Il divieto delle messe con il popolo, imposto l’8 marzo dal capo del governo italiano con l’assenso della conferenza episcopale e confermato “sine die” il 26 aprile di nuovo dal capo del governo, ma questa volta con la dura protesta pubblica della CEI, ha aperto un serio interrogativo: da che parte sta papa Francesco? che cosa vuole davvero?
L’interrogativo si è ingigantito dopo che il 28 mattina, nell’introdurre la sua messa a Santa Marta, il papa ha chiesto di invocare dal Signore “la grazia dell’obbedienza alle disposizioni”, cioè di sottostare agli ordini del governo.
Dunque il papa, che è anche vescovo di Roma e primate d’Italia, si è schierato dalla parte del governo italiano e contro la richiesta dei vescovi di un urgente ritorno alle messe con il popolo?
Se così fosse, però, Francesco avrebbe contraddetto non solo i vescovi ma anche se stesso, perché il 17 aprile, nell’omelia della sua messa a Santa Marta, lui per primo – rispetto alla CEI – aveva denunciato come insostenibile la prolungata sospensione delle messe con presenti i fedeli, perché “questa non è la Chiesa”.
È vero che anche in questa sua denuncia c’era qualcosa di contraddittorio, perché il papa ammoniva di non cedere a una Chiesa “viralizzata”, telematica, proprio dagli schermi di una sua messa teletrasmessa.
Ma ormai, in lui, le contraddizioni non si contano più. Basti riandare all’ingiunzione di chiudere tutte le chiese della sua diocesi di Roma, impartita il 12 marzo e rinnegata meno di 24 ore dopo, addossando il tutto all’incolpevole suo cardinale vicario, che aveva semplicemente messo in atto i voleri del papa.
E non è finita, perché il 29 aprile, appena un giorno dopo il suo atto di “obbedienza” al governo italiano, Francesco gli ha di fatto… disobbedito.
Nell’omelia della sua messa a Santa Marta il papa ha detto di aver ricevuto una lettera da “un ragazzo di Caravaggio”, il quale lo rimproverava di dire “La pace sia con voi” durante la messa: “E tu non puoi dire questo perché con la pandemia noi non possiamo toccarci”.
Ma quel ragazzo, ha proseguito il papa volgendo lo sguardo agli invisibili astanti, “non vede che voi [qui in chiesa] fate un inchino con la testa e non vi toccate”.
Dal che si ha la conferma che le sue messe a Santa Marta Francesco non le celebra in solitudine, come mostrano le riprese televisive (vedi foto), ma con presenti dei fedeli che le telecamere vaticane evitano accuratamente di inquadrare, tanto meno quando fanno la comunione.
Naturalmente il papa, all’interno delle mura vaticane, è liberissimo di non sottostare agli ordini di un governo straniero. Nelle festività pasquali, anche le sue messe teletrasmesse da dentro la basilica di San Pietro erano “cum populo”, e le telecamere non ne facevano mistero.
Ma se questo è l’esempio vivente che il papa dà, perché umiliare i vescovi e i tanti sacerdoti e fedeli che in Italia vorrebbero fare lo stesso, con tutte le precauzioni del caso?
(A proposito di precauzioni, il 30 aprile la conferenza episcopale italiana, d’intesa col ministero degli interni, ha disposto che prima delle messe esequiali – le sole finora consentite – i partecipanti, non più di 15, siano sottoposti alla verifica che la loro temperatura corporea non superi i 37,5 gradi e che alla comunione sia il celebrante ad accostarsi a ciascun comunicando, indossando la mascherina e dopo aver “curato l’igiene delle proprie mani”, e offrendo l’ostia “porgendola sulle mani dei fedeli senza venire a contatto fisico con esse”).
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Tutto questo per introdurre la nota inviataci da Agostino Menozzi, già presidente dell’Azione Cattolica della diocesi di Reggio Emilia e docente di lettere nelle scuole superiori della città.
Nella nota, infatti, Menozzi prova a sciogliere proprio le maggiori contraddizioni sopra richiamate e a esporre le buone ragioni sia della CEI che del papa, da lui visti in sostanziale concordia.
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CHIESA ITALIANA E PANDEMIA. QUALCHE RIFLESSIONE
di Agostino Menozzi
La questione in gioco è la non partecipazione dei fedeli alla messa, e quindi all’eucaristia. Si tratta di una situazione molto delicata e complessa, con diversi aspetti che non sempre i giornali tengono nella dovuta considerazione. Provo a sintetizzarne alcuni.
