Il Ddl Zan su omofobia e transfobia inserisce omosessuali e transessuali tra le categorie che, in quanto vulnerabili, hanno una speciale protezione giuridica, al pari dei minori, dei disabili, delle vittime della tratta di esseri umani. Cioè l'omosessualità non è più solo un bene giuridico, ma un patrimonio giuridico da presidiare con particolare cura.
Ddl Zan o il privilegio di essere gay. Quando si parla in modo critico della proposta di legge Zan giustamente si analizzano soprattutto le novità che tale proposta inserirà negli artt. 604 bis e ter e nel decreto legislativo del 1993 sulle discriminazioni, mettendo in rilievo una serie di aporie in essa contenute: mancanza di lacune nel nostro ordinamento in relazione alla tutela delle persone omosessuali e transessuali tali da giustificare questo Ddl, l’indeterminatezza della fattispecie penale, il vulnus alla libertà di parola e di religione et alia.
Qui però vogliamo mettere l’accento su un aspetto che, nonostante sia secondario rispetto a tali censure, conserva comunque un suo peso specifico significativo. Il Ddl Zan, oltre alle norme già citate, andrà a modificare anche l’art. 90 quater del Codice di procedura penale il quale ha codificato la «condizione di particolare vulnerabilità», condizione a cui appartengono varie classi di soggetti: il minore, il disabile, la vittima di violenza o di tratta di esseri umani, etc. La legge sulla cosiddetta omofobia vuole che anche la persona omosessuale e transessuale possano essere tutelate come soggetti particolarmente vulnerabili, qualora vittima di un reato compiuto per motivi legati al sesso, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e al genere. Tale qualifica comporta, in sede di processo, alcune garanzie e precauzioni a favore di questi soggetti vulnerabili.
Non vogliamo però in questa sede andare ad esaminare quali siano queste garanzie, ma evidenziare il fatto che la persona omosessuale e quella transessuale per volontà di questa proposta di legge diventano categorie giuridiche privilegiate. La ratio di questo provvedimento è già sottesa nella modifica voluta agli artt. 604 bis e ter, laddove si prevede una risposta sanzionatoria rafforzata qualora la vittima di discriminazione o di altro reato abbia un orientamento omosessuale o sia persona transessuale.
Questa intenzione di favorire in modo ingiustificato la persona omosessuale – favor non esteso in questi termini ad altre fasce socialmente fragili come gli anziani, i disabili, i disoccupati, etc. – si appalesa poi anche in altri due articoli del Ddl Zan. L’art 5 infatti istituisce la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. Ciò vuol dire, come aveva già anticipato la legge sulle Unioni civili, che l’omosessualità ed ora anche la transessualità sono non solo condizioni giuridiche, ma condizioni giuridiche a tutela rafforzata. Una specie giuridica protetta. Non più solo un bene giuridico, ma un patrimonio giuridico da presidiare con particolare cura. Quindi omosessualità e transessualità si sono elevate da meri fenomeni sociali a categorie giuridiche e a categorie giuridiche privilegiate.
Sulla stessa frequenza d’onda si muove anche l’art 6 del Ddl Zan in cui si dichiara che il Governo si impegna a promuovere l’agenda LGBT nelle scuole, nei media, negli ambienti di lavoro, etc. È scelta necessariamente consequenziale: se omosessualità e transessualità hanno fatto un così notevole salto verso l’alto nella tutela apprestata dal diritto, non possono che essere promosse nella società affinchè anche la stessa e prima dello Stato si prenda cura di questi fenomeni sociali.
In sintesi il Ddl Zan non assegna all’omosessualità e alla transessualità un peso specifico pari ad altre condizioni sociali (il lavoratore, il giovane, etc.), bensì ne accentua l’importanza, assegna ad entrambe uno spazio giuridico più ampio rispetto al reale spazio occupato nella società.
