ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 28 aprile 2020

Ululì Ululò


MESSA NEGATA DA CONTE. FABIO ADERNÒ: LA CEI ULULA ALLA LUNA.


Miei carissimi Stilumcuriali, l’avvocato Fabio Adernò ci ha scritto un commento estremamente lucido e appassionato sula questione delle cerimonie religiose negate, e sullo schiaffo che la Conferenza Episcopale Italiana ha subito da parte del Governo e della maggioranza da lei tanto sponsorizzati (basti pensare che nel suo commento su Avvenire il direttore Tarquinio elogiava Walter Ricciardi, accusato dalle Iene nel 2018 di conflitto di interesse, e dimessosi dall’Istituto Superiore della Sanità). Ma evidentemente la comunanza di amorosi sensi in materia di business dei migranti non basta. Buona lettura.

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LA CEI ULULA ALLA LUNA
Nella prima serata di ieri, domenica 26 aprile, l’Italia ha assistito a scene pietose, all’ennesimo atto patetico d’una tragedia che ha preso i toni d’una farsa.

Sono volati stracci tra il terrazzino nel quale è confinata la Conferenza Episcopale Italiana e la loggia del capo del Governo.
Tuttavia credo che sia stata una pantomima grottesca, una vera e propria sceneggiata degna d’una telenovela di terz’ordine sia per la qualità sia per il modo col quale è stata condotta.
Ricapitolando brevemente, ieri, intorno alle 20.30 d’una domenica ormai uguale a tutti gli altri giorni, il capo del Governo s’introduce nelle case degli italiani e annuncia il nuovo dipiciemme (l’ennesimo che è uguale agli altri ma diverso ma migliore, dice Lui) e poi, mentre “ringrazia la CEI” per la collaborazione (sic!) ci viene a raccontare che “c’è stato un fitto confronto col Komitato scientifico che ha sollevato criticità” in ordine alla ripresa delle “cerimonie religiose” e che alla fine, quale supremo atto di pietas repubblicana, si sarebbe concessa la possibilità di avere “solo cerimonie funebri” alla presenza di “congiunti” e “in numero non superiore di quindici persone”… e poi si dilunga in altre farneticazioni sconnesse e confuse.
A distanza di pochi minuti i telefoni bruciano perché si diffonde un comunicato della CEI (il cui contenuto analizzeremo tra poco) nel quale la Chiesa italiana dissentirebbe dall’azione del Governo.
Boom! Boati di plausi e di commenti esultanti (anche di chi, fino a ieri, ha ritenuto del tutto insindacabile la supina posizione assunta) al “risveglio”, alla “rivendicazione dell’autonomia”, alla “libertà di culto”, tutti introdotti da scomposti “finalmente!” ed “era ora”. Anche esponenti della traballante maggioranza giallo-rossa si sono affrettati a schierarsi immediatamente: i vari Del Rio, Bonetti… i cattolici adulti che si rammaricano e dissentono con tutta questa mancanza di rispetto nei confronti della Chiesa italiana e del sentimento religioso dei cittadini. Ci chiediamo dove siano stati finora…
Passano ancora alcuni minuti ed esce una nota serafica della Presidenza del Consiglio nella quale si prende atto della protesta delle mitrie e si annuncia lo studio di protocollo “di massima sicurezza” per la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche.
Al che, cala il liso lenzuolo che fa da sipario a questo goffo teatrino dei burattini.
E via coi commenti della stampa filogovernativa: “La CEI rivendica libertà di culto”, “Scontro tra il Governo e la CEI”, etc.
Alcune considerazioni sul merito. E poi altre sul metodo.
Va anzitutto segnalato che il contenuto della Nota CEI (34/2020) altro non è che un ululato alla luna, un patetico pianto greco (di cui già dicevamo) che peraltro mostra in sé tutta la fragilità di un sistema istituzionale ormai sclerotizzato.
