L'era delle Big e la piccola Chiesa al loro traino
Viviamo nell’era dei Big. Big Pharma, Big Tech, Big Media, Big lobby il cui tratto caratteristico è il potere concentrato in poche mani con capacità di influenza dei pensieri e delle condotte a livello mondiale. Anche la Chiesa sarebbe una Big, ma va al loro traino.
The Big Age. A guardar bene il nostro mondo, potremmo dire che viviamo nell’era dei Big. Le prime «Big» che oggi ci vengono in mente sono le Big Pharma, ossia i colossi farmaceutici. Ma poi vi sono le Big Tech tra cui Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, riunite nell’acronimo Gafam. Altri «Big» sono le società finanziarie e le società di rating. A seguire si possono citare le Big Media, i giganti dell’informazione a livello mondiale. Oppure le lobby: ambientaliste, femministe, LGBT, etc. Anche in Italia abbiamo i nostri «Big», seppur in formato ridotto: pensiamo alle procure, ad esempio.
Qual è la carta d’identità delle Big? Il tratto caratteristico è il potere, un potere concentrato in poche mani - un’oligarchia – mani che spesso si stringono tra loro (noi non possiamo farlo, ma loro sì). Ma cosa significa «potere» in questo caso? Vuol dire capacità di influenza nei pensieri e quindi nelle condotte a livello mondiale (o nazionale). Alcuni esempi molto intuitivi. La narrazione del Covid elaborata dai media è a senso unico e il tasto su cui si batte maggiormente è la paura. La paura condiziona le masse ad agire in un certo modo: massima attenzione ai dispositivi di protezione individuale, adeguamento prono alle direttive del governo, disponibilità a cambiare le proprie abitudini di vita per un lungo periodo, etc.
Le Big Pharma hanno imposto ai governi di mezzo mondo il vaccino come unica scialuppa di salvataggio per uscire dalla pandemia. Tale decisione ha avuto ovviamente ricadute enormi sulla vita di miliardi di persone, se solo pensiamo agli infiniti lockdown che i cittadini hanno dovuto subire nell’attesa dell’avvento della fiala magica. Le Big Tech, è fatto noto, anche prima del Covid hanno plasmato non solo le abitudini di vita – pc, internet, social e shop on line in questo senso sono stati rivoluzionari – ma ancor prima hanno plasmato la forma mentis almeno degli abitanti del mondo occidentale. Gli esempi potrebbero continuare a lungo.
Poniamoci ora un’altra domanda: in che modo i Big disegnano scenari sociali di dimensioni planetarie modellandoli secondo i loro desiderata? Tramite la tecnica. I Big sono la realizzazione più compiuta ed efficiente della tecnocrazia. Per tecnica, in questo caso, vogliamo intendere il possesso di alcune competenze – gli anglofoni userebbero il termine skills – strumentali ad imprimere un certo orientamento al corso degli eventi. Parliamo di competenze tecniche, di strumenti di lavoro sofisticatissimi, efficientissimi. Solo un’abilità tecnica di grande spessore può arrivare a produrre vaccini anti-Covid nel giro di un anno, anche tenendo in conto che questi vaccini, rispetto ai vaccini del passato, sono meno affidabili. Solo uno sviluppo tecnologico assai avanzato permette di costruire piattaforme così performanti come quelle di Google, Facebook, Amazon. Solo l’attento studio delle tecniche di persuasione di massa può convincere mezzo mondo, per bocca di un’adolescente, che la priorità globale sia lo scioglimento dei ghiacciai. In breve, i mezzi in possesso dei Big sono altrettanto «big».
Ma la tecnica è nulla senza le idee. Vuol dire che per diventare uno dei pochi Big Brothers in circolazione non basta avere talento tecnico – saper fare le cose molto bene - occorre anche una visione degli eventi, una vision che deve orientare le capacità tecniche. Ossia è indispensabile possedere la capacità di immaginare scenari mondiali innovativi ma realizzabili, nuovi universi, nuove esistenze, nuovi stili di vita. Occorrono quindi idee, sogni, prospettive che in realtà poi diventano inferni sulla Terra. Ora l’unione di tecnica e immaginazione può muovere enormi capitali e permettere così ad un nerd, che lavorava da mattina a sera nel garage della sua abitazione, di far lavorare un intero pianeta secondo gli obiettivi da lui prefissati.