Tommaso Scandroglio
https://lanuovabq.it/it/ddl-zan-il-privilegio-di-essere-gay
“Io, omosessuale, vi dico perché il Ddl Zan è contro la libertà”
Cinque anni fa il suo nome era salito alla ribalta per la sua difesa della famiglia naturale, nonostante la dichiarata attrazione omosessuale. Oggi Giorgio Ponte, insegnante e scrittore di 36 anni, ripercorre la sua vicenda personale in questa intervista con la Nuova Bussola e critica il Ddl Zan. «Il vero movente della legge è limitare la libertà di parola». Pensare di introdurre un reato di “omotransfobia” è incostituzionale «poiché creerebbe una categoria di persone privilegiata rispetto alle altre contravvenendo al principio della Costituzione che afferma che tutti siamo uguali di fronte alla legge».
Il suo nome era salito alla ribalta ai tempi dei Family Day e dell’approvazione della legge sulle unioni civili. Suscitò sorpresa che un giovane dalle tendenze omosessuali dichiarate si potesse schierare in modo inequivocabile a difesa della famiglia naturale. A distanza di cinque anni, mentre in commissione alla Camera è in discussione il ddl Zan contro la cosiddetta “omotransfobia”, Giorgio Ponte, 36 anni, palermitano trapiantato a Milano, insegnante (dopo aver insegnato religione cattolica per qualche tempo alcuni anni fa, adesso è docente di italiano e storia) e scrittore di romanzi, è tornato a manifestare il suo pensiero. Lo ha affermato sul suo blog e lo ha ribadito nella seguente intervista concessa alla Nuova Bussola Quotidiana: la nostra libertà è fortemente a rischio.
Giorgio Ponte, sono passati cinque anni dal tuo “coming out”: a un articolo su Tempi, seguì una testimonianza su TV2000. Da allora cosa è successo e come procede il tuo cammino spirituale e umano?
Tutto nacque alla fine del 2014, al termine di una mia partecipazione a una veglia delle Sentinelle in Piedi. Mi aveva particolarmente commosso la lettura della testimonianza di un omosessuale cattolico francese, che ci incoraggiava nella nostra battaglia per la libertà di espressione. Un giornalista di Fanpage mi si avvicinò e mi domandò il motivo della mia commozione. Sentivo che, prima o poi, avrei dovuto dire la verità e colsi quell’occasione preziosa: dissi che ero stufo di quanti pretendevano di ridurre la mia vita alle mie tendenze sessuali e che mi ero sentito molto più discriminato dal movimento Lgbt in quanto cattolico, che non dalla Chiesa in quanto omosessuale. Piangevo perché mi faceva soffrire vedere fratelli che ci insultavano quando io ero in piedi per difendere anche la loro libertà. L’intervistatore rimase a bocca aperta. Forse aveva attrazione omosessuale, perché aveva gli occhi lucidi anche lui. Poi la sera stessa vidi il servizio su Fanpage e notai che la mia testimonianza non era stata pubblicata, mentre avevano dato spazio alle poche persone che avevano fatto commenti offensivi (ovviamente qualcuno che parla a sproposito in una manifestazione aperta lo trovi ovunque…). Sentii come se mi avessero censurato e capii che dovevo assolutamente venire allo scoperto. Dopo il mio primo articolo e la mia prima apparizione televisiva, qualcuno ventilò la possibilità di fare una testimonianza al primo Family Day di piazza San Giovanni, del 20 giugno 2015: declinai perché temevo che un tempo troppo ristretto avrebbe reso il mio discorso strumentalizzabile. In seguito me ne pentii: avevo lasciato parlare la paura. Nei due-tre anni successivi ho molto girato l’Italia per conferenze e dibattiti nelle parrocchie e nelle scuole. Ai tempi ero insegnante di religione abilitato, ma non mi richiamarono più. Non mi diedero mai una vera spiegazione del perché, comunque nei tre anni successivi ho vissuto completamente abbandonato alla Provvidenza e non mi è mai mancato nulla. In quel momento tutto quello che dovevo fare era scrivere e rendere testimonianza di quello che Dio aveva fatto per me: “cercate il Regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33) è qualcosa di assolutamente vero, l’ho sperimentato nella mia vita.