Venendo infatti ai contenuti, siamo davvero al lancio degli stracci: nella prima parte la Nota (che al solito non è firmata – né dal Presidente, né dal Segretario Generale, né dal Sottosegretario – e dunque appare evidentemente depotenziata nel suo peso istituzionale) contiene la classica recriminazione dell’amante tradito: “Ma come io fatto tutto ciò che mi hai chiesto, ti ho fatto fare tutto ciò che hai voluto, mi hai assicurato che… e tu…!!!”. Si invoca la famigerata interlocuzione tra Governo, CEI e Ministero degli Interni (i cui contenuti restano chiaramente oscuri nella forma – se mai vi fu! – ma evidenti nella sostanza dei risultati) e si citano le parole del Ministro come a dire “Ce l’avevi promesso!!”.
Del resto, avevamo già chiesto alla CEI di rendere pubblica la trattativa e le proposte fatte (v. qui) per evitare brutte sorprese… e infatti così è stato.
Quindi, dopo la lagnanza per la mancanza di fedeltà, la CEI sembra risvegliarsi dalla sindrome di Stoccolma che le avevamo diagnosticato e va giù di brutto, usando verbi ed espressioni degne della Chiesa costantiniana (ma non era finita?) come “rivendicare”, “esigere”, “pienezza di autonomia”, “compromissione di libertà di culto”, “arbitrariamente”, “vita sacramentale”.
Tutte cose molto belle, certo, e anche molto giuste (che peraltro diciamo dal 9 di marzo) e che abbiamo ribadito tante volte (in ultimo qui), trovando sempre un muro di gomma, ricevendo in cambio allineamenti e accondiscendenze prossime al servilismo in un preoccupante clima neogiurisdizionalista.
Tutte cose, però, che non ha assolutamente senso logico tirare fuori ora.
Adesso è tardi, troppo tardi.
Anzitutto perché dopo 50 giorni di acquiescenza non ci si può svegliare da un coma istituzionale e pretendere di avere dei diritti che invece andavano rivendicati sin dal primo istante.
L’autonomia della Chiesa – nativa per struttura propria e riconosciuta dalla Costituzione – non è un qualcosa che si può obliare per poi tirarla fuori come il ruggito di un micetto. L’autonomia istituzionale e giuridica c’è o non c’è, sempre o mai.
Bisognava dirlo quand’era il momento, bisognava rivendicare sin da principio la libera e autonoma gestione del culto e della disciplina dei luoghi sacri, assicurando allo Stato l’attuazione delle misure, ma anche richiamando i capisaldi del sistema di coordinamento, e non permettere di trasformare in fattore patogeno (e dunque criminogeno) la libertà di culto. Bisognava agire prudentemente prima e creare un bilanciamento di equilibri in cui ciascuno avrebbe svolto il suo ruolo (quello che sorge dalla natura delle cose, non quello frutto di regole del gioco dettate da una parte sola con probabili ricatti e non peregrini simoniaci scambi di favori).
Oggi quel sistema è ormai compromesso, e non lo è – attenzione – perché lo Stato ha compresso la libertà religiosa e libertas Ecclesiae solo con atto arbitrario e illegittimo (come spesso è accaduto nella storia), ma lo è perché la Chiesa non solo non ha puntato i piedi cercando di trovare delle soluzioni conformi al regime concordatario, ma perché gli stessi pastori hanno dimostrato allo Stato che la religione può essere serenamente un fenomeno da streaming, che è lecito e ugualmente funzionale comprimerlo in una trasmissione in rete, che rinunciare alla Messa di Pasqua non fu un sacrificio, un dolore, una violenza ingiusta e ingiustificata, ma un “atto di generosità” e che la “fede non è in un luogo”. Le chiese sono state abbandonate a se stesse, il gregge è stato disperso tra una diretta in cucina mentre si prepara la lasagna e una rosario mentre si sta seduti sulla tazza del water. Chi voleva essere cattolico come sempre è stato era solo un fassista! I cimiteri chiusi, i morti mandati ai forni come fossero dei senza Dio, i sacramenti plastificati. Ora cosa si pretende?