Superfluo dire che i piani mondiali dei Big non sono i piani di Dio. La Chiesa è in potenza anche lei una Big, perché l’unica agenzia di fondazione divina voluta per la salvezza degli uomini. Anche gli altri Big offrono apparentemente la salvezza – dalla morte (Big Pharma), dalla povertà (società finanziarie), dall’ignoranza (Big Media), dall’anonimato (è il segreto dei social), dalla mancanza di senso (le lobby ambientaliste fanno anche questo) – ma poi uno si ritrova con le manette ai polsi: si propone la libertà da, ma poi ci si ritrova schiavi di.
La Chiesa invece per vocazione è una Big che avrebbe tutte le carte in regola per orientare il destino del mondo. Le sue tecnologie sono i sacramenti, la sua vision è la felicità eterna. E poi ha una diffusione capillare e moltissimi uomini al suo servizio (spesso impreparati). Ma da Big è diventata, perché a rimorchio delle altre Big, molto «little», una specie di ibrido tra una Ong e un network tra varie realtà – religioni, governi, organizzazioni – che dà vita ad iniziative di corto cabotaggio che portano acqua ai grandi mulini dei colossi prima menzionati, un ibrido meramente funzionale agli scopi perseguiti da questi ultimi. La Chiesa sta appassendo all’ombra dei veri Big.
Tommaso Scandroglio
https://lanuovabq.it/it/lera-delle-big-e-la-piccola-chiesa-al-loro-traino
LA SOCIETA’ ANALGESICA
Se abbiamo mal di testa, ricorriamo immediatamente agli antidolorifici. Se soffriamo per un insuccesso, una perdita o un’assenza, o ci sentiamo un po’ tristi, passiamo agli ansiolitici. Non abbiamo più la forza – la fortezza- di accettare, sopportare, superare autonomamente, con le risorse del corpo e dell’anima, il dolore, la sofferenza, la difficoltà. La nostra è una società analgesica. L’esperienza del dolore – fisico, morale, spirituale, psicologico- è considerata intollerabile e priva di senso. La filosofia e le religioni hanno sempre interpretato il dolore come elemento insopprimibile della condizione umana. Esperire il dolore, affrontare la sofferenza significava accettare la drammaticità della vita e conferirle significato. Per il cristianesimo, il dolore era una prova da superare nel cammino di purificazione e meritare la vera vita, quella celeste. Per l’umanità postmoderna, è semplicemente qualcosa da evitare a ogni costo.
Il mondo contemporaneo è così terrorizzato dalla sofferenza da rinunciare alla libertà pur di non doverla affrontare. Viviamo in quella che Ulrich Beck ha chiamato “società del rischio”, vissuto come anticipazione del dolore e della catastrofe. In fondo, l’intero sistema tecnologico dell’accumulo di dati ha per scopo la minimizzazione dei rischi – economici, ma anche esistenziali – e quindi, indirettamente, l’allontanamento della sofferenza. La società predittiva è una società che tenta di abolire i rischi e i fallimenti con il loro carico di dolore. La sofferenza, tuttavia, non è un elemento statistico, una formula matematica alla quale applicare un algoritmo.
Ne parla con preoccupazione il filosofo coreano di lingua tedesca Byung Chul Han nel recente “La società senza dolore”. Fiero di considerarsi un apocalittico in un mondo di integrati, Han ha analizzato nel tempo la scomparsa dei simboli e dei riti, la destituzione della bellezza, la stanchezza esistenziale dell’individuo post moderno, l’ossessione per la trasparenza, unita alla scomparsa dell’Altro nello sciame digitale. Per Han l’incapacità di rapportarsi al dolore fa sì che l’uomo di oggi si rinchiuda in una bolla di finta sicurezza che si trasforma in gabbia sedativa. Al contrario, è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo, e la pandemia che viviamo, ammantando di infinite cautele la quotidianità, è il sintomo di una condizione che ci precede, il rifiuto collettivo della nostra fragilità.