Hai spesso raccontato di come la Chiesa ti ha maternamente sostenuto nel tuo cammino umano e spirituale e nel vivere cristianamente la tua inclinazione. Oggi però la Chiesa è divisa e al suo interno emergono correnti “arcobaleno” che suggeriscono benedizioni e ritiri per le coppie dello stesso sesso, persino corsi di fedeltà per le stesse coppie…
I gruppi cosiddetti gay cattolici cui ti riferisci sono gruppi che di “cattolico” hanno solo il nome. Semplicemente avallano la logica dei movimenti Lgbt, mettendoci “una croce davanti”, con uno spiritualismo romantico di fondo del tipo: “L’importante è aiutarti a vivere una relazione stabile”. Senza capire che c’è una ragione psicologica precisa per la quale le relazioni omosessuali non sono destinate ad essere stabili e fedeli sul lungo termine. Di contro ci sono i cattolici più rigidi che, pur contrastando giustamente l’ideologia gender, tendono a sminuire il vissuto di chi ha una simile attrazione, convinti che essa sia un problema di pochi e che non meriti attenzione, senza rendersi conto che i problemi degli omosessuali sono i problemi di tutti: intendo dire che chi ha un’attrazione omosessuale ha solo il sintomo più evidente di una ferita dell’identità che oggi accomuna la maggioranza delle persone. In fondo, entrambe queste correnti fanno lo stesso errore: concentrarsi sul sintomo superficiale, cioè l’attrazione, senza prendersi la responsabilità di andare a fondo di essa, per chiedersi di cosa sia segno; quale sia il bisogno di identità profondo e legittimo che nasconde, la ferita che la genera e che necessita di essere guardata, per prendersene cura. Per quanto mi riguarda io ho avuto detrattori da entrambe le parti, poiché non riuscivo a rientrare pienamente in nessuno dei due schemi: sono troppo cattolico per i gay cattolici, troppo omosessuale per i cattolici rigidi; troppo psicologico per chi viene guidato spiritualmente alla castità e troppo spirituale per chi tenta la terapia riparativa. Col risultato che persino alcuni di quelli che avrebbero dovuto sostenermi mi hanno abbandonato: un certo tipo di Chiesa che era più preoccupata dell’opinione pubblica che di sostenere la verità; alcune realtà con cui combattiamo la stessa battaglia, ma per le quali - per il fatto che ancora provassi attrazione e non ne avessi timore - non ero visto come “adeguato”.
Vivere un’inclinazione omosessuale in armonia con l’insegnamento della Chiesa è in contrasto con l’accettazione della propria omosessualità?
Assolutamente no: è chiaro che chiunque, per poter stare bene, ha bisogno prima di tutto di accettarsi integralmente, in ogni aspetto di sé, e l’omosessualità in questo non fa differenza. Il punto è che questa accettazione non deve essere passiva, come una condanna che ti capita tra capo e collo. Accettare ciò che proviamo è l’unico modo per poterlo guardare in verità e tentare di capire cosa farci. Non dobbiamo esaltarlo, ma non possiamo nemmeno nasconderlo per sempre come se fosse un marchio di ignominia. Questo è uno dei motivi per cui molti omosessuali fuggono dalla Chiesa: perché non trovano in Essa un luogo che li faccia sentire accolti, dove si possa parlare della loro fragilità senza timore. Il paradosso è che chi sa la verità e cerca di vivere nella castità la sua condizione, viene spinto quasi a vergognarsi di ciò che vive (“meglio che di questo non parli con nessuno”), mentre chi vive nella menzogna, abbraccia la vita gay e non crede nell’insegnamento del Vangelo, viene spinto a raccontare la sua esperienza di “cattolico” dappertutto. Una persona omosessuale che vuole vivere nella verità della Chiesa, non deve farlo nel segreto, sia perché non è evangelico (una lampada non è fatta per essere messa sotto a un letto), sia perché psicologicamente non aiuta: ti fa sentire uno schifo, arrivi a pensare che c’è una parte di te che non può essere amata, e che quindi TU non puoi essere amato. Chiunque, omosessuale o meno, deve accogliere la propria fragilità nella consapevolezza di essere degno di essere amato sempre, non soltanto se sei bravo. Ma questa è un’esperienza che non puoi fare se ti nascondi. Al contrario, uno che è libero di parlare della propria ferita, può cercare di viverla più facilmente in base a ciò che il Magistero ancora propone per tutti, cioè a partire dalla castità, col sostegno dei fratelli e senza paura di parlare delle proprie cadute.
