ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 25 marzo 2020

Sacro e profano tacciono

Quando la morte bussa più forte



(Cristina Siccardi) Nostra «sorella morte corporale», attraverso il Coronavirus, si sta portando via decine e decine di sacerdoti in Italia. Bergamo, la città che vede trasportare con i veicoli militari le vittime del Covid-19 verso la cremazione, è la più colpita anche in questo senso. La maggior parte di loro è stato contagiato per stare accanto ai malati e nel benedire le salme… Sono tutti preti, come le altre anime, che non hanno e non avranno funerale perché la pestilenza lo impedisce.

Le frontiere delle nazioni sono chiuse per cause imprescindibili. I muri si alzano per arginare la pandemia. Le persone sono costrette a stare chiuse in casa, a distanziarsi, a isolarsi, a fare rinunce, sacrifici, mentre la sofferenza riempie le vite e gli ospedali e il lutto impedisce di canzonettare, come alcuni, invece e senza senno, fanno. I moribondi muoiono da soli, senza il conforto dei Sacramenti, senza la presenza dei propri cari… E torna drasticamente la serietà della vita e della morte. La morte esiste ed oggi non può essere messa da parte come, invece, la cultura della morte contemporanea cerca fallacemente di fare, anche attraverso l’eutanasia e l’aborto.
Si cerca di insistere sul fatto che statisticamente muoiono di Coronavirus soprattutto gli anziani e i più fragili di salute, un dato che viene recepito quasi come consolatorio… ma sta di fatto che tutti questi decessi sono avvenuti a causa del Coronavirus e non per le patologie pregresse e gli anziani sono persone tanto quanto gli altri, tanto quanto gli innocenti uccisi nei grembi materni. Tuttavia, nel mondo “progredito” e moderno, anziani e bambini sono, di fatto, esseri di peso e di costi per un Occidente ateo e materialista.
Quando la morte bussa più forte, come in questa pandemia, la vita assume un’altra valenza. Il Papa e i vescovi stanno ricorrendo, giustamente, alle invocazioni e alle preghiere, ma non stanno ancora parlando secondo i termini consoni alla cattolicità, ovvero non fanno appello ai fedeli per la conversione, per il pentimento dai propri peccati. Gesù ha vinto la morte vincendo il mondo e lo ha fatto attraverso la Croce. L’uomo, quando sta alla sequela di Cristo, vince il mondo e se stesso solo attraverso la conversione all’unico Salvatore, ponendosi umilmente sotto le leggi non statali, ma di Dio, Uno e Trino.
La strage degli innocenti, per mano delle loro madri e dei medici, con la “maledizione” delle leggi statali non può attrarre le benedizioni di Dio. Il loro sangue versato ha un prezzo da pagare: è la bilancia misericordiosa della Giustizia di Dio. «Il Signore agisce con giustizia e con diritto verso tutti gli oppressi» (Sal. 102) e, lento all’ira, continua a stare, in Cielo e nei Tabernacoli, vicino a chi Lo teme. Ci sono sacerdoti che celebrano sante Messe per il sangue versato da questi santi innocenti, uccisi e dimenticati dagli uomini, ma non dal loro Creatore. Anche se sono pochi i preti illuminati in questo senso, tali Sante Messe hanno un valore infinito in virtù del Sacrificio di Cristo sull’altare.
Scriveva santa Ildegarda di Bingen: «Come il fuoco tace prima di venire acceso da un soffio d’aria, poi però con l’aiuto dell’aria si infiamma, così anche l’opera di Dio nella sua provvidenza tace prima di essere manifesta» (E. Gronau, Hildegard. Vita di una donna profetica alle origini dell’età moderna, Àncora, Milano 1996, p. 44). Ora il Signore si sta manifestando nei modi che la Madonna, sia a Fatima che a La Salette, ebbe a trasmettere. Questo tempo di quaresima forzata per tutti è un tempo propizio per ripensare alle proprie vite ed è tempo prezioso di conversione. «“In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio”. Nicodemo gli disse: “Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?”. Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio”» (Gv 3, 3-5).