1. La prima sottolineatura riguarda l’importanza dell’eucaristia per la realtà stessa della Chiesa e dei singoli cristiani. Non c’è cristianesimo, non c’è Chiesa senza eucaristia. Lo stesso precetto della partecipazione all’eucaristia domenicale dipende da questo. Il divieto delle messe partecipate dai fedeli nelle nostre chiese, in seguito all’epidemia che ha colpito il nostro paese e gran parte del mondo, tocca quindi la sostanza stessa della vita cristiana. È bene ricordare che in duemila anni di storia della Chiesa non si è mai verificata una situazione di questo tipo, neppure durante le persecuzioni più crudeli, che vietavano – e in alcuni paesi ancora vietano – ogni espressione di vita cristiana, compresa la messa. Ora, nella situazione attuale, non sono impedite le messe, tanto è vero che ogni sacerdote continua a celebrare l’eucaristia per suo conto, ogni giorno, non solo nei giorni festivi. È impedita la partecipazione dei fedeli per evitare una maggiore diffusione del contagio.
Forse anche nella cosiddetta fase 1, quella partita l’8 marzo scorso, poteva essere evitato un divieto totale e assoluto. Bastava garantire, in modo serio e controllato, l’osservanza di severe norme di sicurezza: la distanza tra i fedeli (le nostre chiese sono spesso molto grandi), l’uso della mascherina, la presenza di gel disinfettante nei luoghi di accesso, l’esclusione di occasioni di contagio (acquasantiera, abbracci di pace ecc.). In molte situazioni sarebbe stato anche possibile, con le stesse misure di sicurezza, celebrare messa all’aperto. Quanto alla distribuzione dell’eucaristia ai fedeli, occorrevano ovviamente garanzie ulteriori, a partire dal divieto della comunione sulla lingua e della comunione sotto le due specie. Per la comunione distribuita sulla mano del fedele bastavano precise indicazioni igieniche per i sacerdoti: anche per loro l’uso del gel disinfettante, il lavarsi con cura le mani sia prima della celebrazione sia prima della distribuzione dell’eucaristia, e l’uso della mascherina nel momento della distribuzione.
Certamente tutto questo avrebbe previsto comportamenti molto macchinosi, di difficile attuazione, suscettibili di interpretazioni diverse; e soprattutto avrebbe provocato una diffusa incomprensione, rispetto all’esigenza di salvaguardare la salute pubblica. Anche per questo la conferenza episcopale italiana, dopo un fitto dialogo con il governo, ha accettato, nella fase 1, questo divieto di partecipazione dei fedeli. Si è trattato però di un fatto del tutto eccezionale, che ha comportato per la Chiesa e per i fedeli una rinuncia pesantissima, quella appunto della partecipazione all’eucaristia, tanto più nei tempi forti della quaresima e della Pasqua.
I non cristiani e le persone non credenti fanno fatica a capire tutto questo. Si è indotti facilmente ad associare le cerimonie liturgiche ad altre attività di tipo culturale, civile e sociale (spettacoli, teatri, conferenze, manifestazioni pubbliche ecc.), che pure prevedono la partecipazione delle persone. Non ci si rende conto che per i cristiani la vita sacramentale è come il respiro: non se ne può fare a meno.
In vista della fase 2, che dal 4 maggio comporta la parziale e graduale apertura a una serie di attività prima vietate, il governo ha dato priorità, sempre con le dovute misure protettive, ad alcune attività economiche (la riapertura di aziende produttive e commerciali) e sociali (la visita ai familiari, le attività motorie e sportive individuali…). Circa la sfera religiosa ha consentito soltanto i funerali con la partecipazione di un numero esiguo di parenti (un massimo di 15 persone). Poi, dal 18 maggio ha previsto la riapertura di musei, mostre e biblioteche. Silenzio totale sulle altre attività religiose.
Va ricordato che in queste settimane non si era interrotto il dialogo fra il governo e la CEI in vista della definizione delle modalità di una riapertura, anche solo parziale, delle attività religiose, a partire dalle messe domenicali. “Sono allo studio del governo nuove misure per consentire il più ampio esercizio della libertà di culto”, aveva detto ad “Avvenire” il 23 aprile scorso il ministro dell’interno Luciana Lamorgese. Si era anzi giunti alla stesura di un protocollo concordato fra le due parti, in cui si definivano limiti e modalità di questa riapertura. Poi tutto è saltato con l’annuncio e la pubblicazione delle norme da seguire dal 4 e dal 18 maggio. Da qui il comunicato della CEI, giudicato da molti sbagliato ed eccessivo sia nella sostanza che nella forma.