L’essere umano di oggi, diceva già Simone Weil, è sospeso nel baratro della storia, sempre più convinto dell’insensatezza della sua presenza nel mondo. Per dimenticare l’assenza di significati, cerca lenitivi e paradisi artificiali la cui conseguenza è la perdita delle ultime risorse morali per sopportare il carico di problemi e dolori dell’esistenza. Il rifugio immediato del nichilismo radicale di massa è una medicalizzazione e tecnicizzazione della vita tesa ad allontanare ogni esperienza negativa. L’esito è la debolezza crescente, l’estenuazione, l’incapacità di superare gli ostacoli, l’ostinata rimozione del male, oltreché la perdita di autonomia.
Per Ernst Juenger, il rapporto con il dolore rivela la nostra vera personalità. Han aggiunge che una critica della società è possibile solo attraverso una particolare “ermeneutica del dolore”, ovvero la sua interpretazione come codice di comprensione del presente. Le sofferenze sono fatti, ma anche segni, di cui ci sfugge la natura. Una società terrorizzata dal dolore chiede di vivere in una permanente anestesia. Diventa cioè dipendente dell’anestetico –un farmaco, una droga, il consumo compulsivo o qualsiasi altro analgesico esistenziale- e da chi lo dispensa. Scacciare il dolore ha benefici effetti immediati, ma resta una terapia palliativa. Il risultato è la fuga dal conflitto per evitare confronti dolorosi. Buyng Chul Han definisce questa strana condizione “algofobia”, paura del dolore, scoprendo che anch’essa è un’astuzia del potere. Anziché lottare, ci si abbandona al sistema, a chi comanda, alla sua inevitabilità, sotto pena di dover fare i conti con la sofferenza. La società politica è anch’essa analgesica: non affronta di petto i problemi, non progetta né realizza cambiamenti incisivi: potrebbero “far male”. Terminato l’effetto del farmaco, torniamo al punto di partenza. La chiave di tutto è la volontà di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo, e il dolore è la negatività per antonomasia.
La ricerca della felicità fu posta come diritto naturale dalla costituzione americana. Se non la felicità, almeno un apparente benessere è oggi ottenibile per via medica. Dall’America, avanza un’ideologia del benessere conseguito attraverso farmaci assunti su larga scala da persone sane. Uno studioso del dolore, David B. Morris, fu il primo a osservare - inascoltato- che vive una generazione, la prima al mondo, “che considera l’esistenza priva di dolore una sorta di diritto costituzionale. Le sofferenze sono uno scandalo”. La ricerca di supporti farmaceutici coincide con l’ansia da prestazione. Dobbiamo realizzare ogni dì nuove performance – nel lavoro competitivo, nel sesso, nel tempo libero. Non farcela ci procurerà dolore; la sofferenza è un passivo dell’esistenza agonistica da tenere a bada con ogni mezzo.
Più in profondità, questo è un tempo in cui nulla deve “far male”, offendere, suscitare dibattito. Si aboliscono gli spigoli, i conflitti e le contraddizioni: provocano dolore, allontanano il piacere, declinato nella forma più analgesica e immediata di tutte: mi piace, il like dei social media. La disapprovazione produce dolore, molto meglio dire, fare, pensare come la maggioranza. Anche il dissenso dà dolore, non far parte dei più provoca sofferenza. Il dolore viene depoliticizzato, derubricato a questione medica: sii felice, consiglia il potere, e le masse subalterne non sanno più di essere tali. Il dolore che conta è solo il “mio”: la sofferenza è privatizzata. Ognuno ha lo sguardo puntato su se stesso, attento a ogni sintomo di dolore da contrastare “tecnicamente “. Gli analgesici, prescritti in grandi quantità e assunti in massa, nascondono le circostanze sociali che inducono il dolore. La medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che la sofferenza si faccia linguaggio, cioè giudizio e critica, sottraendole il suo carattere collettivo.