Come rispondere a chi dice che “omosessuali si nasce”?
Veniamo da almeno quarant’anni di indottrinamento mediatico in cui ci è stata trasmessa quest’idea: è un modo per liberarsi da ogni responsabilità e dai sensi di colpa che si pensa siano alla base di quel disagio che in molti hanno provato, e che però non dipende da fattori esterni. I due concetti però non sono equivalenti: dire che c’è una ragione psicologica alla base dell’omosessualità non implica per questo una colpevolizzazione delle proprie pulsioni. Non vuol dire che qualcuno “scelga” di provare attrazione, o ne abbia “colpa”. Noi non scegliamo le nostre ferite, come non scegliamo cosa provare, ma questo non vuol dire che con entrambe le cose non possiamo scegliere cosa farci. Conoscere le motivazioni profonde della propria omosessualità restituisce libertà rispetto a ciò che si prova: se sai perché lo provi, se sai in cosa consiste la tua ferita, sai di cosa hai bisogno davvero e come non rischiare di usare l’altro per colmare il tuo vuoto. A volte tale libertà si riduce solo allo scegliere di chiedere aiuto, ma è comunque una libertà maggiore di chi subisce ciò che prova senza capirlo, lasciando che lo sovrasti.
Recentemente hai ripreso l’insegnamento: ti capita di parlare della tua vita con i tuoi studenti?
La scuola dove ho iniziato a insegnare a settembre, l’ho accolta come un dono della Provvidenza. È un istituto di ispirazione cattolica, c’è una vera attenzione alle persone. La preside mi conosceva, aveva letto i miei libri, sapeva delle testimonianze. I ragazzi hanno scoperto la mia vicenda personale da Internet: un giorno una collega mi ha riferito di averli visti ridacchiare guardando un mio video. Ho affrontato la questione con serenità parlando loro direttamente: “Capisco che possa essere strano avere un insegnante che racconta i suoi fatti privati online. Se volete, affrontiamo il tema in maniera più approfondita e io vi spiego la mia esperienza. Non pretendo che dobbiate capire tutto questo, né è necessario che ne parliamo, ma sono disponibile a rispondere a qualsiasi domanda, se ne avete”. Sono rimasti spiazzati, non volevo si creasse un tabù. È stato molto bello. I ragazzi di oggi, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, mostrano tutti i sintomi psicologici tipici di chi ha ferite dell’identità: dipendenza dalla masturbazione, dal gioco, dalla pornografia, dipendenze affettive varie, incapacità di strutturare amicizie stabili, incapacità di assumersi responsabilità, paura di affrontare i conflitti, ribellione alle regole. Tutti sintomi legati alla ferita dell’identità maschile. Nel confrontarsi con me, tanti hanno riconosciuto che alcune delle cose che dicevo loro gli tornavano.
Sarà ancora possibile raccontare storie come la tua con il Ddl sull’omofobia?
Varare una legge su qualsiasi tema non è una semplice questione amministrativa: essa pone il discrimine fra ciò che è lecito e ciò che non lo è; quindi, per un’errata associazione di idee, divide nella percezione della gente ciò che è bene da ciò che è male. Un comportamento legalizzato sarà percepito come giusto, anche se non è detto che lo sia e viceversa. Pensate alle leggi razziali: migliaia di persone che fino al giorno prima avevano trattato i propri vicini ebrei come amici, dall’oggi al domani iniziarono a credere che fosse giusto perseguitarli. Nel caso di questa legge, il pericolo sta nel fatto che non viene definito cosa si intenda per “discriminazione” e “incitamento all’odio” delle persone omosessuali, rischiando di lasciar passare l’idea che sia interpretabile come discriminatorio, e quindi illegale (e quindi male), tutto ciò che sia contro l’ideologia Lgbt, anche una semplice opinione espressa pubblicamente. Il fatto è che i concetti di discriminazione e di incitamento all’odio non sono misurabili né definiti a livello giuridico. Tutto è rimesso alla discrezione e alla soggettività del giudice. Per questo, il vero movente della legge è limitare la libertà di parola, in quanto chi vuole mettere in galera coloro i quali hanno una visione dell’uomo “tradizionale”, spesso percepisce le affermazioni contrarie alle sue come un’offesa o una critica personale. Il problema non è sempre di chi fa affermazioni presunte “omofobe”, ma spesso è di chi le vive come tali, assolutizzando il senso di persecuzione che si porta addosso. In ogni caso, anche se fosse fatta una legge più chiara nel definire in modo oggettivo il reato di omofobia, essa sarebbe comunque un grave atto di discriminazione anticostituzionale, poiché creerebbe una categoria di persone privilegiata rispetto alle altre contravvenendo al principio della Costituzione che afferma che tutti siamo uguali di fronte alla legge.