Quanto alla sostanza, vale quanto detto in precedenza circa il valore dell’eucaristia per la vita della Chiesa: ne è il cuore e il respiro. Si può aggiungere anche il fatto che il governo italiano ha unilateralmente disatteso i termini degli accordi del 1984 fra Stato e Chiesa in Italia, secondo i quali “Stato e Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, e (art. 5) “gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica”. È proprio questo accordo con la CEIi che è venuto a mancare col decreto del 26 aprile (mentre c’era stato prima di quello dell’8 marzo). La protesta della CEI è quindi del tutto giustificata anche dal punto di vista delle norme giuridiche. Questo spiega anche la fermezza usata nella forma del comunicato. Sono state criticate espressioni tipo: “la Chiesa esige…”, “il DPCM esclude arbitrariamente…”, “alla Presidenza del Consiglio si richiama il dovere…”, “i vescovi italiani non possono accettare…”. Ma le espressioni del comunicato si spiegano proprio per il “vulnus”, la ferita inflitta dal governo alla vita della Chiesa e ai rapporti tra Stato e Chiesa.
Qualcuno ha poi criticato, nel comunicato della CEI, l’accenno al fatto che “il servizio verso i poveri… nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Si è detto che questa frase suona come una specie di ricatto: se non aprite alle messe con il popolo noi mettiamo in discussione il nostro servizio ai poveri. Ma chi ragiona così non sa che cosa lega il servizio ai poveri all’eucaristia. Se il servizio ai poveri fosse, nella Chiesa, un fatto a se stante, allora nulla la differenzierebbe da qualsiasi altra associazione di solidarietà e di volontariato. Ma è proprio questo il rischio che sempre i cristiani corrono se non si legano all’eucaristia e alla Parola di Dio. I cosiddetti “tre pani” – il pane della Parola di Dio, il pane dell’eucaristia e il pane del servizio ai poveri – sono tra loro legati in maniera profonda e sostanziale: non c’è l’uno senza l’altro. Nessun ricatto, dunque, ma solo lìindicazione di una verità che, nella Chiesa, è sostanza del suo stesso esistere.
2. Un ragionamento particolare riguarda poi le messe in TV. Si è parlato da più parti, sia dentro che fuori della Chiesa, di rischi di spettacolarizzazione, del pericolo di ridurre la messa ad un fatto virtuale, di partecipazione isolata e intimistica dei fedeli, eccetera. Tutto vero. Anche papa Francesco il 17 aprile scorso aveva sottolineato questi rischi nell’omelia della messa in TV dalla cappella di Santa Marta: “Questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. […] Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, senza i sacramenti, è pericolosa. […] La gente che è collegata con noi ha soltanto la comunione spirituale: questa non è la Chiesa, questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”.
Eppure, anche la messa in TV può avere un suo valore. Anche se da casa propria, anche senza comunità, anche solo in forma virtuale, si può però entrare in comunione spirituale con il sacerdote che celebra, ascoltare la Parola di Dio e l’omelia che la commenta, pregare con le parole della liturgia eucaristica, fare la comunione spirituale… E questo anche tutti i giorni, cosa impossibile nei tempi normali del lavoro. Ed è un fatto, virtuale fin che si vuole, a disposizione di tutti, credenti e non credenti. Quante persone prive di fede o con una fede incerta, ambigua, trovano conforto e ragioni di riflessione da queste messe televisive.
Quando si tornerà alla messa in chiesa, con la comunità dei fedeli al completo come sempre, nessuno dei credenti rinuncerà a parteciparvi per restare a casa alla messa in TV. Tutti sanno che questa non è una messa vera, che manca, in TV, la partecipazione completa, fisica, personale e comunitaria, all’evento salvifico del sacrificio di Cristo, che resta unico ma che in ogni messa si rinnova.
3. Un’ultima riflessione sulle parole del papa in apertura della messa del 28 aprile a Santa Marta. “In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena”, ha detto papa Francesco, “preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”.
Queste espressioni, giunte all’indomani del comunicato della CEI, sono state interpretate da molti come una sconfessione del papa ai vescovi italiani. Ma per un giudizio sereno occorre ricordare anzitutto quello che il Santo Padre aveva detto il 17 aprile sulle messe in TV: “Questa non è la Chiesa”. Anche allora molti – specialmente i cosiddetti tradizionalisti all’interno della Chiesa – avevano interpretato quelle parole come una sconfessione alla CEI, colpevole di aver accettato la chiusura delle chiese e la non partecipazione dei fedeli alla messa comunitaria.
Bisognerà invece esprimere un giudizio un po’ più elevato e non troppo contingente. Sono giusti e appropriati entrambi gli interventi del papa: 1. la messa virtuale, in TV, non è messa vera; 2. la pandemia non è finita e occorre seguire le disposizioni emanate per la seconda fase. Punto. Il fatto che la seconda di questa espressioni sia uscita la mattina del 28 aprile, cioè all’indomani del comunicato della CEI, significa una sconfessione? Non direi proprio. Il papa non è solito parlare sulla base delle situazioni di cronaca; tanto meno se queste situazioni si legano a polemiche interessate pro o contro la Chiesa, pro o contro una parte della Chiesa. Chi segue gli interventi di papa Jorge Mario Bergoglio sa che non è questo il suo modo di esprimersi. Ogni altra interpretazione è fuorviante.