Ora è inutile andare a supporre di tornare a far le messe con popolo solo perché si riaprono i parchi e si può andare a correre; non esiste analogia tra un diritto soggettivo supremo e l’esercizio di un’opzione motoria. Non si può ammettere che dopo aver assistito inermi alla compressione della libertà la Chiesa si svegli dal torpore e rivendichi per se stessa cose alla quali essa stessa ha, ancorché abusivamente, rinunciato.
La sua è una pretesa puerile, che appare quasi capricciosa, fondata su argomentazioni che l’istituzione stessa ha provveduto a riprovare, con le sue parole e più ancora con le sue azioni, privandole di ogni fondamento di esigibilità.
Invocare diritti a cui si è abdicato è un atto irrazionale; che poi quei diritti fossero inalienabili, è un altro problema. Ma siamo in limine praescriptionis.
E oggi non si può venire a fare la scenata al Governo per aver deluso le aspettative, perché le aspettative – quelle dei fedeli, connesse ai loro diritti e non ai loro capricci – sono già state tradite.
Quelle avanzate son tutte pretese ipotrofiche, perché figlie di una complicità tradita.
Il treno, ora, è già passato. E indietro non si torna. I friniti mitrati di ieri sera non riusciranno mai a colmare i neri silenzi degli ultimi 50 giorni, non potranno mai coprire i vaniloqui di molti pastori, di ogni grado, ispirati a neo-forme di patriottismo che hanno confuso i mezzi con i fini. Far rimbombare la libertas Ecclesiae, una volta cambiato registro, non sarà in grado di defibrillizzare un sistema agonizzante ammorbato da cripto-eresie.
La Chiesa italiana, in questa contingenza, ha perso la più grande occasione che avrebbe potuto avere dalla vittoria dell’aprile ’48 a oggi, e cioè quella di ergersi a paladina e presidio di libertà. E non l’ha fatto.
Avrebbe dovuto difendere la prima e più alta libertà che esiste per l’Uomo (come diceva de Tocqueville) perché in essa, nel suo fondamento trascendente e soprannaturale, si rintracciano i fondamenti di tutte le altre libertà umane. E non l’ha fatto.
La Chiesa avrebbe dovuto manifestarsi come bastione della civiltà e della dignità dell’Uomo ricordando che anima e corpo formano un tutt’uno, e che la prudenza non può mai farsi sopraffare dalla paura. E non l’ha fatto.
Avrebbe dovuto essere luogo di fondata fiducia, di sicura speranza, di profondo conforto, senza adeguarsi ad un funzionalismo statalista per il quale essere considerata né più e né meno che un’appendice di un ente pubblico assistenziale di supporto. E non l’ha fatto.
Non si trattava di costringere Dio al miracolo né di pensare, in modo irragionevolmente apotropaico, i luoghi di culto esenti da qualsiasi forma di contagio; si sarebbe trattato piuttosto di considerare le cose con opportuna oggettività, con criteri di proporzionalità al rischio, applicando possibilissimi metodi preventivi anziché adeguarsi a metodi totalmente soppressivi.
Ora, dunque, a nulla valgono i nuovi piumaggi di questa battaglia con le spade di cartone. E peraltro si continua a non capire che non è nemmeno il modo opportuno, perché a questo punto dovrebbe intervenire direttamente la Santa Sede sul piano diplomatico ed esigere dallo Stato il rispetto delle norme concordatarie. Ma ad oggi, ancora, così non è stato.
Ora si parla di una presunta “esigenza” di una vita sacramentale (pur senza, tuttavia, far accenno alla legge suprema della salus animarum), dopo che per cinquanta giorni si è detto bastava pregare a casa, che la Chiesa “sperimentava” una nuova e bella forma di pastorale. Beh, agli occhi dello Stato (e del Komitato) quel modo è più che sufficiente, perché come si è fatto finora si può serenamente continuare a fare anche in avvenire; e non perché è stato imposto, ma perché si è scelto di far così (e a qualcuno è anche convenuto, evidentemente, basti dare un’occhiata a tutti i belati del pretume sessantottesco che si schiera, anche oggi, al fianco del governo liberticida perché, nei fatti, si fa mezzo di annientamento di quello che considerano un sistema “clerico-fascista”).