Niente divertimenti, niente bar, pub, ristoranti, night club, niente movide, palestre, centri estetici e di benessere, niente corse e biciclettate… ma forze dell’ordine e dell’esercito per impedire ogni movimento che non sia di sopravvivenza. Parallelamente niente Eucaristia. Sacro e profano tacciono. I peccati del mondo e della Chiesa come uno tsunami hanno prepotentemente riproposto le pandemie che si pensava fossero state cancellate dalla faccia della terra. Ma la Provvidenza opera con i suoi strumenti e ci fa provare anche l’assenza del nutrimento delle anime. Santa Giacinta di Fatima, che si fece anima ostia e che morì a causa della pandemia di cento anni fa, la Spagnola, si spense senza i suoi familiari e senza la santa Comunione… proprio lei, che con i cugini, l’aveva ricevuta per mano dell’Angelo del Portogallo.
All’età di trent’anni la beata Giuliana di Norwich (1342-1416), mistica inglese, ebbe una serie di visioni, poi trascritte vent’anni più tardi nell’opera Sedici Rivelazioni dell’Amore Divino. Nel manoscritto si legge che una precisa rivelazione «fu fatta a una creatura semplice e illetterata mentre viveva ancora nella sua carne mortale, nell’anno di nostro Signore 1373, il 13 maggio». E fra le visioni ci fu quella in cui è inserita la frase divenuta motto, in Italia, per l’epidemia in corso: «Tutto andrà bene». Monsignor Mauro Maria Morfino Sdb, vescovo di Alghero-Bosa, ha spiegato così l’evento mistico: «Dopo una lunga esperienza di visioni che Giuliana ha della Passione del Signore, Giuliana dice che con un’estrema dolcezza il Signore dice queste parole: “Sì, il peccato è una grande tragedia perché vi fa un male incredibile” e, aggiunge Giuliana, con una tenerezza infinita il Signore mi disse: “Ma tutto andrà bene, tutto finirà bene”. Se questa parola, che appare su tutti i nostri cornicioni, su tutti i terrazzi e in tutti i toni e in tutti i colori, pensiamo che viene davvero dal Signore, ecco questo ci deve consolare». 
La chiesa cattolica al tempo del coronavirus
(Lupo Glori) In questi giorni di reclusione forzata all’interno del mondo cattolico e non solo si è aperto un vivace e appassionato dibattito circa la straordinaria decisione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) di sospendere ogni messa e funzione religiosa fino al 3 aprile in ottemperanza al lockdown deciso dal premier Giuseppe Conte in tutta Italia per frenare l’epidemia di coronavirus. Secondo il partito favorevole alla serrata dei luoghi di culto “senza se e senza ma”, le chiese sarebbero infatti luoghi da fuggire, in particolare per la loro peculiarità di “attirare gli anziani” che rappresentano in questo momento la categoria più a “rischio epidemia”. Per questo, come sono stati chiusi musei, parchi, negozi, ecc., in nome della suprema e prioritaria tutela della salute pubblica, vanno sbarrate anche tutte le chiese, tanto “Dio è più grande di ogni luogo” e ognuno di noi può alimentare l’anima lo stesso in mille altri modi diversi.
Quello che, in sostanza, si chiede alla Chiesa è di abdicare alla propria specifica missione di assistenza pastorale e cura della salute delle anime, “facendosi da parte” in questo momento eccezionale, come che essa non possa dare un proprio contributo utile alla causa. Questa è l’ora degli “esperti” e della “competenza” si sente da dire da più parti. Spazio dunque alla scienza, ai medici e ai diversi tecnici “competenti” e nessuno spazio per la Chiesa e per i sacerdoti giudicati “incompetenti” a gestire la gravità e la complessità della pandemia in corso.
Tali tesi leggono e giudicano la realtà da una prospettiva puramente terrena, senza tenere conto della sua dimensione soprannaturale. Sono punti di vista comprensibili se pronunciati da persone che non credono nell’esistenza di cause e fini che trascendono la realtà. Se infatti Dio non c’entra nulla con il coronavirus, i riti religiosi non servono, i miracoli sono mere superstizioni, allora, certamente, la preghiera, i sacramenti, le benedizioni, ecc., non hanno alcun senso, in quanto non possono apportare alcun beneficio, ed è logico e conseguente essere d’accordo con la chiusura delle chiese alla pari della chiusura dei musei, dei cinema, dei ristoranti, ecc.
