Vangelo e crocifisso
Appena qualche decennio fa il noto sociologo Zygmunt Baumann, in “Modernità liquida”, ci offriva una lettura della società post-moderna che evidenziava il fatto che la condanna e la dissacrazione delle strutture esistenti da parte della società che ci ha preceduto aveva di conseguenza generato un diffuso individualismo a causa del quale l’uomo di oggi si sente sempre più smarrito, e ciò perché la società ha cominciato a smarcarsi dal suo ruolo di garante nei confronti dei suoi cittadini, finendo per cedere il passo all’inquietudine, all’incertezza e alla paura, privando l’uomo di riferimenti sicuri e promuovendo una pericolosa fluidità di valori.


Un fenomeno analogo sembra oggi addentrarsi tra le pieghe della teologia odierna, che da qualche decennio a questa parte non dà più l’impressione di svolgere la sua missione docente, e sembra quasi aver smarrito quella sua capacità di fornire risposte solide che traggono la loro linfa vitale dal tesoro della Divina Rivelazione, dal depositum fidei.
Anche qui, la dissacrazione delle strutture e dei capisaldi dottrinali, in quanto punti di riferimento della teologia cattolica, ha fatto sì che quest’ultima fosse sempre più “liquida”, sempre meno consistente e sempre più in procinto di subire un processo di evaporazione dogmatica e morale.
Ciò che si percepisce, in particolare, è la tendenza da parte di certi teologi moderni a promuovere un pericoloso conciliabolo tra il messaggio evangelico e le ideologie che il mondo propugna, mascherando il tutto sotto il nome di alcuni concetti di per sé positivi come  “dialogo”, “rispetto”, “solidarietà”, “empatia”…etc…
Il teologo sembra essere caduto nella rete nefasta dell’individualismo, del relativismo etico e dottrinale, in cui a prevalere non è l’insegnamento oggettivo e perenne proposto dal magistero della Chiesa bensì, come disse già Benedetto XVI, “l’io e le sue voglie”, l’io e le sue opinioni, l’io e i suoi sentimenti personali.  Le conseguenze non possono che essere: l’interpretazione arbitraria e privata delle Scritture, il vivere la fede come cammino individuale e privo di mediazioni, il vedere proclamata una verità dogmatica oggettiva come un’assurda imposizione della gerarchia, la paura di accogliere e affermare la Verità.  Ed è su quest’ultimo punto che vogliamo focalizzare la nostra attenzione.
Il teologo di oggi sembra così preoccupato di accondiscendere alle richieste del mondo che sembra aver smesso di predicare Cristo, il quale invece lo invita ad essere “amministratore fedele” (1Cor 4,12) e non ideologo “spinto da qualsiasi vento di dottrina” (Ef 4,14).
Anche qui la conseguenza è ben nota: la teologia stessa ha cominciato a guardare dalla finestra del mondo come muta spettatrice degli spettacoli offerti dal laicismo imperante, permettendo che le forti correnti in circolo, che una volta le erano contrarie, entrassero nella propria abitazione, mostrandone così il fondamento sabbioso e inconsistente. Questo status attuale della teologia ha dato vita a una generazione di teologi pavidi, ultrasensibili alle tematiche umanitarie, filantropliche, ecumeniche ed ecologiche, e poco propensi a riaffermare con decisione e coraggio le verità di sempre, tanto scomode quanto immutabili.
Facciamo qualche esempio pratico: è ormai drammaticamente appurato che alcuni di questi teologi nelle loro lezioni accademiche, nelle loro predicazioni e nella loro missione ad personam, non affermano più, in riferimento ai membri delle altre religioni, la necessità del battesimo in vista della salvezza, perché hanno sostituito il comando di Cristo, che è quello di evangelizzare tutte le genti battezzandole (Cfr. Mt 28,19), con il comando del mondo che propone un falso umanesimo, piatto, orizzontale, che non ha il suo fondamento nella persona di Gesù, nella sua Parola e nei suoi sacramenti, ma che al contrario si identifica con una fraternità universale del tutto sganciata dagli assunti evangelici. In tal modo si attua un’operazione di riduzionismo teologico, biblico e spirituale impressionante, operazione che risulta ancora più clamorosa se pensiamo al fatto che questi stessi teologi invocano da più parti il ritorno alle radici bibliche, ai riferimenti scritturistici, omettendo di dire però che nella stessa Bibbia, in riferimento alla salvezza che si ottiene in Cristo, troviamo scritto che quando i giudei chiesero all’apostolo Pietro cosa dovessero fare per essere salvati (cfr. At 2,37) questi non li invitò a organizzare un congresso di un meeting interreligioso, ma al contrario disse loro: “Convertitevi e fatevi battezzare” (At 2,38). Vogliamo forse accusare San Pietro di fondamentalismo e di tradizionalismo? Lui che aveva ricevuto la missione da Cristo in persona non aveva compreso nulla della misericordia, del rispetto e della tolleranza verso i membri di altre religioni? Misteri della “fede” di oggi.
Passiamo al secondo esempio che avalla il nostro discorso: la stragrande maggioranza dei pastori ha paura di citare la parola, e quindi di trasmetterne il concetto, di “castigo”. “Non vogliamo dare un’immagine sbagliata di Dio” dicono, “non c’è un Dio che castiga” chiosano, “in Gesù Dio si rivela come amore” concludono.
