato ancora Spadaro a twittare che i giornalisti non possono più “tacere sul fatto che c’è una campagna di disinformazione contro papa Francesco che lega gli interessi americani e russi”.
E ora, l’autorevole editore del quasi ufficiale giornale gesuita vaticano La Civiltà Cattolica torna a confrontare la diffusa paura del coronavirus con le paure che lo portano al nazionalismo. In questo nuovo articolo, Spadaro mette insieme un accozzaglia di analogie tese a sostenere che, così come ci si allontana dal potenziale contatto con chi è portatore di un virus, cosi le diffuse insicurezze europee stanno portando a quella più pericolosa di tutte le malattie: una rinnovata attenzione all’identità nazionale. Dobbiamo quindi dispiegare tutti i nostri anticorpi cattolici contro questa minaccia pandemica.
Davvero?
Spadaro è nato nel 1966, il che significa che, a parte le tensioni est-ovest durante la guerra fredda, che non erano veramente nazionalistiche, non ha un vissuto personale che si riferisca alla centralità dell’ identità nazionale, se non in merito alla sua rapida erosione dopo la seconda guerra mondiale. Eppure Spadaro rappresenta una linea di pensiero comune a un certo tipo di clero nella Chiesa di oggi. È la linea di pensiero che serpeggia continuamente attorno ad un’idea isolata. Ovvero, credere che il grande pericolo per la vita, come la conosciamo, sia l’aumento di atteggiamenti non inclusivi verso le famiglie, i quartieri, le chiese e – dove è più facile denunciare sulla base di riferimenti storici – le nazioni. Ma è davvero questo il grande pericolo oggi?
Nell’esplorare questa domanda, trovo altamente sospettoso che Spadaro e i suoi compagni di viaggio non sembrino mai preoccuparsi di pericoli evidentemente molto più grandi e diffusi come la licenza sessuale, il divorzio, la rottura della famiglia, la ridefinizione del genere, la perdita di riverenza sia per Dio che per la vita umana, l’implosione di ogni senso di comunità (che richiede una visione condivisa della realtà), e la condanna universale di ogni giudizio morale al di là dei luoghi comuni privilegiati della nostra cultura secolare dominante. Siamo nel mezzo di una delle più grandi epidemie di amoralità e perdita di significato che il mondo abbia mai visto, e tutto ciò che il direttore de La Civilta Cattolica può trovare per metterci in guardia è un rinnovato interesse per l’identità nazionale, contro la costante insistenza nell’accogliere tutti, sia all’interno che all’esterno dei nostri rispettivi Commonwealth, indipendentemente dal loro background, dai loro scopi, dai loro obiettivi e dai loro valori.
Ora, ammetto liberamente che anche alcuni cattolici abbiano un atteggiamento non cristiano nei confronti degli immigrati, e che alcuni di noi si aggrappino troppo al proprio benessere economico e al senso di privilegio (ho parlato del nostro bisogno di donazioni ultimamente?) Ovviamente, tali preoccupazioni non devono essere prese ad esempio né per le Beatitudini né per il giorno del Giudizio. Ma quando il vangelo indeterminato dei nostri presunti leader spirituali è complice o colpevolmente cieco nei confronti dell’incessante distruzione moderna di tutte le identità positive – etniche, nazionali, culturali, religiose e morali – allora la prima domanda da porsi è tristemente ovvia: davvero?
Per rispondere alla domanda
Porre la domanda, naturalmente, significa rispondere. Ma per esplorare la risposta un po’ al di là di una singola parola interrogativa, mi impegnerò ad analizzare tre punti specifici. Il lettore perspicace si renderà subito conto che questi tre punti indicano una serie di priorità che contraddicono espressamente le prospettive dei tipi di leader cattolici per i quali ho scelto p. Spadaro come esempio. Inoltre, per una felice “coincidenza”, questi saranno gli stessi tre punti di San Paolo parla in quasi tutte le lettere che ha inviato alle varie comunità cattoliche in tutta la Chiesa:
La priorità della sana dottrina: “Mi rivolgo a voi, fratelli, scriveva San Paolo ai Romani, affinché prendiate nota di coloro che creano dissensi e difficoltà, in opposizione alla dottrina che vi è stata insegnata” (Rm 16,17). E agli Efesini insisteva che i doni di Cristo sono “che alcuni siano apostoli, alcuni profeti, alcuni evangelisti, alcuni pastori e maestri, per equipaggiare i santi… affinché non siamo più bambini, sballottati e portati in giro con ogni vento di dottrina, dall’astuzia degli uomini, dalla loro astuzia in astuzie ingannevoli” (Ef 4,11-14).
Al vescovo Timoteo, Paolo scrisse che doveva accusare “alcune persone di non insegnare alcuna dottrina diversa” (1 Timo 1:30), mentre al vescovo Tito scriveva insistendo sul fatto che “un vescovo… deve rimanere fedele alla parola sicura insegnata, in modo da essere in grado di dare istruzioni nella sana dottrina e anche di confutare coloro che la contraddicono” (Tt 1:7-9), e “in quanto a voi, insegnate ciò che si addice alla sana dottrina” (Tt 2:1).