Ma se, al contrario, si crede nell’esistenza di una dimensione trascendente e soprannaturale, mai come in questo momento le persone hanno bisogno di incoraggiamento e assistenza spirituale e quindi di chiese spalancate e sacerdoti disponibili a dispensare, ad ogni ora, sacramenti e benedizioni. Accanto alla necessaria cura del corpo vi sta infatti la ben più importante cura dell’anima e, di fronte alla odierna situazione, che vede morire ogni giorno centinaia di persone, la Chiesa con i suoi sacerdoti avrebbe dovuto essere in prima linea a dare il proprio fondamentale conforto e sollievo spirituale.
Come ha scritto il monaco benedettino dom Giulio Meiattini: «La cosa più triste, e preoccupante per il futuro dell’umanità, è che la stessa Chiesa (o meglio gli uomini di Chiesa) hanno dimenticato che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo si chiudono le chiese e ci si allinea ai criteri sanitari e igienici. La Chiesa trasformata in agenzia sanitaria, invece che in luogo di salvezza. Ci pensino bene i vescovi a chiudere le chiese e a privare i fedeli dei sacramenti, dell’eucaristia, che è medicina dell’anima e del corpo: chiudere le porte ai cristiani e pensare di potersela cavare con la scienza umana, è chiudere le porte all’aiuto di Dio. È confidare nell’uomo, invece che confidare in Dio».
In una prospettiva cattolica il coronavirus con il suo tributo di morte, può essere interpretato dunque come un richiamo alla realtà che ci mette in guardia nei confronti della odierna effimera ed imperante mentalità del consumo e del benessere, ricordandoci che siamo esseri fragili e deperibili… Al riguardo, in questo giorni Amedeo Capetti, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, ha dichiarato: «Io ai miei pazienti ho sempre detto: “Guardate che la battaglia per la salute è una battaglia persa, prima o poi la perderemo tutti quanti, quindi è inutile insistere così su questa… la salute è semplicemente lo strumento per poter incontrare e riconoscere nella vita Chi ci ha dato la vita! E quindi poter rendere anche la nostra vita grande”… lo dico a maggior ragione adesso, ci si rende conto che siamo fragili ma non ci deve far paura questo, ma ci deve far spostare il tiro su ciò che non è una battaglia persa”… Ci sono pazienti che mi hanno scritto: “Ma dottore io non ho paura di morire, quando il Signore mi chiamerà vorrà dire che sarà arrivato il mio momento e io sarò felice di tornare da Lui”… Tutte le epidemie sono un’occasione in questo senso».
In questa ora, per molti drammatica, purtroppo la Chiesa ha scelto di abbandonare l’ “ospedale da campo” e di rinunciare alla propria missione, adeguandosi silenziosamente alle disposizioni governative, senza nemmeno alzare la voce e provare a rivendicare il proprio imprescindibile ruolo. Eppure le soluzioni, garantendo tutti i requisiti di sicurezza, ci sarebbe state: i vescovi polacchi avevano fatto una proposta di moltiplicare le messe così da diradare al massimo i fedeli partecipanti, altri avevano suggerito di celebrare solo nelle chiese ampie, evitando quelle piccole. In Italia abbiamo chiese enormi e i fedeli che partecipano alle messe, ahinoi, sono sempre di meno, quindi si sarebbero tranquillamente potute garantire le distanze di sicurezza. Altri ancora hanno proposto di celebrare le messe all’aperto. Nessuna di queste proposte è stata però presa in considerazione. Si è scelto di non contrattare con lo Stato alcuna soluzione e adeguarsi come se la Chiesa cattolica fosse una banale organizzazione umanitaria qualsiasi.
Eppure sarebbero bastate poche parole, ricordare i novissimi della tradizione cattolica e la massima “Memento mori”, come recitano le eloquenti parole di san Leonardo da Porto Maurizio, ideatore e propagatore della pratica della Via Crucis, quanto mai attuali in questi insoliti giorni di quaresima : «Vita breve, morte certa, un’anima sola si ha, se si perde che sarà?».  (Lupo Glori)