Anche nello sport da salotto, quello dei tifosi, è bandita la sofferenza. Le statistiche segnalano un aumento dei sostenitori di tre- quattro grandi squadre a scapito di tutte le altre. Vogliamo vincere facilmente e non soffrire, neanche per interposta squadra del cuore. Diventa un retaggio di un oscuro passato la formula del Ruzzante, caustico commediografo del Cinquecento: per ogni gaudenza ci vuole sofferenza. Eppure è così. L’ gioia di aver superato gli ostacoli, di impegnarsi faticosamente in una sfida attraverso l’impegno, con la costanza come abitudine, fa orrore all’umanità che vuole tutto e subito, con un clic, una compressa o una punturina. Il “tempo reale” esclude l’attesa, inutile tempo morto che fa soffrire.
La mercificazione di tutto è un potente alleato della società analgesica. Per essere compravenduto, un prodotto deve piacere, ma per andare incontro ai gusti del pubblico, vanno eliminate le difficoltà, le rotture. Dolore e commercio si escludono. Il dolore, infine, è esperienza; la vita che rifiuta qualsiasi dolore è reificata, diventa cosa, prigioniera dell’Uguale. Chi è incapace di soffrire è incline alla resa: non combatterà mai per un’idea o un principio. Il servo resta prigioniero del Signore per accidia e timore delle conseguenze. Finiscono le passioni; lo dice la parola stessa che allude al patire, ma la felicità, quando arriva, è un attimo di intensità estrema che non può essere percepito senza il suo opposto, il dolore. Se questo viene soffocato, anestetizzato, anche la felicità si degrada ad apatico torpore.
Una società analgesica è una società della sopravvivenza. Ce lo ha mostrato la pandemia. La vita diventa una macabra danza di superstiti avvolti dal timore della morte. La paura del dolore – algofobia- si fa tanatofobia, nel tempo in cui la morte, lungamente rimossa, riaffiora, torna centrale per sovraesposizione mediatica. Davanti a lei, non più Sorella Morte o trapasso a una dimensione ulteriore, è accettata senza opporre resistenza qualunque limitazione di libertà, di ogni diritto, di ogni condotta che “prima” rendeva degna e umana la nostra esistenza. La società si organizza in chiave immunologica, circondata da nuove recinzioni. I confini derisi diventano una speranza. Torna il nemico, in forma invisibile, latore di sofferenza e di morte. Per Monsieur Teste, personaggio di Paul Valéry, il dolore è una cosa, un terribile oggetto, mero strazio. Se non ha senso, non ce l’ha neppure la nostra vita. Monsieur Teste è il padre legittimo dell’umano postmoderno, ipersensibile al dolore perché ne ha orrore. Teste ausculta continuamente l’interno del suo corpo, in un’introspezione che è insieme ipocondriaca e narcisistica.
Per Han, l’uomo postmoderno soffre di una sindrome curiosa: quella della “principessa sul pisello”. Nella fiaba di Andersen, un pisello sotto il materasso provoca dolore alla principessa e non la lascia dormire. La sua ipersensibilità è la nostra: soffriamo sempre più- corpo e anima – per cose sempre più piccole. Il processo diventa circolare: rimosso il pisello, inizieremo a lamentarci per i materassi troppo morbidi. La vera causa del male è la convinzione dell’insensatezza del vivere. Il dolore è una forza elementare che siamo incapaci di far sparire. Capì tutto Juenger: “il dolore viene respinto ai margini per fare spazio a un benessere mediocre”. Tanto mediocre da diventare noia: un dolore dell’anima diluito nel tempo sino a diventare tedio, male di vivere.
Un fenomeno solo apparentemente inspiegabile, nella società analgesica, è il diffondersi, specie tra i più giovani, dell’autolesionismo. Invece, è un chiaro meccanismo di sostituzione. Il dolore dell’anima, di cui il nichilismo pratico è componente decisiva, non trova altro rimedio che un sedativo uguale e contrario, omeopatico: combattere la sofferenza dello spirito svuotato con il dolore fisico, la ferita corporea, visibile e concreta, gettata in faccia all’indifferenza universale. L’autolesionismo è un grido di aiuto, un SOS dei giovani che resta inascoltato perché è la società degli adulti ad avere diffuso la mancanza di senso.