Luca Marcolivio
https://lanuovabq.it/it/io-omosessuale-vi-dico-perche-il-ddl-zan-e-contro-la-liberta
di Sabino Paciolla
I primi segnali dell’asfissiante ideologia del politicamente corretto, un potere ideologicamente repressivo della libertà di pensiero e di espressione, sono arrivati, ad esempio, quando la leggenda del tennis Martina Navratilova, apertamente lesbica, è stata espulsa dal consiglio di amministrazione di Athlete Ally, un’organizzazione non profit che promuove l’inclusione LGBT nello sport, della quale è stata per otto anni “ambasciatrice” LGBT, semplicemente perché aveva osato dire che far competere un maschio biologico che si identifica come femmina “È folle ed è un imbroglio”. Poi, ma è solo un altro esempio tra i tanti, è arrivato il linciaggio morale dell’autrice della saga di Harry Potter, J.K. Rowling, solo perché aveva scritto un tweet sarcastico in cui obiettava sulla definizione di “persona che mestrua” usata per non dire “donna”, parola che avrebbe incontrato l’opposizione delle lobby LGBT che vogliono rendere neutra e fluida l’essenza della persona eliminando ogni riferimento al suo sesso biologico. Quindi il linciaggio di Arcilesbica perché ha preso varie posizioni come quella nei confronti della CGIL contro la dizione sfumata di “gestazione per altri”, un modo per dire quello che non si può dire, cioè “utero in affitto”, perché, come dice Arcilesbica, “La surrogazione di maternità non è un nuovo diritto, ma un nuovo asservimento”, oppure l’opposizione alle femministe perché si sono espresse contro la proposta di legge Zan su Omofobia.
Sono solo alcuni degli esempi che hanno portato la sinistra liberal a prendere coscienza di quello che da anni altri stanno dicendo, e cioè che nella nostra società ha preso piede una fortissima cultura fatta di politicamente corretto, che trova la sua base nella omologazione del pensiero che soffoca il libero dibattito. Una cultura sostenuta da potenti lobbies finanziarie, culturali e dello spettacolo che trova nelle forze LGBT la sua massima espressione visiva.
E’ per questo che tale sinistra liberal ha sentito oggi la forte esigenza di scrivere un manifesto che denuncia questo tentativo repressivo di cui essa stessa è l’artefice. Prova ne sia che nel documento stesso, che più sotto vi presentiamo, si continua a riscontrare quella presunta superiorità culturale nei confronti delle altre forze politiche e culturali che ad essa non sono coerenti. Curioso infatti quando scrivono che “Le forze dell’illiberismo si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia”. Curioso veramente, perché il loro manifesto dice, senza volerlo, che è proprio il loro retroterra culturale che sta soffocando la democrazia e la libera espressione del pensiero, basti vedere gli esempi sopra menzionati.
Nonostante questa carenza di onestà intellettuale, che impedisce loro di andare alla radice di quel pensiero omologante, è comunque interessante che questo manifesto sia stato pubblicato e che abbia raccolto la firma della crema della intellettualità liberal.
Rowling si dice orgogliosa di mettere la sua firma a «questa lettera in difesa di un principio fondamentale di una società liberale: dibattito aperto e libertà di pensiero e parola». Il documento porta la firma anche di Margaret Atwood, riferimento culturale delle neotransfemministe e distantissima dalle posizioni dell’autrice di Harry Potter, e della signora del femminismo Gloria Steinem. Vi sono le firme di David Brooks e Bari Weiss del New York Times, e quella dell’Atlantic George Packer. A scrittori del calibro di Salman Rushdie, Kamel Daoud, Malcolm Gladwell. Ai politologi Noam Chomsky e Francis Fukuyama. Ci sono anche il grande maestro di scacchi russo Garry Kasparov, la storica Anne Applebaum, il penalista Ronald S. Sullivan Jr (decano di Harvard epurato dopo essere entrato nella squadra legale di Harvey Weinstein), il linguista Steven Pinker e lo psicologo Jonathan Haidt.
Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto
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Le nostre istituzioni culturali si trovano ad affrontare un momento di prova. Le potenti proteste per la giustizia razziale e sociale stanno portando a richieste di riforma della polizia, insieme a richieste più ampie per una maggiore uguaglianza e inclusione in tutta la nostra società, non da ultimo nell’istruzione superiore, nel giornalismo, nella filantropia e nelle arti. Ma questa necessità di fare i conti ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti morali e di impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e di tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico. Mentre applaudiamo il primo sviluppo, alziamo la voce anche contro il secondo. Le forze dell’illiberismo si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta una vera minaccia per la democrazia. Ma non si deve permettere che la resistenza si indurisca nel suo stesso marchio di dogma o di coercizione – che i demagoghi di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se ci pronunciamo contro il clima di intolleranza che si è instaurato da tutte le parti.
Il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale, si fa ogni giorno più stretto. Se da un lato ci aspettiamo questo da parte della destra radicale, dall’altro la censura si sta diffondendo sempre più nella nostra cultura: un’intolleranza di opinioni opposte, una moda per la vergogna pubblica e l’ostracismo, e la tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una certezza morale accecante. Sosteniamo il valore di un confronto robusto e persino caustico da tutti i punti di vista. Ma è ormai fin troppo comune sentire appelli per una punizione rapida e severa in risposta alle trasgressioni percepite del discorso e del pensiero. Ancora più preoccupante è il fatto che i leader istituzionali, in uno spirito di controllo del danno in preda al panico, stiano emettendo punizioni affrettate e sproporzionate invece di riforme ponderate. Gli editori (giornalisti, ndr) vengono licenziati per aver pubblicato articoli controversi; i libri vengono ritirati per presunta falsità; ai giornalisti viene impedito di scrivere su certi argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere letterarie in classe; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico sottoposto a peer-reviewed; e i capi delle organizzazioni vengono estromessi per quelli che a volte sono solo errori maldestri. Qualunque siano gli argomenti riguardo ad ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza la minaccia di una rappresaglia. Stiamo già pagando il prezzo di una maggiore avversione al rischio tra gli scrittori, gli artisti e i giornalisti che temono per il loro sostentamento se si allontanano dal consenso, o addirittura mancano di sufficiente zelo nell’essere in accordo.
Questa atmosfera soffocante finirà per danneggiare le cause più vitali del nostro tempo. La restrizione del dibattito, sia da parte di un governo repressivo sia da parte di una società intollerante, danneggia invariabilmente coloro che non hanno potere e rende tutti meno capaci di partecipazione democratica. Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, la discussione e la persuasione, non cercando di metterle a tacere o di allontanarle. Rifiutiamo ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi e persino agli errori. Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede senza conseguenze professionali. Se non difendiamo ciò da cui dipende il nostro lavoro, non dobbiamo aspettarci che sia il pubblico o lo Stato a difenderlo per noi.