Coronavirus, «forse il più grande peccato del mondo oggi è che gli uomini hanno cominciato a perdere il senso del peccato»

Coronavirus (fonte ANSA)

Coronavirus (fonte ANSA)
di Gianfranco Amato
Non sono pochi gli uomini di Chiesa che in questo momento stanno pregando perché gli scienziati trovino presto un vaccino contro il coronavirus responsabile della pandemica di Covid-19.
Ma se la preghiera si limitasse a questo sarebbe davvero un problema dal punto di vista della fede. Mi faceva notare un sacerdote che se anche la scienza trovasse il vaccino e continuassimo poi a commettere peccati, sorgerebbero altre pandemie peggiori, come ha dimostrato il segreto di Fatima sulla profezia della seconda guerra mondiale.
Il vero problema, forse, è la salvezza della nostra anima, cosa che molti cattolici oggi tendono a dimenticare. Rischiamo davvero di percorrere un binario morto se, come credenti, ci limitassimo a pregare Dio unicamente perché fermi il coronavirus.
Certo, la prima, immediata, istintiva invocazione d’aiuto che il cuore dell’uomo riesce a gridare in una situazione d’emergenza è quella di salvare la vita. È quella di chiedere a Dio che si trovi un modo per fermare la pandemia che sta flagellando il mondo interno. Ma non può essere solo quello. Come ha recentemente ricordato mons. Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, il termine latino “salus” significa salute, nel senso sanitario del termine, e significa anche salvezza, nel senso etico-spirituale e soprattutto religioso; l’attuale esperienza del coronavirus testimonia ancora una volta che i due significati sono interconnessi. Per questo non si deve dimenticare l’importanza di salvare l’anima oltre che il corpo.
E dire che i cristiani conoscono benissimo il monito del loro Maestro: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16, 25-26).
Parafrasando le parole di Gesù Cristo potremmo chiederci cosa serve all’uomo trovare il vaccino contro il coronavirus per salvare il proprio corpo, se poi perde l’anima?
Il punto è che l’uomo moderno ha perso di vista questa prospettiva, perché ha smarrito il senso del peccato.
Lo aveva lucidamente preconizzato uno dei più grandi Papi del XX secolo, Pio XII, quando il 26 ottobre 1946 nel radiomessaggio trasmesso a conclusione del Congresso Catechetico degli Stati Uniti, tenutosi a Boston, annunciò che «forse il più grande peccato del mondo oggi è che gli uomini hanno cominciato a perdere il senso del peccato». (Discorsi e Radiomessaggi, VIII, p. 288). Nel XXI secolo, possiamo tranquillamente dire che quel senso è stato definitivamente perso. L’uomo del nostro tempo vive una sorta di “anestesia della coscienza”. Ha forse ancora un vago senso di colpa, un complesso di colpevolezza ma non è più il senso del peccato. Tutto ciò perché è sparito Dio dall’orizzonte della società
È il peccato, non il coronavirus, a produrre l’unica vera infezione che dobbiamo temere, ossia quella che uccide l’anima. E questa infezione, oggi, si propaga anche attraverso le leggi inique e contrarie ai comandamenti di Dio, che gli uomini ostentano come conquiste della modernità, o attraverso quelli che alcuni clerici amano definire «aggiornamenti pastorali-dottrinali esigiti da una fede al passo con i tempi».