Certo ora, dopo cinquanta giorni però le cassette sono vuote… e forse questo è il vero problema. Ma alle dolenze per il culto del dio quattrino, si aggiungano d’altra parte quei poveri parroci che anche nei paesini sperduti si sono spesi per realizzare dirette e comunicare coi fedeli, ma la bolletta la devono comunque pagare, le utenze ci sono… per loro non è stata chiesta nessuna garanzia istituzionale, nessun aiuto materiale, non è stato fatto nulla. Anzi spesso sono stati abbandonati davanti all’autorità statale, omettendo di denunciare assai scandalose azioni poliziesche che hanno violato i luoghi di culto. Se non sono responsabilità anche queste…
Oggi però ci si sforza a fare ruggiti, ma si ottengono solo lagnosi miagolii che si perdono nel silenzio e nel distacco più assoluto da parte di uno Stato al quale si è consentito di legiferare su materie nativamente proprie e per esso indisponibili con piglio autoritario e totalitario, lasciando che esercitasse quella più volte denunciata forma di neo-giacobinismo di natura tecnocatrica e ideologica.
Questo repentino cambio di registro nelle relazioni intra-istituzionali non potrà giovare alla Chiesa, vista prima in chiave collaborazionista e ora ribelle.
In tal senso va interpretata la tempestiva risposta della Presidenza del Consiglio (che peraltro, nel suo rapido avvicendarsi, lascia anche adito a supporre che trattasi di una pietosa tarantella già preparata) che si limita – naturalmente – a “prendere atto” della posizione della CEI espressa nella Nota. L’aggiunta dell’inciso per il quale si annuncia “lo studio di un protocollo” altro non è che un mero auspicio, un indirizzo d’azione, ma non una vera soluzione del problema. Per cui, va riportato coi piedi per terra chi parla di “ritrattazione” delle posizioni del Governo, perché la norma rimane.
E cosa dice la norma? Dice le stesse cose del dpcm 10 aprile 2020, e dunque, in modo sfacciatamente offensivo, ricomprende le norme sui luoghi di culto nella medesima voce (cfr. art. 1, co. 1, lett. i))  in cui si tratta di «cinema, teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, discoteche e locali assimilati», dichiara che la loro apertura «è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro», conferma che «Sono sospese le cerimonie civili e religiose» salvo poi aggiungere che «sono consentite le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di congiunti e, comunque, fino a un massimo di quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezioni delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro».
Al di là delle considerazioni note, salta subito agli occhi una cosa: che la religione è un fattore che, se proprio deve esserci, riguarda i morti. Come se le anime dei vivi non avessero diritti esercitabili pubblicamente. In tale posizione si ravvisa una chiara ispirazione di natura materialista, per la quale la religione è una cosa tollerabile per chi va nell’aldilà, una credenza e non una fede. Al netto di ciò, probabilmente, essere banale eco di Creonte era troppo spiacevole per le pagine della nuova storia patriottica che sta scrivendo con la grafite il capo del Governo, per cui s’è deciso di agire con magnanimità e “concedere” le “cerimonie funebri”.
Qui apro una parentesi ermeneutica: si fa presente ai benpensanti che ritengono si possano fare “i funerali” (nel senso liturgicamente completo del termine) che in realtà non è così. Per “cerimonia funebre” – alla lettera – andrebbe intesa (salvo, naturalmente, che la Direzione Generale per gli Affari dei Culti non ci delizi di altre rubriche alternative sull’uso dei parati neri o viola, del piviale o della sola stola, o delle candele gialle o bianche) il solo Rito delle Esequie (cioè quello detto della “commendatio” e della “valedictio” che ordinariamente conclude la celebrazione) ma non anche la Missa pro defuncto praesente cadavere: se così non fosse, non se ne auspicherebbe la celebrazione esterna. Delusi? Eh, lo so…
Assodato, dunque, che per esprimere pubblicamente la propria fede bisogna avere un morto in famiglia, nella sempre più imbarazzante vaghezza e indeterminatezza del presente caos normativo ci chiediamo: chi sono i congiunti? Fino a quale grado? Il diritto ormai è un’opinione… e poi, i congiunti di chi? Del defunto? O i congiunti tra loro congiunti? Quindici persone… ci sarà chi le conterà? Ma poi, perché un numero stabilito se si parla di luoghi “preferibilmente” all’aperto? Una piazza è uguale al cortile di un oratorio? Cosa si intende, sul sagrato? Chi stabilirà se i presenti sono parenti o meno? Bisogna presentarsi col documento? Ci saranno gli agenti accertatori alla bussola? E coloro che abitano nella stessa casa? Perché dovrebbero stare a un metro di distanza quando siedono alla medesima tavola e magari condividono lo stesso letto? E poi quale sarebbe la ratio per la quale se muore un genitore e i figli si trovino nel naturale dovere di consolare il superstite, o di consolarsi tra loro, non possano farlo abbracciandolo, o abbracciandosi, come sempre si fa? Che governo è quello che proibisce anche gli atti di umanità e di pietà?
