ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 27 aprile 2020

Teatrante, getta la maschera!

“Essere o non essere". La questione capitale delle messe in TV



La discussione era sotto traccia da tempo. Ma l’omelia del 12 aprile in cui papa Francesco ha “ritrattato” la sua accondiscendenza a trasmettere in TV le sue messe mattutine a Santa Marta, l’ha portata alla luce del sole.

In quell’omelia, il papa disse che “questa non è la Chiesa” se decade dal reale al virtuale. È una Chiesa “gnostica” senza più popolo né sacramenti.
C’è un che di contraddittorio in questo “j’accuse” di Francesco pronunciato proprio durante una sua messa teletrasmessa. Si sa che all’inizio del pontificato egli rifiutò sia che le sue messe mattutine fossero irradiate in diretta, sia che fossero rese pubbliche le loro registrazioni integrali video e audio. Ma da quando, a marzo, in Vaticano e in Italia sono state proibite le messe con presenti i fedeli, per la pandemia di coronavirus, ha consentito che siano teletrasmesse. E si prevede che quando, a maggio, il divieto cadrà, continuerà a far trasmettere le sue messe in TV, di nuovo con presenza di invitati.
Ma la questione è ormai aperta. In una società sempre più digitale, che cosa accadrebbe se anche la messa, “culmen et fons” della vita della Chiesa, fosse attratta nella nuvola web? Se da evento decadesse a spettacolo? Da realtà a teatro?
È una questione che già i Padri nella Chiesa, a loro modo, affrontarono, come mostra Leonardo Lugaresi, studioso dei primi secoli cristiani, nella lettera qui di seguito.
Ed è una questione oggi più che mai cruciale. Con particolare drammaticità in Italia, dove l’ennesimo decreto varato dal capo del governo la sera di domenica 26 aprile ha di nuovo escluso “arbitrariamente” la possibilità di celebrare le messe con il popolo, pur “dopo settimane di negoziato che hanno visto la CEI presentare orientamenti e protocolli con cui affrontare una fase transitoria nel pieno rispetto di tutte le norme sanitarie”, come ha lamentato la conferenza episcopale in un comunicato emesso in tarda serata.
“I vescovi italiani – è la conclusione del comunicato – non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.
*
LA MESSA È UN EVENTO, NON UNA RAPPRESENTAZIONE
di Leonardo Lugaresi
Caro Magister,
lei ha aperto, su un problema di vitale importanza per la Chiesa cattolica come quello delle “tele-messe”, una discussione di grande interesse alla quale vorrei cercare di dare un piccolo contributo, dal punto di vista di chi ha a lungo studiato il giudizio della Chiesa antica nei riguardi del mondo degli spettacoli.
Nella concezione dei Padri, le rappresentazioni teatrali o agonistiche sono caratterizzate dalla paradossale compresenza di un “pieno” di forza emotiva e di un “vuoto” di consistenza reale.
Gli spettacoli, infatti, da una parte hanno il potere di emozionare gli spettatori e talvolta di trascinarli addirittura a uno stato di esaltazione (si pensi a certi eccessi del tifo sportivo o all'intensa commozione che può prendere il pubblico di fronte a una performance teatrale particolarmente forte) ma dall'altra sono per loro natura “finti”, nel senso che non hanno alcuna consistenza reale o, se si preferisce, appartengono a un ordine di realtà completamente diverso da quello della vita ordinaria degli uomini, come dimostra – e questo è un argomento cruciale dei Padri della Chiesa – l'impossibilità di una vera relazione tra lo spettatore e l'attore.
A questo proposito Agostino – in un celebre passo del III libro delle “Confessioni” – fa una riflessione molto acuta, quando osserva che “a teatro l'uomo vuole soffrire contemplando vicende luttuose e tragiche, che tuttavia egli stesso non vorrebbe patire”.
Voler patire, da spettatore, un “dolore” da cui si ricava un piacere pare infatti ad Agostino una “mirabilis insania”, una stupefacente follia, perché nella vita vera di fronte alla miseria dell'uomo l'unica risposta adeguata è la misericordia, non il piacere del compatimento; e l'espressione della misericordia è il “subvenire”, il soccorrere, non lo “spectare”, il contemplare.
“Ma qual è – si chiede Agostino – la misericordia [che si prova] nei riguardi delle finzioni del teatro? Lo spettatore non è sollecitato a soccorrere, ma soltanto invitato a dolersi, e si apprezza tanto più l’attore di quelle scene quanto più si soffre. E se delle sventure umane o remote nel tempo o immaginarie vengono rappresentate in modo tale che lo spettatore non soffra, questi se ne va infastidito e protestando; se invece soffre, rimane [ad assistere] attento e piange godendo” (“Confessioni” III 2,2).