Ecco perché il vero vaccino occorre trovarlo innanzitutto contro le leggi inique, che gridano vendetta al cospetto di Dio, come quelle sull’aborto, sull’eutanasia, sulla fecondazione artificiale, sulle norme per combattere la cosiddetta “omofobia”, sull’ideologia gender.
Se i cristiani non capiscono questo o, peggio, approvano leggi inique, se non sono più capaci di reagire di fronte alle sempre più numerose manifestazioni blasfeme e sacrileghe, se peccano spensieratamente di idolatria, se affermano che non è più peccato mortale il sesto comandamento, come neanche tralasciare il precetto festivo, se ammettono la convivenza more uxorio, il divorzio, se sostengono che non si debba più parlare di peccato, ma solo di “complicazioni”, beh, allora non devono poi stupirsi se Dio risponde loro che non può aiutarli, e se intorno ad essi non resta altro se non quello che il Profeta Daniele definiva l’«abominio della desolazione».
Eppure, i cristiani conoscono il monito di Gesù: «Va e d’ora in poi non peccare più!» (Gv 8, 11).
Se si perde la consapevolezza del peccato, si riduce tutto ad una dimensione materiale, e la morte fisica terrorizza più della morte spirituale. È quello che si vede accadere in questi giorni di pandemia, anche, purtroppo, tra tanti cristiani. Ma se questi non sanno più testimoniare la differenza a cosa servono? Rischiano di diventare come l’evangelico «sale insipido», che non serve a nulla «nisi ut mittatur foras et conculcetur ab hominibus» (Mt 5, 13).
Quando il Figlio dell’Uomo tornerà sulla terra troverà ancora la fede? I cristiani devono avere sempre presente questa domanda, consapevoli dell’immensa responsabilità che essi hanno di tenere viva la fiamma della Verità fino al ritorno di Cristo.
Anni fa, mons. Luigi Giussani ha voluto recuperare gran parte della letteratura cattolica censurata dall’egemonia marxista che dal dopoguerra domina incontrastata il panorama culturale italiano. Giussani convinse la casa editrice BUR ad istituire una Collana denominata I libri dello spirito cristiano. Tra le varie perle ve n’è una che ho letto con piacere: il romanzo Morte, dov’è la tua vittoria? dello scrittore cattolico Henri Daniel-Rops (1901-1965), accademico di Francia. In quel romanzo Daniel-Rops faceva dire a uno dei suoi personaggi, l’abate Pérouze, queste parole: «La sola vita è quella che ci viene dalla lotta per la nostra anima (…). Gli uomini di oggi disprezzano questa verità (…), hanno bandito il peccato dalla loro vita e dai loro libri, e per questo sono finiti in un fiume fangoso in cui, senza saperlo, annaspano e affogano».
Speriamo che tutti, credenti e non, nelle drammatiche circostanze imposte dall’emergenza pandemica del Covid-19, possano recuperare la coscienza della necessità di riconoscersi umilmente peccatori, per poter salvare l’anima prima ancora del corpo.