Oltre ogni grottesca e surreale ipotesi, ci viene da chiederci come l’Italia, culla della civiltà giuridica, si sia potuta ridurre ad essere madre di siffatte inconcepibili baggianate e di una legislazione oscena e aberrante sotto ogni profilo, sublimazione dell’incertezza e regolata dall’arbitrio.
E qui mi si consentano alcune riflessioni sul metodo usato ieri dal capo del Governo: al di là di ogni considerazione di carattere politico, ciò che risalta oggettivamente è la sicumera con la quale, in plurale maiestatico, egli si è espresso; con toni arroganti misti a vocaboli da tabloid, ma anche saccenti, autocratici, dismesse le vesti dell’“avvocato del popolo”, egli si presenta come lo “psicologo del popolo”, come una maestrina moralizzante, che per di più minaccia nuove sciagure se non si seguiranno i suoi (eterodiretti) consigli.
La premessa metodologica è essenziale: la conferenza stampa inizia dicendo che non è bene interrogarsi sulle responsabilità, che non è opportuno cercare dei soggetti imputabili… nessun senso critico per gli italiani. Solo ubbidienza. Si “concede” di avere delle libertà, ma non tutte, solo alcune. Si “concede” di avere dei sentimenti, ma non tutti, solo alcuni. Si “concede” (come ai parenti dei carcerati) di “poter” vedere i “congiunti”, ma non tutti, solo alcuni. Come facendo stendere ciascuno di noi sul lettino dello strizzacervelli, e ipnotizzandoci con la paura del contagio, Lui ci psicanalizza e ci dice che non dobbiamo vedere nemici, che non dobbiamo interrogarci sui perché (perché è inutile, c’è Lui, Lui-può- e-sa-tutto) ma che il nostro “bene” consiste nell’ubbidire ordinatamente ai dettami della dittatura sanitaria, nell’irreggimentarci nella nuova gerarchizzazione valoriale di questa realtà distopica, dove la salute è superiore alla Vita. Allineamento e normalizzazione sono le nuove sole parole d’ordine, categoriche, e impegnative per tutti.
Su tutto e tutti vigila il Komitato, l’astratta entità onniregolatrice come il despota di Orwell: il Komitato solleva criticità; il Komitato regola la nostra vita intima e la nostra vita pubblica; il Komitato sospende il concordato e deroga al diritto internazionale; il Komitato è il nuovo parlamento; il Komitato reputa patogena la partecipazione ordinata alla messa ma non altrettanto patogeno il 25 aprile, il Komitato, il Komitato, il Komitato.
Assistiamo al trionfo della tecnocrazia e del funzionalismo su tutto. Mentre l’Uomo è un’ameba che va diretta, ordinata, inquadrata, mediante l’applicazione pedissequa delle tenebrose circolari dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, i Signori Superiori Invisibili, che ci vuole tutti con l’app di mappatura, la nuova stella gialla a sei punte che assicura il nuovo ordine mondiale.