Riguardo poi le intenzioni espresse dal papa all’inizio delle sue messe a Santa Marta, io sono convinto che sono decise in anticipo con una programmazione di più giorni, forse settimanale. Questo spiega, ad esempio, la preghiera per l’Europa, fatta il 29 aprile nella festa di santa Caterina da Siena, patrona d’Italia e d’Europa.
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(s.m.) Una glossa là dove Menozzi scrive, a proposito del divieto delle messe “cum populo” che “in duemila anni di storia della Chiesa non si è mai verificata una situazione di questo tipo, neppure durante le persecuzioni più crudeli”.
Perché almeno un precedente c’è stato, di sospensione volontaria del culto pubblico da parte dell’autorità ecclesiastica, e non soltanto per imposizione di un potere ostile.
Cito da Giovanni Formicola, “Difesero la fede, fermarono il comunismo. La Cristiada, Messico 1926-1929. La Cruzada, Spagna 1936-1939”, Cantagalli, Siena, 2019:
“Il 31 luglio 1926 tutti i vescovi del Messico, uniti ai loro sacerdoti e ai laici attivi nel contrastare la persecuzione di Stato in atto, decretarono la chiusura di tutte le chiese e la ‘serrata’ del culto. Questa fu un’estrema protesta – discutibile quanto si vuole – contro una persecuzione che stava assumendo toni via via più aggressivi, e contro l’esproprio dei templi da parte del governo. E però il culto proseguì, da libero e pubblico divenne clandestino, ma messa e sacramenti non mancarono per i fieri e coraggiosi che li chiedevano, grazie ai pochi eroici sacerdoti non uccisi, o imprigionati o esiliati, gli uni e gli altri a rischio della vita”.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 02 mag
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/05/02/francesco-e-le-messe-senza-popolo-la-parola-alla-difesa/
I vescovi francesi rispondono al divieto di culto di Macron
http://www.iltimone.org/news-timone/vescovi-francesi-rispondono-al-divieto-culto-macron/
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/05/02/francesco-e-le-messe-senza-popolo-la-parola-alla-difesa/
I vescovi francesi rispondono al divieto di culto di Macron
Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato che le celebrazioni di messe con presenza dei fedeli non potranno riprendere prima del 2 giugno, nonostante gli allentamenti del lockdown transalpino avvengano a partire dall’11 maggio prossimo.
Come accaduto in Italia, dopo l’annuncio di domenica scorsa di Giuseppe Conte sulla fase 2 senza messe, anche i vescovi francesi hanno reagito con un comunicato davanti a questa decisione del governo. Questo il passaggio centrale della nota del Consiglio permanente della Conferenza episcopale di Francia:
«Condividiamo la preoccupazione del governo di limitare il più possibile la circolazione dell’epidemia, ma è difficile capire come la pratica ordinaria della messa promuova la diffusione del virus e ostacoli il rispetto delle protezioni più di molte delle attività che, invece, riprenderanno presto. La dimensione spirituale e religiosa dell’essere umano contribuisce, siamo convinti, alla pace dei cuori, alla forza nelle prove, alla fratellanza tra le persone e a tutta la vita sociale. La libertà di culto è un elemento fondamentale della vita democratica. Questo è il motivo per cui i vescovi desiderano incontrare il pubblico, le autorità nazionali o locali, per prepararsi all’effettiva ripresa del culto».
Molti vescovi hanno espresso posizioni chiare, aggiungendosi a quanto già dichiarato dalla conferenza episcopale.
Mons Marc Aillet, vescovo della diocesi di Bayonne, Lescar e Oloron:
«Non credo che si possa capitolare senza discutere di ciò che sembra essere una grave mancanza di rispetto per i cattolici. Siamo persone responsabili, in grado, così come i commercianti e i curatori di musei, di adottare precauzioni sanitarie».
Mons. Bernard Ginoux, vescovo di Montauban:
«Il culto pubblico proibito = caso di coscienza. Non possiamo privare i nostri fedeli del cibo essenziale che è la grazia sacramentale. Quindi li nutriremo».
Mons Matthieu Rougé, vescovo di Nanterre:
«Una mancanza di rispetto incredibile. Emmanuel Macron dovrebbe capire che la Francia ha bisogno di tutti per superare la crisi e costruire la pace!»
http://www.iltimone.org/news-timone/vescovi-francesi-rispondono-al-divieto-culto-macron/
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