Elliot Ackerman Saladin Ambar, Rutgers University Martin Amis Anne Applebaum Marie Arana, author Margaret Atwood John Banville Mia Bay, historian Louis Begley, writer Roger Berkowitz, Bard College Paul Berman, writer Sheri Berman, Barnard College Reginald Dwayne Betts, poet Neil Blair, agent David W. Blight, Yale University Jennifer Finney Boylan, author David Bromwich David Brooks, columnist Ian Buruma, Bard College Lea Carpenter Noam Chomsky, MIT (emeritus) Nicholas A. Christakis, Yale University Roger Cohen, writer Ambassador Frances D. Cook, ret. Drucilla Cornell, Founder, uBuntu Project Kamel Daoud Meghan Daum, writer Gerald Early, Washington University-St. Louis Jeffrey Eugenides, writer Dexter Filkins Federico Finchelstein, The New School Caitlin Flanagan Richard T. Ford, Stanford Law School Kmele Foster David Frum, journalist Francis Fukuyama, Stanford University Atul Gawande, Harvard University Todd Gitlin, Columbia University Kim Ghattas Malcolm Gladwell Michelle Goldberg, columnist Rebecca Goldstein, writer Anthony Grafton, Princeton University David Greenberg, Rutgers University Linda Greenhouse Rinne B. Groff, playwright Sarah Haider, activist Jonathan Haidt, NYU-Stern Roya Hakakian, writer Shadi Hamid, Brookings Institution Jeet Heer, The Nation Katie Herzog, podcast host Susannah Heschel, Dartmouth College Adam Hochschild, author Arlie Russell Hochschild, author Eva Hoffman, writer Coleman Hughes, writer/Manhattan Institute Hussein Ibish, Arab Gulf States Institute Michael Ignatieff Zaid Jilani, journalist Bill T. Jones, New York Live Arts Wendy Kaminer, writer Matthew Karp, Princeton University Garry Kasparov, Renew Democracy Initiative Daniel Kehlmann, writer Randall Kennedy Khaled Khalifa, writer Parag Khanna, author Laura Kipnis, Northwestern University Frances Kissling, Center for Health, Ethics, Social Policy Enrique Krauze, historian Anthony Kronman, Yale University Joy Ladin, Yeshiva University Nicholas Lemann, Columbia University Mark Lilla, Columbia University Susie Linfield, New York University Damon Linker, writer Dahlia Lithwick, Slate Steven Lukes, New York University John R. MacArthur, publisher, writer | Susan Madrak, writer Phoebe Maltz Bovy, writer Greil Marcus Wynton Marsalis, Jazz at Lincoln Center Kati Marton, author Debra Mashek, scholar Deirdre McCloskey, University of Illinois at Chicago John McWhorter, Columbia University Uday Mehta, City University of New York Andrew Moravcsik, Princeton University Yascha Mounk, Persuasion Samuel Moyn, Yale University Meera Nanda, writer and teacher Cary Nelson, University of Illinois at Urbana-Champaign Olivia Nuzzi, New York Magazine Mark Oppenheimer, Yale University Dael Orlandersmith, writer/performer George Packer Nell Irvin Painter, Princeton University (emerita) Greg Pardlo, Rutgers University – Camden Orlando Patterson, Harvard University Steven Pinker, Harvard University Letty Cottin Pogrebin Katha Pollitt, writer Claire Bond Potter, The New School Taufiq Rahim, New America Foundation Zia Haider Rahman, writer Jennifer Ratner-Rosenhagen, University of Wisconsin Jonathan Rauch, Brookings Institution/The Atlantic Neil Roberts, political theorist Melvin Rogers, Brown University Kat Rosenfield, writer Loretta J. Ross, Smith College J.K. Rowling Salman Rushdie, New York University Karim Sadjadpour, Carnegie Endowment Daryl Michael Scott, Howard University Diana Senechal, teacher and writer Jennifer Senior, columnist Judith Shulevitz, writer Jesse Singal, journalist Anne-Marie Slaughter Andrew Solomon, writer Deborah Solomon, critic and biographer Allison Stanger, Middlebury College Paul Starr, American Prospect/Princeton University Wendell Steavenson, writer Gloria Steinem, writer and activist Nadine Strossen, New York Law School Ronald S. Sullivan Jr., Harvard Law School Kian Tajbakhsh, Columbia University Zephyr Teachout, Fordham University Cynthia Tucker, University of South Alabama Adaner Usmani, Harvard University Chloe Valdary Lucía Martínez Valdivia, Reed College Helen Vendler, Harvard University Judy B. Walzer Michael Walzer Eric K. Washington, historian Caroline Weber, historian Randi Weingarten, American Federation of Teachers Bari Weiss Sean Wilentz, Princeton University Garry Wills Thomas Chatterton Williams, writer Robert F. Worth, journalist and author Molly Worthen, University of North Carolina at Chapel Hill Matthew Yglesias Emily Yoffe, journalist Cathy Young, journalist Fareed Zak |
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