A proposito delle “raccomandazioni di etica clinica” della SIAARTI

Ricevo da un caro amico il  comunicato della Unione Giuristi Cattolici Italiani, sezione locale di Genova “Ettore Vernazza”e volentieri pubblico. La SIAARTI  è la Società Scientifica degli Anestesisti Rianimatori.
Coronavirus e medici

Il primo e fondamentale diritto, quello alla vita,
                                                                                                                 non è subordinato ad alcuna restrizione.
                                                                                                                                                                 Papa Francesco                                                                                                                                                                                              
 Abbiamo letto con grande stupore e ci ha destato estrema apprensione il documento diffuso dalla SIAARTI intitolato: “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, che definisce i criteri di scelta per l’ammissione alle terapie intensive in seguito alla situazione determinata dal COVID-19.
Scopo dichiarato del documento è:   A) Sollevare i clinici da una parte delle responsabilità nelle scelte;  B) Rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse in una condizione di una loro straordinaria scarsità.
Le raccomandazioni che discendono da queste premesse stabiliscono che:  a) Un aumento straordinario di letti intensivi non garantirebbe cure adeguate ai singoli pazienti e distoglierebbe risorse, attenzione ed energie ai restanti pazienti ricoverati  nelle Terapie Intensive;  b) Può rendersi necessario porre un limite d’età all’ingresso in Terapia Intensiva sulla base del principio di probabilità di sopravvivenza e di anni di vita salvata.
Sorprendono le motivazioni contrarie ad un aumento della dotazione di posti letto, di cui si riconosce la scarsità, in quanto si rivelerebbe di danno sia per i nuovi ingressi che per i pazienti già ricoverati nei reparti di Terapia Intensiva. E’ appena il caso di ricordare che in Italia i posti letto di Terapia Intensiva sono complessivamente 5.090 (8,4 x 100.000 ab.), mentre sono 25.000 in Germania (30 x 100.000 ab.)  equivalenti ad una dotazione superiore di circa tre volte e mezza.
Allorché si fa riferimento ad “una condizione di straordinaria scarsità delle risorse sanitarie” come causa di difficoltà nella loro allocazione occorre tener presente che tale scarsità è conseguenza di scelte della programmazione e della macroallocazione ed è proprio in questa direzione che dovrebbero essere rivolte adeguate “raccomandazioni di etica”. Infatti, per effetto delle continue revisioni al ribasso del finanziamento pubblico della sanità  l’Italia si attesta sotto la media OCSE e precede solo i Paesi dell’Europa orientale.
Stupisce e lascia increduli, quasi nella speranza di una fake news, l’autorizzazione a “porre un limite di età all’ingresso in  Terapia Intensiva sulla base del principio di probabilità di sopravvivenza e di anni di vita salvata”. In questo momento di grande emergenza, comunicati di questo tipo contribuiscono a creare ulteriore sconcerto ed è inammissibile che un documento che subordina l’etica clinica a principi di razionamento venga redatto al di fuori di un Comitato Etico legalmente costituito. Ricordiamo che i principi e le regole a cui il medico deve uniformare la sua condotta professionale sono quelli previsti dal Codice di Deontologia Medica che all’Art.6 stabilisce: “Il Medico persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private salvaguardando l’efficacia, la sicurezza e l’umanizzazione dei servizi, contrastando ogni forma di discriminazione nell’accesso alle cure”.  Ricordiamo inoltre l’ Art. 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività”.  Ricordiamo altresì la legge 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (Art.1 – Principi): “Il SSN è costituito dal complesso dei servizi destinato alla prevenzione, mantenimento e recupero della salute di tutta la popolazione senza distinzioni individuali e sociali  e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio”.
Siamo consapevoli dell’enorme sforzo e della tensione senza precedenti a cui sono attualmente sottoposti tutti i medici in prima linea, e soprattutto i medici delle Terapie Intensive, per le condizioni in cui svolgono la loro attività e per i gravi rischi ad esse connessi. Sono 14 ad oggi i  caduti, vittime del contagio, medici ospedalieri e medici di medicina generale. Queste doverose considerazioni unite al profondo rispetto per l’attività svolta dai Medici di Terapia Intensiva non possono tuttavia esimerci  dall’esprimere il nostro dissenso più totale dalle “Raccomandazioni” di SIAARTI che vorremmo pensare come dettate da uno stato di grave stress lavorativo, assolutamente comprensibile. Anzi, è proprio il sacrificio quotidiano del personale sanitario a rafforzare il nostro convincimento in difesa del diritto alla salute e della dignità della vita umana, anche di quelle più deboli. Auspichiamo quindi che il Gruppo di Lavoro sia al più presto in grado di ripensare il documento prima che se ne debba vedere l’applicazione, anche da parte di seguaci che si stanno rapidamente apprestando a comparire, e ci si veda costretti a prendere atto delle dolorose conseguenze.

Unione Giuristi Cattolici Italiani

      (Unione Locale di Genova “Ettore Vernazza”)
   Il Consiglio Direttivo


Di Sabino Paciolla

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