Il vero è sempre doloroso: per questo si dice che la verità fa male. La sua abolizione post moderna, tuttavia, è anche peggio e produce un altro dolore, quello della mancanza, dell’abolizione dell’appartenenza, la perdita della comunità. Si chiama nostalgia, dolore del ritorno. Ma senza sofferenza non amiamo né viviamo: sacrifichiamo la vita in nome di un provvisorio comfort. Anche il vincolo è dolore: chi lo rifiuta, lo fa per sottrarsi alla sofferenza dell’intensità, del legame che può far male. L’amore diventa consumo che considera l’altro un prodotto usa e getta: amore e desiderio fanno soffrire. L’esperienza dolorosa fa “sentire”. Nel vernacolo di alcune vallate toscane, per descrivere un dolore, si dice “mi sente un dente, mi sente la testa”.
La società analgesica tronca la percezione del dolore fisico e combatte la sofferenza interiore affidandole a un’effimera cancellazione per via chimica. In Nemesi medica, Ivan Illich scrisse “in una società anestetizzata occorrono stimoli sempre più forti perché si abbia il senso d’esser vivi. La droga, la violenza, l’orrore diventano stimolanti che, in dosi sempre più potenti, riescono ancora a suscitare l’esperienza dell’Io”. E non di rado a schiacciarla per il terrore di rimanere soli con il proprio Sé. Da qualunque lato la si osservi, la società analgesica è una dipendenza, imposta dall’alto da un dispositivo che sorveglia e controlla le nostre vite, neutralizzandole a partire dell’esperienza del soffrire.
Friedrich Nietzsche, sensibilissimo sismografo in anticipo di un secolo, intuì che dalla vita sarebbe scomparso il “tragico”, che afferma la vita nonostante il tormento. L’anestesia prolungata ci priva del linguaggio, il dolore diventa una questione medica, regolata da professionisti in camice bianco, che fanno cessare la sofferenza producendo un progressivo ottundimento spirituale. Ne La Gaia Scienza, lo stesso Nietzsche pronuncia parole decisive: “non siamo ranocchi pensanti, apparecchi per obiettivare e registrare, dei visceri congelati; noi dobbiamo generare i nostri pensieri dal nostro dolore e maternamente provvederli di tutto quello che abbiamo in noi di sangue, fuoco, cuore, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, fatalità”. La società palliativa dichiara il contrario, immergendoci in un’apparente, amniotica “assenza di dolore” che rifugge convulsamente il negativo senza affrontarlo. E’ l’eterno ritorno dell’Uguale volgarizzato, poiché senza dolore non c’è neppure cambiamento, rinnovamento, rivoluzione; in definitiva non c’è Storia.
Forse anche per la latitanza forzata del dolore l’arte contemporanea è così degradata. Oggetto di consumo tra gli altri, destituita di fondamento, lontana dalla forma umana e dal racconto della realtà, ridotta a happening, bizzarria non di rado indotta dalle droghe, creatività senza intuizione lirica né concreta espressione.
Persino l’immagine della violenza nella società palliativa e disciplinare è una forma di consumo che rende insensibili. Per eccesso, ci rendono indifferenti al dolore altrui: l’Altro scompare, diventa oggetto. In quella forma non fa male. In tempi di pandemia, la sofferenza altrui si dissolve in statistica: il numero dei casi, la percentuale sui tamponi eseguiti, il numero dei morti diviso per regioni e fasce di età. Il “distanziamento sociale” produce la perdita di empatia. Evitare di esperire il dolore ci rende automi con una sorta di callosità interiore alimentata dalla virtualità digitale.
“Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. “Non troviamo nulla di più efficace che le parole di Zarathustra per descrivere la società analgesica convinta di aver abolito il dolore. Non esistono, per fortuna, solo gli ultimi uomini, ridicoli inventori di un’opaca felicità artificiale. Alcuni, come i poeti, restano in piedi a denti stretti. Il poeta è un fingitore, finge che sia dolore il dolore che davvero sente (Fernando Pessoa).
LA SOCIETA’ ANALGESICA
di Roberto Pecchioli
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