Eppure così spesso il tipo di chierico e/o teologo che ho in mente mette costantemente in dubbio gli insegnamenti di Cristo, nella speranza di piacere alla cultura secolare circostante.
La necessità di una sana morale: Scrivendo ancora una volta a Timoteo, Paolo insisteva “che la legge non è stabilita per i giusti, ma per… gli empi e i peccatori, per gli empi e i profani, per gli assassini…, le persone immorali, i sodomiti…, i bugiardi, gli spergiuri e quant’altro sia contrario alla sana dottrina, secondo il glorioso vangelo del Dio benedetto che mi è stato affidato” (1 Tm 9-11).
E ricordava ai Corinzi: “Vi ho scritto di non associarvi a nessuno che porta il nome di fratello se è colpevole di immoralità [la parola nelle lettere di Paolo si riferisce sempre specificamente all’immoralità sessuale] o di avidità, o se è un idolatra, un villano, un ubriacone o un ladro, nemmeno di mangiare con uno di questi” (1 Cor 5, 11). E ancora: “Evita l’immoralità. Ogni altro peccato che un uomo commette è fuori dal corpo; ma l’uomo immorale pecca contro il proprio corpo” (1 Cor 6,18). Ancora una volta: “Temo che quando tornerò… potrei dover piangere per molti di coloro che hanno peccato prima e non si sono pentiti dell’impurità, dell’immoralità e della licenziosità che hanno praticato” (2 Cor 12,21).
Paolo elenca i comportamenti da coltivare ed evitare in molte delle sue lettere, tutti con la stessa enfasi. Ancora una volta, coloro che ho in mente, per questo argomento, svalutano costantemente la purezza predicata da Cristo e cercano di ottenere l’approvazione per il contrario.
La necessità di concentrarsi prima di tutto sui membri della Chiesa: Dopo che Paolo ha insistito, come già detto, di aver scritto ai Corinzi per non associarsi ai colpevoli di immoralità, ha fatto un’ulteriore osservazione sulla comunità cristiana: “Che cosa c’entro io nel giudicare gli estranei? Non sono quelli all’interno della Chiesa che lei deve giudicare? Dio giudica coloro che sono fuori. Scacciate il malvagio da voi””. (1 Cor 5:12-13). Il suo punto di vista qui è che la priorità dei cristiani è assicurare lo stile di vita cristiano nelle loro comunità. Non è proprio compito del cristiano giudicare e condannare coloro che non hanno ricevuto il Vangelo.

Conclusione
 Quest’ultimo punto è indicativo per due motivi. In primo luogo, l’importanza della purezza della comunità cristiana: le comunità cattoliche non devono tollerare al loro interno il rifiuto cronico e impenitente del Vangelo, né la fede e il modo di vivere che esso comporta. I leader delle comunità cattoliche devono essere zelanti nel sradicarlo, non zelanti nell’includerlo e nel negare la giustizia delle gravi preoccupazioni dei fedeli.
In secondo luogo, la priorità della comunità cattolica: Non è compito del cristiano giudicare coloro che sono al di fuori della comunità, che non hanno affatto il beneficio del Vangelo, o almeno non nella sua pienezza. È compito del cristiano evangelizzare e attirare nella Chiesa coloro che riceveranno il Vangelo con gioia e si impegneranno nella rinnovata vita di purezza morale e di crescita spirituale che il Vangelo esige. Questo è straordinariamente difficile quando la comunità cristiana non ha un chiaro carattere spirituale, non ha una chiara identità. In altre parole, non è una priorità dei leader cattolici (si riferisce al clero, ndr) cercare costantemente di influenzare la comunità laica circostante parlandogli direttamente delle politiche e dei programmi, o adattando il messaggio cristiano in modo che sia tollerato perché non sia in forte contrasto con i valori culturali dominanti. Né è loro compito condizionare la fede e la morale all’interno della Chiesa in modo che i fedeli possano vivere comodamente con la falsa morale che li circonda, o in modo che la Chiesa possa in qualche modo rimanere un “giocatore” nel mondo più grande.
Così, ad Antonio Spadaro SJ, che forza la logica e la credulità per trasformare il coronavirus in una lezione di inclusività, nell’ennesima denuncia d’élite di coloro che cercano un senso di identità più forte, io rispondo che cosi facendo non capisce Cristo, né la Chiesa, né la comunità cattolica, né il mondo al quale i cristiani sono chiamati ad essere luce e sale. Certo, egli può avere un punto di vista minore e molto alla moda qua e là, ed è vero che non tutti quelli che vogliono un senso più forte della comunità lo vogliono in modo perfetto. Ma Spadaro non capisce che molti di coloro che lui così scaltramente rimprovera per tutte le loro “paure”, in realtà capiscono molto meglio di lui cosa significhi trovare la propria identità nel Corpo di Cristo.
Di admin