Guardando a queste triplici affermazioni è evidente che il problema risiede nella mal interpretazione  tanto della parola “amore” quanto della parola “castigo”. Eppure entrambe sono ali di un unico gabbiano.
Il concetto di amore propugnato da certa teologia moderna è intriso di sentimentalismo, buonismo e misericordia a buon mercato, lì dove i peccati non sono più chiamati per nome e dove i peccatori non vengono più esortati a cambiare vita. Ma ci chiediamo: è questo il messaggio trasmessoci da Cristo? E’ questo l’esempio che ci hanno dato i santi di tutti i tempi? Non ci ricordiamo più che il vero amore esige la verità? Che volere il bene della persona consiste prima di tutto nel preoccuparsi della salvezza della sua anima anziché ricevere i suoi consensi e le sue approvazioni?
Il teologo (e di conseguenza la teologia) di oggi propugna una specie di populismo teologico-spirituale, in cui egli afferma ciò che le persone vorrebbero ascoltare: così il centro non è più la Verità e la Volontà divina, ma le “verità” e le volontà umane, non più Dio ma l’io.
Siamo di fronte alla cattiva copia della preghiera e della logica del “Padre Nostro”, e allo stesso tempo siamo di fronte ad un processo di immaturità cristiana che mette in crisi non solo la figura del figlio ma anche quella del padre: la teologia di oggi risente di questo aspetto perché manca di quella virilità coraggiosa che le fa dire cose vere, scomode, ma utili alla crescita dei fedeli, cose apparentemente dure ma tanto necessarie a che il cristiano possa vivere nella verità e nella libertà, perché solo la Verità rende liberi (cfr. Gv 8,32), e non è la libertà che rende veri.
Il teologo di oggi sembra orfano di padre, e non perché Dio sia assente, ma perché egli sembra aver rinunciato a vivere quella dimensione di parresìa cristiana, tanto cara agli apostoli e ai santi, per trasmettere parzialmente il Vangelo con la timidezza di chi è ai primi anni della sua vita e ha paura di parlare. Che ne sarebbe oggi del cristianesimo se gli apostoli, i santi, i profeti non avessero parlato chiaro, anche urtando le posizioni altrui? La croce non è forse scandalo? Cristo non è forse stato crocifisso per il fatto che parlava apertamente contro delle dottrine sbagliate?
Siamo di fronte ad un processo di castrazione teologica e spirituale molto avanzato, ma che per grazia di Dio (lo dobbiamo sempre ricordare) non coinvolge tutti, ma coloro che per paura della Verità e per paura di risultare scomodi e di usare un linguaggio duro e sincero (come invece faceva Gesù, cfr. Gv 6,60), cercano di conciliare la luce con le tenebre, la dottrina della Chiesa, che poi è di Cristo, con la dottrina del mondo. Ma “quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele? Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli?” (2Cor 6,15-16). Una cattiva teologia sarà sempre indice di una cattiva fede e viceversa. Questa cattività deriva proprio dal voler conciliare l’inconciliabile.
Tornando al concetto di castigo non possiamo ignorare il fatto che un padre che ama veramente i suoi figli non vuole che essi percorrano vie sbagliate, ed è per questo che in certi momenti la sua voce, i suoi gesti, i suoi “no” devono risuonare per spronare e correggere il proprio figlio.
La parola “castigo” infatti deriva da “castus” che significa purificare, rendere puro. E non è proprio questo che vuole Dio da noi? Non vuole forse questo Padre così buono rendere i suoi figli santi come Egli stesso è Santo?  In Ap 3,19 troviamo scritto: “Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li castigo” dice il Signore. Vogliamo accusare Dio di non aver capito nulla della misericordia? Lui che è Amore infinito?  Tutto questo ci ricorda che la vera misericordia esige anche la giustizia, in vista del bene degli uomini. Il castigo suppone il fatto che Dio non può rimanere indifferente alle vicende umane, proprio perché innamorato delle sue creature, perché desideroso di unirle tutte a sé.
In conclusione, non possiamo pensare di continuare a propugnare una teologia timida, immatura, che ha paura della Verità illudendosi di conquistare e attirare l’uomo a Dio, ma non fornendogli la medicina necessaria alla salvezza dell’anima.
È necessario mettere in campo una Teologia “virile”, coraggiosa, chiara, che non scenda a compromessi con quelle intriganti proposte e ideologie che vengono dalla signora “mondanità” e che si mascherano sotto il nome di un falso progresso e di una falsa libertà.
La Teologia non può essere profetica se si limita a guardare al futuro senza considerare il proprio Fondamento, le proprie radici e il proprio depositum fidei che la ri-guarda da sempre. La Teologia è profetica se scruta con sguardo sinottico e armonico, e in definitiva divino, il presente, il passato e il futuro, proprio e della storia, senza smarrire l’identità che la caratterizza, e assomigliando sempre più a quel padrone di casa che “trae dal suo tesoro cose antiche e cose nuove” (Mt 13,52).
Coraggio!
di Giuseppe Sarto