Andare in soccorso dell'attore che “soffre” sul palcoscenico sarebbe evidentemente assurdo. La sola cosa che possiamo fare – anzi, che siamo istituzionalmente chiamati a fare, in quanto spettatori – è “goderci” l'emozione che quella sofferenza ci provoca. Ma questo è esattamente ciò che facciamo noi tutti i giorni guardando il mondo in televisione. In questo modo Agostino ci fornisce dunque un buon criterio per distinguere la logica della rappresentazione spettacolare da quella della vita reale. Ed è il criterio della relazione responsabile.
Che c'entra tutto questo con le messe televisive? Molto, a mio parere, se poniamo mente innanzitutto a ciò che la messa è nella sua essenza: un evento e non una rappresentazione.
Per essere più precisi: la messa è l'evento per eccellenza, “il sacrificio stesso del Corpo e del Sangue del Signore Gesù”. Ogni messa, infatti, “rende presente e attuale il sacrificio che Cristo ha offerto al Padre, una volta per tutte, sulla Croce in favore dell'umanità. [...] Il sacrificio della Croce e il sacrificio dell'Eucarestia sono un unico sacrificio” ("Catechismo della Chiesa cattolica. Compendio",  n. 280).
Ora, a un evento si partecipa, non si assiste da spettatori. Per parteciparvi occorre essere presenti nel tempo e nel luogo in cui accade, perché altrimenti non vi è vera relazione con esso. E per essere presenti, bisogna essere lì con il corpo. Questo occorre oggi ribadirlo, in un contesto culturale in cui l’unità dell'esperienza umana spirituale-corporea viene sempre più spesso messa in discussione dalla nostra assuefazione a luoghi e rapporti esclusivamente virtuali.
La rappresentazione mediatica di un evento comporta di per sé – a prescindere dalle intenzioni di chi la allestisce e di chi vi assiste, come anche dal “format” entro cui si svolge – una spettacolarizzazione che è in larga misura incompatibile con la natura dell'evento stesso. Senza entrare nel luogo drammatico entro cui esso si compie, cioè senza consegnarsi al tempo e allo spazio che lo delimitano, se ne resta sempre, in larga misura, spettatori.
Basti pensare, per fare un solo esempio fra i tanti, al fatto che ogni evento è per definizione unico e irripetibile. Le centinaia di migliaia di messe che si celebrano ogni giorno nel mondo non sono “repliche” prodotte in serie da un prototipo, ma ciascuna di esse costituisce l'attualizzazione dell'unico sacrificio di Cristo, che avviene una volta per tutte. La logica della rappresentazione mediatica, invece, è quella della replicabilità e della serialità: non c'è vera differenza, in tale prospettiva, tra seguire la messa in diretta oppure in differita.
I padri del Concilio Vaticano II avevano visto giusto quando avevano individuato nella “actuosa participatio” dei fedeli uno dei valori principali da promuovere nella riforma della liturgia.
Ma purtroppo buona parte del liturgismo post-conciliare ha frainteso e tradito quella indicazione, scambiandola per un invito all'attivismo liturgico, cioè alla promozione del protagonismo umano nell’”opus Dei”. E ora, dopo decenni di enfasi impropria sulla dimensione “'assembleare” della messa, la risposta ecclesiastica all'emergenza sanitaria da coronavirus rischia, in una sorta di beffarda eterogenesi dei fini, di eliminare di fatto il popolo dalla liturgia, declassandolo a pubblico televisivo che si nutre di emozioni religiose.
La messa guardata da casa può costituire certamente un utile esercizio di pietà, al pari di altri, ma sarebbe esiziale per la fede cattolica sovrapporla o addirittura confonderla con la partecipazione al sacramento. In passato l'autorità ecclesiastica era molto attenta a questa distinzione, e oggi non vorrei che lo fosse di meno.
Il cortese lettore che dal Regno Unito le ha scritto, adducendo cinque esempi di “messe a distanza” che costituirebbero un precedente per la futura liturgia online, credo abbia espresso, col tipico empirismo britannico, un sentire ormai abbastanza diffuso fra i cattolici di tutto il mondo.
Poco conta che, come lei ha già eccepito, i primi tre esempi siano assai poco pertinenti perché in essi l'unità di tempo e di luogo dell'evento non è spezzata, ma solo adattata a condizioni particolari, e che il quarto presenti semplicemente una situazione in cui occorre scegliere tra fare un po' di fatica o preferire la comodità.
Perché forse una nuova prassi pseudo-liturgica si sta già instaurando.
*
(s.m.) Di Leonardo Lugaresi può essere illuminante rileggere questo suo intervento del 2011, sulla critica cristiana alla società dello spettacolo, dai Padri della Chiesa a Benedetto XVI:
Mentre sull’abilità di papa Francesco nell’attualizzare il teatro pedagogico dei gesuiti del Seicento è uscita questa nota su “L’Espresso” del 15 aprile 2016:
Settimo Cielo
di Sandro Magister 26 apr

La Chiesa rompe con Conte

Palazzo Chigi aveva mentito sulla riapertura delle parrocchie. Niente messe per tutto maggio. Questa volta vescovi furiosi: "Violata la libertà di culto" e Renzi solidarizza subito

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