Scrive così monsignor Antonio Livi all’inizio del piccolo libro Preparazione alla morte: riflessioni teologiche a partire dall’esperienza (casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2020, 126 pagine, 15 euro), un testo che fa bene all’anima e ci aiuta ad affrontare il tema della morte.
Antonio Livi, morto lo scorso 2 aprile, quando gli fu diagnosticata la malattia fatale scrisse alcune brevi riflessioni su quanto gli stava accadendo e ora, rileggendole, possiamo apprezzare ancora una volta lo spessore umano, oltre che teologico, di questo uomo di Dio che conobbi di persona e che ricordo come uomo rigoroso, appassionata alla ricerca religiosa e alla difesa della filosofia cattolica.
Antonio Livi, morto lo scorso 2 aprile, quando gli fu diagnosticata la malattia fatale scrisse alcune brevi riflessioni su quanto gli stava accadendo e ora, rileggendole, possiamo apprezzare ancora una volta lo spessore umano, oltre che teologico, di questo uomo di Dio che conobbi di persona e che ricordo come uomo rigoroso, appassionata alla ricerca religiosa e alla difesa della filosofia cattolica.
Durante la malattia Livi scriveva: “Figurati che passo quasi tutta la notte sveglio a fare orazione e a dialogare con il Signore come non mai nella mia vita precedente. E passo da momenti di richiesta di sollievo fisico a momenti di piena accettazione del dolore, con ringraziamento convinto per come mi sta santificando… E ho compreso perché mi ha chiesto di accettare serenamente la morte, e di arrivarci nella sofferenza corporale e spirituale… Comprendo ora, meglio che mai prima, che Gesù – in tutta la mia umana vita e in prossimità della mia morte – mi ha unito alla sua vita divina, tutta intera (dalla nascita alla morte, che è poi seguita dalla resurrezione), unendomi alla sua missione di rivelatore della verità salvifica”.
E ancora: “È inutile affannarsi pensando di avere un controllo su tutto quello che ci accade; esiste un tempo per tutto, un tempo che si dipana secondo il disegno della nostra vita così come la vuole Dio”.
Ecco, penso che dobbiamo essere grati a don Antonio (mi permetto di chiamarlo così, come facevo quando avevo vent’anni) per queste perle di saggezza cristiana, per queste parole pulite, cristalline, per questi pensieri che ci mettono di fronte al grande mistero della vita e della morte alla luce della speranza cristiana.
Veniamo da mesi nei quali la malattia e la morte sono state al centro della spasmodica attenzione di tutti, ma con un deficit di prospettiva trascendente. Mesi durante i quali anche troppi nostri pastori molto spesso si sono occupati più dell’igienizzazione che della santificazione, ignorando che oltre alla salute del corpo c’è la salute dell’anima e che proprio di quest’ultima dovrebbero occuparsi.
Don Antonio parla anche dei sacerdoti e scrive: “La parola non produce salutari effetti se non quando parliamo in nome e nella virtù di Dio… Così fa il sacerdote fervoroso: prima di parlare, prega affinché la grazia ravvivi la sua parola; parlando, non mira a piacere, ma a istruire… Il buon esempio non può essere dato che da un sacerdote sollecito nel suo progresso spirituale… Chi dunque vuol efficacemente lavorare alla salute delle anime, deve sforzarsi di quotidianamente progredire: la santità è l’anima dell’apostolato”.
In alcune brevi lettere agli amici don Antonio regala altre perle che nella loro semplicità fanno bene alla nostra anima. Scrive per esempio a proposito del tempo in cui viviamo: “Occorre vivere di fede, e dunque ragionare, evitando di essere vittime dei sentimenti, che a volte ci aiutano e a volte ci tradiscono, facendoci dimenticare la verità che conta: che Dio vuole bene a ciascuno di noi infinitamente, e ogni cosa che ci manda (comprese le prove) è per il nostro vero bene”.
Ed ecco le parole sulla sua malattia: “I medici prevedono che morirò presto per un tumore al cervello. Ma sono sereno, perché questa crisi me l’ha mandata Dio per prepararmi bene alla vita eterna, dopo averlo servito fedelmente ottant’anni. E nel frattempo Dio mi assicura che ascolterà le mie preghiere per le persone amiche, come voi”.
Il testo è completato da un saggio (Il mistero, il dogma e l’ermeneutica teologica) nel quale monsignor Livi, tracciando un quadro della teologia cristiana di stampo razionalistico che da anni cerca di ridimensionare o addirittura escludere la verità del fatto cristiano parlando di simbolo o di mito, arriva a formulare un pensiero che si inserisce bene, mi sembra, nel rinnovato dibattito sul Concilio Vaticano II e le sue conseguenze. Scrive infatti Livi: “L’ecumenismo e il dialogo interreligioso hanno avuto, per effetto di queste opinioni teologiche sempre più diffuse, l’aspetto di una prassi ambigua, dove, accanto a lodevoli e proficue iniziative di pacificazione e di fraternità, non sono mancate inammissibili reticenze nella professione della fede cristiana e assurde rinunce all’evangelizzazione”.
Contro la “prassi ambigua” monsignor Livi ha combattuto sempre, fino all’ultimo. E grazie alla luce della fede è riuscito a leggere anche la verità della morte in tutti i suoi aspetti, compresa l’agonia finale, che il teologo descrisse, nel suo significato etimologico, come “lotta contro il demonio che sempre tenta chi sta per morire e vorrebbe che il moribondo non accettasse serenamente ogni cosa che succede in quel momento”.
Un libro, quello di monsignor Livi, che accomuno all’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori e che mi permetto di raccomandare a chi, stanco di sociologia religiosa, desidera tornare ai contenuti fondamentali della fede, evitando ogni forma di contaminazione con la superficialità e il materialismo dei quali è pieno il mondo.
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