Ed ecco che arriva poi il nuovo mantra di stampo pseudo-patriottico: “Se vuoi bene all’Italia mantieni le distanze”. Allora forse è arrivato il momento di seguire davvero questo invito, e quindi, se vogliamo il bene dell’Italia e nostro, prendiamo le distanze da questa visione ideologizzata, non allineiamoci al pensiero unico, difendiamo la civiltà di valori e di principi di dignità, riconquistiamo la perduta libertà, non uniformiamoci alle leggi irrazionali e immotivate, pur con la prudenza che solo il buonsenso esige.
E se vuol bene all’Italia e agli italiani, se vuole davvero il “bene” dell’Italia che il Concordato ha restituito a Dio, la Chiesa italiana respinga con forza la norma impostale, non a parole ma coi fatti e non si renda ancora complice di questo operato totalitario; invochi il rispetto degli Accordi vigenti (e dei diritti costituzionalmente garantiti) e si faccia garante, mediante la sua struttura istituzionale, delle cautele igieniche prudenziali senza scadere nella misofobia. Esiga che lo Stato metta a disposizione tutti quei mezzi di igienizzazione opportuni per esercitare serenamente il diritto soggettivo della libertà religiosa presidiato dalla Costituzione. Non chieda “autorizzazioni” a vivere liberamente, ma piuttosto esiga che nessun cittadino sia discriminato o mortificato nel rispondere al vigile o al poliziotto di turno “Vado a Messa”; esiga che nessuno possa multare il cittadino che esercita un diritto che la Costituzione considera inviolabile. Viva e regoli autonomamente la sua vita sacramentale, si riappropri della sua vita pastorale, non sottostia a nessuna trattativa né ad alcun protocollo di dubbio genitore. E soprattutto difenda i suoi sacrosanti diritti perché coincidono coi diritti di Dio. Questo è l’unico modo per il quale poter uscire dalle asfissianti sabbie mobili in cui si è ficcata.
Per cui, senza aspettare domenica prossima e senza aspettare che qualcuno lo “consenta”, già da domani si suonino le campane, si aprano le chiese, si mettano i cattolici nella condizione di esercitare liberamente i propri diritti e di recarsi in chiesa a celebrare il giorno del Signore con compostezza e prudenza, uno per banco, ordinati, così come sempre nella storia ha dato mirabile esempio di coerenza e civiltà, moltiplicando naturalmente le messe d’orario.
Non abbiamo bisogno del permesso di nessuno per essere cattolici e dimostrarlo, e lo dice il nostro diritto, tanto positivo quanto naturale.
Chi ancora crede di poter risolvere la questione mediante “negoziati” altro non fa che assecondare un regime illegittimo che vive nell’illegalità e che ha alterato e scardinato il sistema di coordinamento previsto dal nostro ordinamento giuridico (motivo per cui auspichiamo quanto prima l’intervento degli organi preposti alla vigilanza della garanzie costituzionali).
Nota estetica di chiusura: forse non tutti sanno che il capo del Governo manda in onda le sue verbose e caotiche conferenze stampa dalla “Sala delle Galere” di Palazzo Chigi con alle spalle la copia di un affresco di Raffaello che trovasi in una delle lunette della Stanza di Eliodoro del Palazzo Apostolico Vaticano raffigurante il Pontefice San Leone Magno (coi tratti di Leone X) all’atto di fermare, nel 452, Attila, re degli Unni, che dopo aver minacciato i diritti inviolabili della Chiesa, di lì a poco morirà per una violenta epidemia di malaria.
Chi ha orecchi per intendere, intenda.
Fabio Adernò
Marco Tosatti
28 Aprile 2020 Pubblicato da  28 Commenti --

1 commento:

  1. Credo che la responsabilità di questo estraniarsi della Chiesa dai morti a causa di questa "peste" sia principalmente di Bergoglio. L'avvocato Conte gode di amicizie ed appoggi in Vaticano. Conte non brilla per coraggio ma per abilità nel fare l'inchino ai potenti giusti. Bergoglio pare che aspiri a restare solo nella Chiesa come ci mostrò quella sera sotto la pioggia in piazza S.Pietro. Sta ripetendo lo stesso atteggiamento che tenne in Argentina durante la dittatura militare.

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